Introduzione Questa tesi nasce come tentativo di esplorare e, per quanto
possibile, approfondire, un tema sempre attuale: il regime
costituzionale dei Culti acattolici.
L’elaborato inizia la sua indagine partendo dal rapporto tra le
Confessioni religiose e la Costituzione italiana, legame espresso
intensamente dall’art. 8 della stessa Costituzione, che così recita: “
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di
Intese con le relative rappresentanze.” In merito alle “Intese tra Stato e confessioni religiose” ci si è
concentrati in particolar modo sul pensiero, dei giuristi italiani, che
è emerso in un convegno svolto a Parma nei giorni 1 e 2 aprile del
1977.
Dopo questa prima parte, la tesi prosegue focalizzando
maggiore attenzione sui nuovi fenomeni religiosi e specificatamente
sul caso della Chiesa di Scientology che conta milioni di seguaci,
fra adepti e proseliti, in molte parti del mondo. Si è cercato di
individuare le cause della nascita e del continuo proliferare di
questa “associazione religiosa”, di capire quale sia il vero legame,
se c’è ne fosse uno, tra l’”ente di natura associativa” Scientology e
la religione, e , pur ammettendo il carattere religioso, quale sia il
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concetto di “Dio denaro” che viene espresso da quella che è
definita la religione più costosa della terra, date le incessanti
richieste di soldi che vengono fatte ai suoi seguaci.
Questa tesi si conclude con una sentenza definitiva, sempre
sul caso Scientology, quella che nell’anno 2000 chiude la
ventennale causa milanese, una causa per nulla facile da
interpretare per i giudici e caratterizzata da diverse sentenze, nel
corso dei processi, molto discordanti tra loro.
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CAPITOLO I CONFESSIONI RELIGIOSE § I.1 - LE CONFESSIONI RELIGIOSE NELLA
COSTITUZIONE Le confessioni religiose di cui l’art. 8 cost. stabilisce la
uguale libertà, appartengono alla categoria delle formazioni sociali
ove si svolge la personalità dell’uomo. Come per altre formazioni
sociali tipiche (e segnatamente i partiti e i sindacati), il Costituente
mostra di riferirsi ad entità già note e determinate, o determinabili,
ma in realtà si tratta di un ‘espressione di nuovo conio, estranea al
lessico del legislatore. Questi fino allora (in particolare nella l. 24
giugno del 1929, n, 1159) aveva adoperato il termine culti, dando
rilevanza a ciò che di specifico (almeno secondo le “ religioni del
libro ” : cristianesimo, ebraismo e islam) ma anche di esteriore è
nello scopo dei gruppi religiosi: una sineddoche, dunque, rivelatrice
della concezione quanto meno riduttiva che del diritto di
associazione avevano, sia pure per approcci diversi, tanto lo Stato
liberale quanto lo Stato fascista e che non poteva non apparire
fuorviante nel quadro del pluralismo sociale accolto dal Costituente.
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La specifica scelta lessicale è segnata, tuttavia, dall’origine
della norma, concepita come emendamento aggiuntivo a quella
( art.5, poi divenuto art. 7 ) sulla chiesa cattolica in un’ottica di
riequilibrio e di riduzione del danno che da esso poteva derivare
alla condizione giuridica delle altre chiese.
Si ritenne poi di ovviare all’improprietà di questo termine
con l’uso di quello confessioni, che compare nella formulazione
successivamente concordata dell’emendamento. Ma il risultato non
poteva migliorare, trattandosi di un termine anch’esso interno alla
tradizione occidentale del cristianesimo dopo la riforma protestante,
che , una volta affermato il principio di libertà dell’interpretazione
della Scrittura, produsse una serie di documenti dottrinali,
denominati confessioni di fede, a cominciare dalla storica
Confessione augustana del 25 giugno 1530.
A seconda del carattere nazionale o transnazionale queste
confessioni hanno dato origine a chiese nazionali ovvero a
denominazioni o, in senso traslato, confessioni, distinte tra loro e
rispetto alla più ampia società civile in un quadro volutamente
frammentato: a differenza della concezione “ olistica” del din-
dunja-dawla, religione-mondo-stato, propria dell’islam, o del
fenomeno tradizionalmente unitario dell’ebraismo, non solo una
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religione, né solo una memoria ( tanto meno una razza), ma
piuttosto una civiltà.
Ed è appunto nell’accezione traslata di aggregati sociali,
unificati dalla comunanza di fede, che l’art. 8 adopera il termine
confessione, ma, nonostante la specificità del suo riferimento
storico all’esperienza cristiana, in maniera estensiva e tale da
abbracciare non solo le confessioni cristiane, compresa la chiesa
cattolica, ma anche le aggregazioni non cristiane.
La riferibilità illimitata, denotata dall’aggettivo “tutte” ,
della locuzione a qualsiasi espressione religiosa si ricava da una
serie univoca di indicatori: a) la presenza tra i culti già ammessi
allo Stato in base alla l. n. 1159, cit., e che non potevano, pertanto,
non ricomprendersi nella nuova categoria, anche di quello ebraico,
le cui comunità erano regolate dal r.d. 30 ottobre 1930, n.1731, ed
erano ben note all’Assemblea costituente, cui la loro Unione aveva
rivolto un appello; b) la mancanza di un riferimento ai soli culti
tradizionali, come si desume a contrario dalla conseguente
preoccupazione espressa dal presidente della prima
sottocommissione, Ruini, che oltre alle confessioni venerate,
rispettabilissime, che tutti conosciamo, potrebbero sorgere culti
strani , bizzarri che non corrispondessero all’ordinamento giuridico
italiano; c) la mancanza di condizioni o indici sintomatici di una
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limitazione del riconoscimento ad un numero comunque ristretto di
confessioni: una visione datata del Costituente, una sua maggiore
dipendenza dalla cultura dominante nel suo tempo si osservano
piuttosto nella disciplina di altre formazioni sociali, come , per
esempio, la famiglia fondata sul matrimonio (art. 29) o il sindacato
obbligato alla registrazione e, quindi, ad avere uno statuto con
ordinamento su base democratica ( art.39)
Di conseguenza, anche nel settore delle confessioni religiose
l’assetto pluralistico risulta orientato verso la più estesa
legittimazione delle espressioni della società civile in modo da
evitare ogni sorta di cristallizzazione o ossificazione. Non è che
una conseguenza di questo criterio poco selettivo, non articolato su
“gerarchie” di valori, seguito dal Costituente nel riconoscimento
delle formazioni sociali la mancanza di una definizione, come del
sindacato o del partito, così anche delle confessioni. Come dimostra
anche la vicenda della formazione dell’art. 39 sulla libertà
sindacale con il superamento di una visione della categoria
professionale come un prius ontologico rispetto al sindacato, è,
infatti, incompatibile con il modello pluralistico una visione
organicistica delle formazioni sociali, pregiudicata cioè dalla
istituzionalizzazione di un loro rapporto organico con una
determinata categoria di interessi. Vale piuttosto il modello
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funzionale, per cui è famiglia, sindacato, confessione, partito, ecc.
quella formazione sociale che si mostra in concreto, nella prassi
sociale, funzionale allo svolgimento della persona umana sotto il
profilo familiare, sindacale, religioso, politico.
Se la mancata definizione delle confessioni religiose non
dipende, quindi, da difficoltà o inconvenienti emersi nel dibattito
costituente ma dalla necessità di non limitare con una definizione
precostituita e per ciò stesso restrittiva l’ampia libertà religiosa
assicurata con la normativa costituzionale, ne consegue
l’irragionevolezza di un esito contrario a quello voluto dal
Costituente, raggiunto attraverso una definizione elaborata per via
interpretativa, che risulterebbe illegittima nella misura in cui
circoscriva il fenomeno sociale a finalità religiosa ed escluda
aggregati di una nuova formazione o provenienza dalle garanzie
insite nell’art. 8. Scartata l’ambizione selettiva, è coerente con
l’impianto costituzionale pluralistico adottare il metodo induttivo
per individuare, invece che definire, la confessione religiosa a
partire non dall’indefinibile essenza, il “religioso”, ma dagli
elementi estrinseci che essa presenta in comune con le altre
formazioni sociali.
Sotto quest’aspetto le confessioni religiose, come tutte le
altre confessioni sociali, si compongono di un elemento materiale
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( una plurisoggettività organizzata ) e di uno ideale, riguardabile
sotto il profilo teologico ( scopo della formazione, che nel caso è
religioso ) e psicologico ( coscienza, se non proprio volontarietà,
dell’aderente di perseguire quello scopo ); con l’avvertenza, essa
pure comune a tutte le formazioni sociali, che lo scopo deve
trascendere l’interesse dei singoli aderenti e non coincidere con
quello generale dello Stato e, anzi, nel caso delle confessioni
religiose, deve appartenere ad un altro ordine ( arg. ex art. 7 comma
1 cost. ).
L’elemento materiale è costituito dalla plurisoggettività
organizzata e, quindi, innanzitutto dalla presenza di due o più
soggetti persone fisiche. Il numero degli aderenti non è, per se,
determinante: il comma 1 dell’art. 8 non ne fa cenno e trova così la
sua piena valorizzazione proprio nell’uguale libertà che, non
valendo il numero, è riconosciuta anche ai gruppi più esigui. Non
bisogna , del resto, trascurare che il fenomeno religioso è
ordinariamente transnazionale, per cui potrebbe accadere che ad
agire o addirittura a richiedere il riconoscimento sia un gruppo
formato da pochi ministri di culto di una confessione già diffusa
all’estero come nel caso delle “ Assemblee di Dio in Italia “ , al cui
riconoscimento il Consiglio di Stato espresse il parere contrario che
fanno legittima opera di proselitismo nel nostro Paese.
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Piuttosto il numero di aderenti vale indirettamente come
garanzia di durata, o di stabilità, che, pur non essendo
espressamente prevista da alcuna norma viene considerata “
consustanziale “ al fenomeno associativo in generale. In questo
senso il numero degli aderenti deve essere sintomatico di una
relativa stabilità, con una trama di rapporti e relazioni, cioè,
indipendentemente dall’identità degli individui coinvolti nel
sistema sociale in un dato momento e non necessariamente al di la
della durata della vita di queste, com’è proprio della stabilità
istituzionale. Una stabilità così assoluta sarebbe, invero,
imprescindibile solo se le confessioni religiose dovessero in
defettibilmente essere istituzionalmente organizzate, dotate degli
ordinamenti propri degli ordinamenti giuridici e, precisamente, di
ordinamenti autonomi istituzionali, non derivati dallo Stato stesso
nella loro costituzione, ma dipendenti dal medesimo nella loro vita
ed attività. Secondo questa concezione le confessioni religiose si
porrebbero a metà strada tra le associazioni religiose ( garantite
dagli art. 19 e 20 cost.), prive di ogni organizzazione statuaria
propria più o meno istituzionale e la Chiesa cattolica ( art. 7 cost.),
ordinamento indipendente dallo Stato: a differenza delle
associazioni sarebbero necessariamente ordinamenti istituzionali,
ma, a differenza della Chiesa cattolica, dipendenti dallo Stato 9