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2.4 Abilità specifiche e plasticità neuronale
- Linguaggio e plasticità neuronale
Lo sviluppo del linguaggio dipende dall’integrità di circuiti neurologici specifici e
dal contatto con altri parlanti in un periodo critico che si colloca tra la prima infanzia
e la pubertà.
I soggetti esposti al linguaggio fin dalla nascita e dalla prima infanzia mostrano
livelli di competenza linguistica più alti, nel caso, invece, di mancato contatto
verbale si configura un marcato deficit di sviluppo. Un importante contributo si deve
agli studi di Broca e Wernicke, i quali hanno dimostrato che il linguaggio è una
facoltà biologica dotata di uno specifico substrato anatomico e funzionale. Tale
nozione si deve allo studio fatto su pazienti affetti da un disturbo specifico del
linguaggio (afasia), limitato prevalentemente alla produzione (afasia di Broca) o alla
comprensione (afasia di Wernicke), conseguente a una lesione cerebrale, nella
maggior parte dei casi a carico dell’emisfero sinistro (Denes, 2016). Grazie ai
progressi delle metodiche di neuroimaging funzionale, che permettono di rilevare in
vivo le aree cerebrali attive durante le operazioni linguistiche, è stato possibile
confermare la correttezza del modello di Wernicke – Lichtheim secondo il quale
nell’area di Broca (o 44 di Brodmann), collocata anteriormente all’area motoria
primaria, sono depositati i programmi motori importanti per l’articolazione delle
parole, mentre nell’area di Wernicke (area 22 di Brodmann), posta nella parte
posteriore della circonvoluzione superiore temporale sinistra, avviene il processo di
decodificazione e comprensione del linguaggio. La connessione fra le due aree si
realizza grazie al fascicolo arcuato, che consente una connessione stabile fra le due
aree (Denes, 2016).
La dominanza dell’emisfero sinistro per il linguaggio si sviluppa solo se
l’esposizione al linguaggio avviene nel periodo critico. Se tale processo è ostacolato,
l’emisfero destro sostituisce il controlaterale ma in maniera meno efficace, con una
certa difficoltà di elaborazione delle strutture grammaticali. Inoltre, in letteratura
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sono stati riportati casi di pazienti che, pur essendo affetti dagli esiti di una vasta
lesione all’emisfero sinistro in epoca perinatale, hanno sviluppato il linguaggio
(Denes, 2016), a supporto dell’ipotesi secondo la quale l’emisfero destro ha un ruolo
importante per lo sviluppo del linguaggio. Grazie alla plasticità, soprattutto in caso di
lesione emisferica sinistra estesa, l’emisfero destro è in grado di compensare i deficit
linguistici.
Ciò dimostra che il tessuto cerebrale è dotato di molta plasticità, ma anche la
potenzialità dell’emisfero destro di sviluppare il linguaggio.
- Sistemi di memoria e plasticità cerebrale
La memoria consente alla mente di immagazzinare e recuperare informazioni.
Essa si fonda su un insieme di meccanismi grazie ai quali l’informazione è
codificata, consolidata e richiamata. Maggiore è il livello di analisi dello stimolo, più
forte e duratura è la rappresentazione mnesica. È possibile fare una prima distinzione
tra i meccanismi coinvolti nella memoria a breve termine, dell’informazione e i
processi di memoria a lungo termine.
La memoria a lungo termine non è un sistema unitario, ma è composta da
specifiche componenti, quali: memoria procedurale, episodica o autobiografica, e
semantica, a loro volta divise per l’elaborazione del materiale verbale e non verbale.
Le forme di memoria descritte ricadono in due classi, definite memoria dichiarativa e
memoria non dichiarativa in base al modo in cui avviene il processo di
apprendimento e recupero se in maniera conscia o inconscia. Tali sistemi possono
essere compromessi singolarmente dopo una lesione; anche le varie fasi del processo
mnesico, se compromesse, possono inficiarne singolarmente il processo mnesico
stesso. Capire quali di queste fasi è stata danneggiata è utile per poi programmare il
trattamento riabilitativo; nello specifico, si rafforzerà il processo deficitario
lavorando sul pre-requisito, così da potenziare il più possibile i sistemi coinvolti nelle
varie fasi del processo.
Il cervello, dotato di plasticità, si modifica morfologicamente, funzionalmente e
chimicamente, man mano che si acquisisce un’abilità o un ricordo, creando nuovi
collegamenti neuronali e intensificando quelli già esistenti. Uno degli aspetti più
importanti del processo di consolidamento della memoria è rappresentato dal fatto
che le informazioni apprese sono confrontate con quelle preesistenti per individuare
similarità e differenze. Successivamente, le nuove memorie sono immagazzinate,
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associate a quelle dello stesso tipo o di tipo diverso, garantendo un ordine che sarà
essenziale per la ricerca e il ripescaggio delle informazioni.
La memoria, quindi, non è altro che il risultato di sottili cambiamenti morfologici
e/o funzionali a livello della sinapsi (plasticità sinaptica). I fenomeni di plasticità
sinaptica rappresentano, innanzitutto, un mezzo per la conservazione
dell’informazione, ma anche un mezzo di adattamento alle necessità fisiologiche
dell’organismo e di protezione dalla stimolazione eccessiva, che qualora avvenga,
può portare a fenomeni di “eccitotossicità” e quindi a danni cellulari (Pizzi, 2006).
Alla base dei fenomeni di plasticità sinaptica e di deposito delle informazioni
nella memoria gioca un ruolo fondamentale, infatti, il glutammato; tale
neurotrasmettitore, coinvolto in diverse funzioni cognitive, se in eccesso, può
comportare danni neuronali da eccessiva eccitazione (eccitotossicità) tipici della
malattia di Alzheimer (Previdir, 2021).
La plasticità è alla base dei cambiamenti adattativi dei diversi circuiti. Essa
consente una ristrutturazione delle mappe cerebrali e un miglioramento delle
funzionalità mentali attraverso esperienze di apprendimento, per cui è importante ai
fini della riabilitazione.
Attività cognitive in grado di stimolare nuove connessioni neuronali e di
riorganizzare le mappe corticali possono rendere l’apprendimento in età adulta
un’esperienza efficace e gratificante. Applicare le conoscenze derivate dalle
neuroscienze sulla plasticità può contribuire a promuovere l'apprendimento
permanente. L'apprendimento dipende completamente dall'esistenza della
neuroplasticità (Guglielman, 2014). I fenomeni plastici all’interno del sistema
nervoso centrale (SNC), quindi, costituiscono il presupposto fondamentale per la
formulazione di qualsiasi intervento riabilitativo, utile a contenere o a superare gli
esiti di patologie anche gravi come l’ictus.
Nel tentativo di contrastare i deficit mnesici dell’invecchiamento normale o
patologico, numerosi studi, sia su animali sia sull’uomo, sono stati rivolti alla ricerca
di fattori protettivi che possano incrementare o preservare il patrimonio mnesico: in
particolare l’attività fisica sembra essere un fattore protettivo. L’attività fisica
potenzia la plasticità neurale al punto da favorire i fenomeni di apprendimento e
memoria. Tuttavia, non è chiaro se l’esercizio fisico agisca modificando i fattori di
rischio (vascolari e metabolici) legati all’età, o modificando, da un punto di vista
strutturale o chimico, le aree ippocampali e medio-temporali (Denes, 2016).
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Ad ogni modo, l'esercizio fisico può essere considerato un valido alleato, poiché
potrebbe aumentare l'efficacia dell’intervento riabilitativo nel recupero post ictus.
- Plasticità e consapevolezza corporea
Le sensazioni legate alla percezione del corpo e delle sue singole parti e
l’orientamento rispetto allo spazio intra-ed extracorporeo contribuiscono allo
sviluppo dello schema corporeo (detto anche immagine corporea). Talvolta, pazienti
affetti da una lesione del lobo parietale sinistro presentano una selettiva incapacità a
indicare, sia su comando verbale sia su imitazione, le diverse parti del proprio corpo
e di quello dell’esaminatore (autotopoagnosia). Una lesione del lobo parietale destro
può portare, invece, a una perdita della consapevolezza della metà sinistra del corpo
(emisomatognosia). Il disturbo può riguardare la rappresentazione e consapevolezza
della metà sinistra dello spazio (eminegligenza spaziale o neglect); in altri casi il
deficit porta a una perdita della rappresentazione sinistra del corpo, fino alla
negazione dell’appartenenza della metà sinistra del corpo e di deficit motori e
sensoriali, conseguenti alla lesione cerebrale (anosognosia) (Denes, 2016).
2.5 Plasticità e recupero delle funzioni cerebrali
La plasticità cerebrale, quindi, è il meccanismo alla base degli interventi
rieducativi nei pazienti cerebrolesi. Le modificazioni plastiche, indotte dal
trattamento riabilitativo, si sovrappongono ai cambiamenti cerebrali legati alle
strategie di compenso che il soggetto apprende in maniera spontanea. Grazie alla
messa in atto di interventi riabilitativi specifici si possono produrre nel paziente
profondi cambiamenti plastici cerebrali, oltre che comportamentali.
Il recupero di una funzione avviene in parte in maniera spontanea, tuttavia è
necessario che sia ulteriormente e opportunamente stimolato dall’esterno.
L’allenamento di abilità sensoriali, motorie e cognitive si accompagna a profondi
rimaneggiamenti plastici cerebrali, e a miglioramento delle prestazioni del soggetto
in vari compiti. L’intervento riabilitativo stimola, in particolare, l’attività dei neuroni
e dei circuiti neurali sopravvissuti che andrebbero altrimenti incontro a perdita delle
loro capacità funzionali residue; ciò, produce cambiamenti plastici in specifiche
regioni cerebrali, selettivamente coinvolte nel compito. Il training riabilitativo, se
ripetuto e sufficientemente protratto nel tempo, attiverà i meccanismi di
rimodellamento plastico cerebrale (Di Pellegrino, in Lavadas et al., 2012).
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Il recupero da una lesione cerebrale focale, di natura non progressiva, avviene in
due fasi: innanzitutto vi è un recupero spontaneo, abbastanza rapido, attivo
soprattutto nei primi mesi dopo l’ictus, e poi un recupero più lento, spontaneo e/o
indotto dalla terapia, che può durare per anni.
Dopo un danno cerebrale, il cervello si attiva in maniera spontanea per recuperare
al massimo delle funzioni che sono state danneggiate. Il recupero spontaneo avviene,
soprattutto, nella fase iniziale (fase acuta): il cervello si riorganizza da solo, tuttavia,
l’aiuto esterno da parte dello psicologo, la riabilitazione, sono necessari al fine di
utilizzare nel miglior modo possibile questa spinta che già il cervello ha in maniera
spontanea. L’intervento riabilitativo, finalizzato a stimolare la funzione lesa, accelera
e amplifica il recupero spontaneo. Più l’intervento è precoce più si riesce a
intervenire meglio dato che la plasticità è maggiore nelle fasi iniziali dopo l’evento.
Se il training comportamentale inizia con un certo ritardo, 25 giorni dopo
l’evento, si ottiene un recupero funzionale minore rispetto a quello osservabile
quando la riabilitazione viene iniziata appena 4 giorni dopo la lesione (Biernaskie et
al., 2004). Ciò si verifica in quanto i meccanismi neurobiologici, che favoriscono il
recupero neurologico, hanno un preciso decorso temporale, un proprio iter che
influenza l’outcome riabilitativo del paziente.
Nella fase acuta il recupero spontaneo è ai massimi livelli grazie all’attivazione di
processi di recupero neurale, finalizzati alla risoluzione dell’edema e alla
riperfusione della penombra peri-infartuale. Entro poche ore dall’inizio della
sintomatologia emergono cambiamenti plastici di tipo funzionale, caratterizzati da
alterazioni di eccitabilità neurale e di efficienza sinaptica (Bolognini & Vallar, 2015).
In un secondo momento subentrano cambiamenti plastici strutturali con
rimodellamento delle spine dendritiche, sprouting assonale, sinaptogenesi.
Verso la quarta settimana i circuiti cerebrali si stabilizzano e le possibilità di un
recupero spontaneo del paziente si riducono in maniera drastica, per cui l’ideale
sarebbe avviare la riabilitazione già dopo 1-2 settimane dopo l’evento ictale. Tuttavia
è dopo 3-5 settimane che diviene possibile, superata la pericolosa fase di instabilità
internistica che consegue all’ictus, intervenire con esercizi molto intensivi (Bolognini
& Vallar, 2015). Il recupero spontaneo e quello indotto dalla terapia comportano dei
cambiamenti a livello sia anatomo-funzionale sia clinico.
La fase acuta conseguente all’insorgenza di una lesione cerebrale dovuta ad ictus
si può considerare conclusa dopo circa 6 mesi; il miglioramento delle funzioni
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danneggiate, sia spontaneo sia indotto dal trattamento riabilitativo, può estendersi,
sebbene a un ritmo più lento, anche agli anni successivi.
La plasticità funzionale comprende non solo processi di ripristino e
ristrutturazione dei circuiti danneggiati, ma anche la risoluzione della diaschisi (cioè,
la disconnessione temporanea fra circuiti nervosi anche anatomicamente lontani), la
disinibizione di connessioni neurali ridondanti e la formazione di nuovi circuiti che
possano compensare le funzioni prima svolte dalle aree lese. Senza tali meccanismi
fisiologici di plasticità neuronale il recupero funzionale non sarebbe possibile.
Nello specifico, avviene una riorganizzazione delle connessioni tra neuroni, in
funzione di:
• Richieste ambientali → ad esempio, quando si è esposti a determinati stimoli;
• Modificazioni associate ad apprendimenti → ogni volta che si apprende una
nuova informazione;
• Danni ad aree cerebrali → quando c’è un danno/lesione, la risposta del nostro
sistema nervoso è di riorganizzare i neuroni rimasti intatti.
Nel caso di una lesione i processi alla base del recupero funzionale sono:
• La riorganizzazione di ciascuna funzione nella sede anatomica originaria. Se
la lesione è piccola, circoscritta, la funzione si riorganizza nella stessa sede
anatomica originaria; se la lesione è più estesa questo processo organizzativo
non è possibile, vengono utilizzate le aree limitrofe, quindi quelle vicine.
• Lo spostamento di una determinata funzione in un’area diversa. Le aree che
erano nate per svolgere un’altra funzione ovviamente risentono di questo
spostamento, per cui ciò avviene a discapito di un’altra funzione.
• Il trasferimento delle funzioni in aree cerebrali omologhe controlaterali. Nei
casi gravi, il recupero consiste nell’utilizzo di aree cerebrali omologhe
controlaterali, cioè il cervello trasferisce le funzioni dell’area cerebrale
danneggiata in quella parallela appartenente all’altro emisfero. Viene
utilizzato, quindi, l’altro emisfero in questo caso.
• La sostituzione del deficit con l’apprendimento di altre strategie
comportamentali; quando il danno è talmente esteso e non si può recuperare
si cerca un'altra strada, sostituire il deficit con degli apprendimenti nuovi.
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Esistono altri 4 processi/meccanismi fisiologici di plasticità neuronale:
• Sprouting dendritico: cioè, l’arborizzazione dei neuroni. I neuroni vicini a
quello lesionato tendono ad aumentare la lunghezza delle loro ramificazioni,
fino a sostituire quelli danneggiati.
• Rigenerazione assonale: l’assone danneggiato si può in qualche modo
ripristinare, ma è un meccanismo non comune negli adulti (ricrescita di
neuroni danneggiati).
• Supersensitività postsinaptica: se c’è un neurone danneggiato, il neurone
post sinaptico che si trova subito dopo si abitua a ricevere una informazione
un po' più labile e a rispondere anche se l’informazione è meno potente. Si
crea un’ipersensibilizzazione postsinaptica.
• Smascheramento sinapsi latenti: quest’ultimo meccanismo consiste
nell’attivazione e utilizzo di sinapsi esistenti mai utilizzate.
Il recupero della lesione, inoltre, dipende dal sito della lesione (dove è avvenuta
questa lesione) e dall’estensione della lesione (più è estesa la lesione più è difficile
un recupero completo della funzione). In primo luogo, si cercherà di far recuperare al
paziente le funzioni vitali (cioè tutte quelle funzioni determinanti per la
sopravvivenza: attenzione, percezione visiva, destrezza manuale), e solo dopo le
funzioni integrative (funzioni comportamentali, caratteristiche socio-personologiche,
funzioni cognitive superiori).
Il recupero delle funzioni danneggiate è possibile durante tutto l’arco della vita
(Ward & Cohen, 2004). Tuttavia, il recupero motorio e/o cognitivo, in seguito a una
lesione, è un processo influenzato da diversi fattori, quali l’età d’insorgenza della
lesione, il luogo e l’estensione del danno e infine, dall’evoluzione della patologia
stessa. Una lesione di ridotte dimensioni con molta probabilità comporterà un miglior
recupero funzionale. La probabilità di recupero dipende, come detto in precedenza,
anche dall’età: il recupero funzionale, di fatto, è maggiore in pazienti giovani per via
di una maggiore plasticità rispetto agli anziani.
Età
Un danno cerebrale in età giovane adulta ha una prognosi migliore di un danno
equivalente in età più avanzata, dato che il cervello di un giovane adulto è provvisto
di migliori doti di riorganizzazione neuronale e funzionale. Tuttavia, vari studi
indicano che una lesione in età infantile può causare effetti particolarmente gravi,
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dato l’elevato grado di fragilità cerebrale in tale periodo (Denes, 2016).
Contrariamente a ciò che la maggior parte delle persone crede, l’ictus può colpire
anche i bambini e i neonati.
Lo sviluppo cerebrale si accompagna a un aumento progressivo della
specializzazione cerebrale, come dimostrato dagli studi di neuroimaging condotti sul
linguaggio; in particolare, questi studi hanno dimostrato un crescente processo di
lateralizzazione del linguaggio con il progredire dell’età (Szaflarski et al., 2006).
Inizialmente, l’emisfero destro ha una funzione supportiva importante affinché il
sinistro diventi l’emisfero linguistico prevalente, per cui, in ambito evolutivo, un
danno sinistro precoce comporterà meno disagi rispetto ad un danno emisferico
destro. Probabilmente perché in caso di lesione emisferica sinistra durante la prima
infanzia, l’emisfero destro può, almeno in parte, provvedere, permettendo uno
sviluppo del linguaggio, seppur ritardato e non perfettamente corretto.
Estensione e sede della lesione
Altri fattori che influenzano, oltre all’età, il recupero del soggetto cerebroleso: la
natura, l’estensione e la sede della lesione. Gli indici più importanti per predire gli
esiti del recupero, sia spontaneo sia indotto dalla terapia, secondo Maas e colleghi
sono infatti la gravità iniziale dei sintomi, l’estensione e la sede del danno (Maas et
al., 2012; Plowman et al., 2012). Tuttavia questo criterio non si può sempre
applicare. Un valore prognostico meno rilevante ricoprono invece altri fattori
demografici, quali il genere o la preferenza manuale (Geranmayeh et al., 2014).
Sulla base delle osservazioni effettuate su pazienti post stroke, mediante tecniche
di neuroimaging, sono state formulate 3 ipotesi per quanto riguarda il processo di
recupero a distanza (Denes, 2016).
Secondo una prima ipotesi, il recupero dipende da un processo di riorganizzazione
di sistemi neuronali specifici nelle zone circostanti la lesione, che dovrebbe portare
alla formazione di un nuovo pattern neuronale e funzionale (ipotesi perilesionale).
Una seconda ipotesi presuppone che il processo di recupero sia mediato
dall’emisfero controlaterale, il quale subentra e compensa le funzioni dell’emisfero
leso (trasferimento di lateralità). La compensazione dopo ischemia focale è stata
empiricamente dimostrata sui ratti (Metz et al., 2005). Essi riuscirono a sviluppare
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una strategia di compensazione del movimento, grazie all’emisfero controlaterale a
quello lesionato, allo stesso livello prelesionale.
Secondo la terza ipotesi, che si fonda su dati fMRI e studi rTMS, il processo di
recupero è basato sul blocco della trasmissione attraverso il corpo calloso
dell’iperattività delle regioni cerebrali controlaterali all’emisfero colpito dalla
lesione: questa attività influenza negativamente il processo di riorganizzazione
funzionale dell’emisfero leso (Li et al., 2013).
Di conseguenza, si può affermare che vari processi di riorganizzazione funzionale
entrano in gioco permettendo il recupero. Il recupero delle funzioni cognitive lese si
deve alla plasticità cerebrale, la quale può essere stimolata dalle cosiddette tecniche
di neuromodulazione. L’utilizzo di metodiche non invasive di stimolazione cerebrale
sembra accrescere l’attività elettrica cerebrale e indurre un maggior grado di
attivazione della plasticità.
I primi due metodi, in genere, più utilizzati si basano sulla rTMS, o sulla
stimolazione associativa appaiata (Paired Associative Stimulation, PAS). La rTMS
prevede l’applicazione di una serie di impulsi magnetici, in corrispondenza di zone
cerebrali specifiche, attraverso un coil posto sullo scalpo e connesso a uno
stimolatore magnetico. Gli impulsi magnetici prodotti attraversano lo scalpo e danno
vita, nella corteccia sottostante, a una debole attività elettrica in grado di
depolarizzare i neuroni. Le serie di impulsi rTMS somministrati a diverse frequenze
di stimolazione possono portare a modificazioni dell’attività elettrica, che persiste
dopo il termine della stimolazione. È possibile aumentare o diminuire il grado di
eccitabilità corticale modulando l’intensità di stimolazione e l’orientamento del coil
(Denes, 2016). Protocolli rTMS a bassa frequenza (< 1 Hz) in genere riducono
l’eccitabilità corticale, mentre protocolli ad alta frequenza (> 5 Hz) comportano un
aumento di eccitabilità (Di Lazzaro et al., 2011; Ridding & Rothwell, 2007). La
rTMS può, quindi, rappresentare un valido strumento, per influire sulla plasticità
neuronale in caso di ictus, al fine di modulare in maniera positiva l’attività dei
sistemi cortico-sottocorticali.
Altra tecnica che può essere usata: la tDCS. Tale metodo consiste nell’applicare
sullo scalpo degli elettrodi che erogano una corrente continua di bassa intensità, in
grado di attraversare lo scalpo e influenzare le attività della corteccia sottostante. La
stimolazione anodica incrementa l’attività neuronale, mentre quella catodica va ad
inibire o ridurre l’attività neuronale (Paulus, 2011).