considerato nell’integrità del territorio su cui questo imperio andava
esercitandosi”
3
.
Nonostante la genesi comune, le fattispecie concrete e le misure
legislative a tali comportamenti non ebbero mai un’evoluzione così
costante da poterne ricavare uno sviluppo univoco, anzi la tendenza
dei giuristi è sempre stata quella di dare al delitto politico una
“necessaria relatività storica e spaziale”
4
. Diverse forme di delitto
politico non sono mai mancate nelle comunità politiche organizzate;
quello che non esisteva era una categoria dogmatica di tutte le
fattispecie esistenti, che potesse raggrupparle sotto un nomen unico.
Le leggi penali romane non avevano ancora, ad esempio, una classe
di delitti meramente politici, e le varie fattispecie punite a questo
titolo andavano comprese “ora sotto la rubrica del delitto di lesa
maestà, ed ora sotto la rubrica della perduellio”
5
. La situazione
ebbe una prima svolta nelle posteriori leggi barbariche: le ipotesi
criminose riconducibili all’odierna categoria del delitto politico
erano ancora disorganiche e non unificate ufficialmente, ma nelle
disposizioni di legge si cominciava a far strada “un nuovo elemento,
(…), ragione precipua di punibilità di esse, quello della infedeltà”
6
.
I popoli d’Italia, prima con i Longobardi e poi con i Franchi, si
apprestavano a entrare in ordinamenti di tipo feudale, dove
inevitabilmente cambiarono anche le condizioni politiche. I
consociati, non esercitando più la sovranità in modo diretto, la
vedevano trapassare, a diversi livelli territoriali, di famiglia in
3
La ricostruzione storica è di CARFORA F., voce Delitto politico, in Digesto Italiano,
vol IX, parte I, 1915, Torino, pp.832 ss.
4
ALTAVILLA E., voce Delitto politico, in Nuovo digesto Italiano, 1938, Torino, pp.
411 ss.
5
CARFORA F., voce Delitto politico, cit., p. 833. Ciò non impedì, comunque, ai
giureconsulti repubblicani e imperiali di determinare, con la sola evoluzione della
prassi, il concetto del delitto politico come si è venuto determinando nei tempi moderni:
basti pensare a CICERONE, che ebbe a dire così del crimen imminutae maiestatis :
“maiestatem minuere est de digitate, aut amplitudine, aut protestate populi, aut eorum,
quibus populus potestatem dedit aliquid derogare”. In questa definizione, secondo
Carfora, sono già indicati i confini entro i quali può rientrare la nozione di delitto
politico.
6
CARFORA F., voce Delitto politico, cit., p. 833.
6
famiglia in via ereditaria, e così presero la loro indipendenza e
divennero sudditi in senso stretto, dai quali il signore domandava
fedeltà. Ecco quindi l’aumento di norme di legge volte a punire
l’alto tradimento, la sedizione, il tentativo di privare il re del
potere, del Paese o del popolo. A prescindere dalle disposizioni
concrete, l’elemento degno di nota è la forza intrinseca
dell’elemento della fidelitas: chi si pone fuori dall’identificazione
con il sovrano e tenta di sovvertire il suo potere, esce
automaticamente dall’intera società e non può che incorrere in
conseguenze dannose. Da questa premessa, si può spiegare
l’inaudita ferocia con la quale sono irrogate le pene in simili
materie, e con cui erano torturati gli imputati, spesso condannati
senza alcuna forma di giudizio.
7
Il reato politico nel medioevo, in
definitiva, appare quindi un “reato contro il principe piuttosto che
contro lo Stato, in un sistema però in cui il primo vale come
metafora del secondo”.
8
In altri termini, la cosa pubblica inizia ad
avere una sua sicura protezione, e la repressione penale è uno
strumento molto efficace per attuarla. Si assiste quindi ad un
allargamento della area di incidenza del reato politico e a un
aumento delle fattispecie, che ormai si infiltrano in tutti i momenti
della vita associata.
9
I giuristi medievali e cinquecenteschi, trovandosi di fronte
questa tradizione, si occupano sicuramente in modo diffuso del
crimen laesae maiestatis: sono obbligati in tal senso dalle
evoluzioni, tipiche in età moderna, dei sistemi di potere di allora (
schematizzando, “dalla piccola città-comune al poderoso Stato
7
E’ la testimonianza di Gregorio vescovo di Tours, che nella sua opera monumentale
Historia ecclesiastica francorum richiama il sistema processuale feudale, e sottolinea
l’arbitrarietà di alcuni sistemi di pena: quando la congiura e la sedizione erano dirette
contro la vita del duca, il colpevole era consegnato alla potestà dell’offeso, che gli
confiscava i beni e poteva disporre anche della sua vita.
8
SBRICCOLI M., Crimen laesae maiestatis, Il problema del reato politico alle soglie
della scienza penalistica moderna, 1976, Milano, p. 175.
9
Indicativa è la testimonianza di D’AFFLITTO M., che a metà ‘500, riferendosi alle
fattispecie di crimina laesae maiestatis, ne elenca 45. Secondo SBRICCOLI M.,
Crimen, cit., p. 176, il numero, anche se grande, è sempre riduttivo: se ne potevano
infatti contare almeno “Quattro volte tante”.
7
assolutistico nazionale”
10
). Tuttavia, non sviluppano una concezione
precisa e univoca del reato politico e del concetto di difesa dello
Stato. Il loro rifarsi pedissequamente alle fonti romane, e i loro
interventi finalizzati a sistemare singole fattispecie, li porta invece
a sottovalutare gli aspetti generali del tema, e a restringere il loro
angolo di visuale alle questioni di specie. Gli argomenti dei giuristi
del rinascimento sono ben rappresentati dall’opera di Girolamo
Giganti (m. 1566): il giurista di Fossombrone, nella sua disamina
sul tema in discorso,
11
parte da due discorsi fondamentali: le
definizioni di crimen laesae maiestatis messe a punto da Ulpiano
nel III secolo, e da Azzone circa 1000 anni dopo. Il primo discorso
criticato è quello di Ulpiano: la sua visione, che ha dei limiti
ristretti coincidenti con la “securitas populi romani”, è troppo
angusta, e ha ben poca utilità per gli Stati del Cinquecento
12
. Più
netta, e più argomentata, la critica al pensiero di Azzone. Il
caposcuola dei glossatori bolognesi, nella sua opera fondamentale
13
,
aveva dato una nozione consistente in un elenco, nella quale teneva
fuori dall’area del crimen laesae maiestatis alcuni comportamenti,
che pure vi erano stati inclusi dalla Lex Iulia maiestatis, contenuta
nel Codice Giustinianeo.
Gli argomenti di Girolamo Giganti si fondano su due critiche
fondamentali; secondo la prima, la definizione di Azzone è errata
nel contenuto, perché non comprende alcuni casi molto importanti
di crimenlese
14
. La seconda parte del discorso critico, invece, è più
10
SBRICCOLI M., Crimen, cit., p. 177
11
GIGANTI G., De crimine laesae maiestatis liber I, Crimen laesae maiestatis
humanae quid sit.
12
La definizione, e la critica contestuale, nel dettaglio: “Est igitur crimen laesae
maiestatis secundum Ulpianum illud quod adversus Populum Romanum vel eius
securitatem committitur. Ideo, secundum tempora odierna (…)Quia Populi Romani
maiesta extincta est, (…) dictum crimen dilatatum fuit”.
13
Trattasi di Summa codicis, approfondito manuale di diritto romano, la cui conoscenza
fu per secoli considerata fondamentale per l’accesso al collegio dei dottori di legge.
Secondo la leggenda, al riguardo fu creato appositamente un motto: “chi non ha Azzo,
non vada a palazzo”, per significare che la mancata conoscenza della Summa era
condizione ostativa all'accesso alla carriera forense.
14
“Non comprehendit mittentes literas hostibus ac alios casus”
Nel dettaglio, le critiche
sono contenute in GIGANTI G., De crimine, cit., nn. 3-4.
8
intensa ed importante, perché contesta la stessa possibilità
definitoria del delitto politico: ogni definitio è valida per il tempo e
le condizioni in cui viene elaborata, ma nessuna di esse può operare
“in presenza degli inevitabili mutamenti del numero delle
fattispecie in cui può articolarsi la fenomenologia di quel
crimen.”
15
La soluzione, per il Giganti, è abbandonare i tentativi di
definizione, e sostituirli con più flessibili descrizioni: intorno al
fenomeno del delitto politico non va costruito un recinto dialettico,
nel quale costringerne la potenzialità operativa, ma bisogna
prendere atto del suo sviluppo storico, e dell’estensione quantitativa
cui la dottrina, e l’evoluzione giuridica lo ha condotto.
16
La
descriptio del Giganti, dunque, si propone non di fissare una volta
per tutte, ma di trovare un terreno su cui ogni periodo storico e
culturale possa aggiungere tasselli e nuove strade. Nei risultati
concreti, tuttavia, il tentativo si traduce in un elenco di casus,
sicuramente più completo dei precedenti, ma per nulla indipendente
dalla tradizione romanistica, di cui “si fa semplice
riecheggiatore”
17
.
In altri termini, l’Autore innova, rispetto alla tradizione
precedente, perché individua alcuni nodi molto importanti del
sistema: in primo luogo, nella sua opera c’ è un richiamo ai soggetti
titolari della maiestas, e ci si riferisce, con uguale dignità, al
principe, al senato o alla Repubblica
18
; in secondo luogo, c’è
un’ampia gamma di comportamenti sanzionati, che vanno dall’uso
di armi, alla corruzione, alle semplici manifestazioni di dissenso, e
15
SBRICCOLI M., Crimen, cit., p. 179.
16
Acquista quindi grande rilevanza il contributo dei giuristi: non si può descrivere un
fenomeno deducendolo “ex logicorum regulis”, ma le sue implicazioni e sfaccettature
vanno messe insieme “legali modo”, alla maniera dei giuristi, e secondo il taglio
flessibile, e limitato temporalmente, che essi danno a questo genere di operazioni
culturali.
17
SBRICCOLI M., Crimen, cit., p. 181.
18
Un cenno di questa “apertura istituzionale”: “Crimen laesae maiestatis est ubicunque
quis subditus contra principem republicamvesuperiorem non recognoscentem aliquid
molitur, (…)vel quod princeps, senatores, collateralesque illius occidantur”.
9
che aprono a larghe possibilità operative di uso del concetto
19
.
Infine, il giurista fossombronese spiana la strada a un’espansione
del concetto di maiestas, il rapporto fondamentale del crimen, che
lega il suo titolare al suddito autore dell’illecito, e che sarà
affrontato analiticamente alcuni decenni più tardi da Benedikt
carpzov
20
. Nonostante tali innovazioni, il Giganti, pur dando
indicazioni sul contenuto concreto dell’istituto, non riesce a
dettarne una connotazione precisa, limitandosi a “un’opera di
sistemazione che altro non è se non (parziale) recezione di una serie
di fattispecie ormai canonizzate”
21
, critica che il giurista dovette
subire anche dai suoi contemporanei
22
.
Siamo dunque ad una elusione del problema: per evitare di
definire il crimen laesae maiestatis, lo si descrive attraverso le sue
fattispecie concrete; e la via era molto conosciuta nell’epoca dei
doctores: altri tentativi, coevi e successivi a quello del Giganti, si
muovono sulla stessa linea, ora riproponendo i dati centrali della
tradizione in una descrizione più precisa e generale
23
, ora fissando i
termini essenziali di una possibile enunciazione del delitto politico,
rivelandone i limiti obiettivi e rassegnandosi ad un’impossibile
19
Le violazioni, secondo GIGANTI G., De crimine, cit., par. 5, possono essere
perpetrate in tanti modi: “Armis, pecunia, consilio, seditione, scientia, dolo malo…”
20
Il giurista tedesco pubblica nel 1638 la sua opera “Pratica nova imperialis saxonica”
. Si inserì nella tradizione teorizzando tre elementi essenziali per considerare un potere
maiestas: essa, per esistere, deve essere: summa , cioè propria di chi non riconosce
un’autorità superiore; perpetua, non riguardando coloro che detengono il potere per
periodi brevi; legibus soluta, cioè non inferiore neanche al’autorità delle leggi. Per tale
rigore sistematico, CARPZOV è stato definito come “L’erede più diretto della cultura
penalistica del Cinquecento”.
21
Il giudizio è di SBRICCOLI M., Crimen, cit., p. 181.
22
Una per tutte, giova ricordare le obiezioni all’opera del GIGANTI da parte di
PROSPERO FARINACCIO, in Praxis, IV: “Aliud est quaerere quot modis committatur
crimen laesae maiestatis, et aliud quaerere quid sit crimen laesae maiestatis”
23
E’ il caso di GAMBIGLIONI A., in Consilia, cons. 51, n. 6. Il giureconsulto aretino,
attingendo dalle fonti romane, ritiene che il crimen laesae maiestatis consista nel
“aliquid templari contra Principem et contra magistratum, vel alium qui habet
imperium vel potestatem aliquam”. Ancora più fedele allo schema ulpianeo è BOCER
H., in Disputationes, X, de crimine maiestatis divinae, Thesis I. Il giurista tedesco parla
di crimenlese come offensivo “vel in religionem divinam vel adversus Imperatorem aut
populum eiusve securitatem committitur”.
10
definizione, a meno che non avvenga per exempla
24
. In questo
panorama, l’unica via possibile per un’evoluzione concettuale è
quella di valorizzare alcuni strumenti definitori, che si pongono in
una prospettiva di ampliamento di raggio d’azione del crimen. E’ la
strada battuta da Giannantonio da San Giorgio che, nel suo
commento ai Decreta, ha modo di affermare che il “crimen laesae
maiestatis quandoque sumitur large, ubicunque laeditur honor
principis…quandoque capitur striate et proprie, quando transit in
specificum nomen criminis”
25
. In altri termini, l’oggetto della
definizione viene moltiplicato per successive distinzioni, e resta
coerente con tutti i risultati raggiunti dalla dottrina nei decenni
precedenti. In conclusione, e a commento degli itinerari dei
doctores del diritto comune, manca ancora, agli inizi dell’Età
Moderna, una autonoma ed individuabile definizione di crimen
laesae maiestatis, che però è sempre più reato centrale di un
sistema in espansione, quello dell’ordinamento statuale, che tende,
sotto lo schermo della repressione penale, a proteggere “aree
ideologiche e politiche, interessi concreti e principi dottrinali,
prosperità pubblica e vantaggi personali, dissensi e faide
politiche”
26
.
Con l’avvento dell’industrializzazione, “il delitto politico si
arricchisce di nuovi contenuti”
27
. Alla figura del principe e della sua
elite nobiliare, cominciano ad aggiungersi altri soggetti, parte
integrante della classe dirigente, che si pongono a buon diritto come
24
Parliamo di ORSAIO D., professore salernitano di fine ‘600, e delle sue Institutiones
criminales liber II, tit. I, De criminibus mere saecularibus et primo de crimine laesae
maiestatis, nn. 2-3. Il giurista è importante per la rassegnazione delle sue conclusioni:
“Particulae autem huius definitionis non possunt clarius explicari, quam enumerando
illos, a quibus, contra quo set qualiter hoc crimen committatur”. Tradotta liberamente:
le fattispecie del delitto politico possono essere spiegate chiaramente solo elencando le
persone lese, gli Autori, i mandanti del delitto e le modalità con cui esso è stato
commesso. Un approccio mentale da far invidia ai migliori relativisti…
25
G. ANT. DA S.GIORGIO, Praepositum Mediolanensis, in sec. Decretorum, causa II,
quaesitum I, n. 19.
26
SBRICCOLI M., Crimen, cit., pp. 177-178.
27
MARINELLI A., Il delitto politico, cit., p. 75.
11
titolari di una aggiornata maiestas.
28
Contrapposto alla borghesia, il
blocco sociale dei poveri si proletarizza, e crescono gli elementi di
rottura tra classi sociali, fomentati anche a livello ideologico, con il
marxismo alle porte, e istituzionale, con lo Stato che interviene
sempre più massicciamente nella vita economica. Di conseguenza, si
viene a creare una nuova forma di delitto politico, non più diretto
“contro il Principe machiavellico, ma anche contro la nuova
borghesia (…). Nasce, così, il delitto politico contro il potere
economico”
29
. L’ampliamento della categoria concettuale facilita
l’uso, da parte degli ordinamenti, di terminologie generali, e di una
canonizzazione formale del concetto di reato politico.
Tuttavia, a questo non si accompagna una descrizione del
concetto, da cui poter stabilire dei confini di politicità di un reato.
Le legislazioni europee dell’800, quindi, hanno ben presente la
categoria nei loro schemi, ma si limitano a richiamarla senza
definirla. Il caso più eloquente è la legge francese dell’8 ottobre
1830. Con tale provvedimento si decide un’amnistia nei confronti di
tutti i reati politici, tra i quali si dichiarano compresi tutti quelli
contenuti nei capi I e II del titolo primo, libro terzo, del Codice
penale del 1810. In queste previsioni, tuttavia, sono ricomprese
fattispecie tra loro molto diverse, dai reati contro la sicurezza
esterna a quelli contro la carta costituzionale, dagli attentati alla
libertà agli abusi delle autorità amministrative e giudiziarie, tra le
quali alcune appaiono non politiche, ferma restando la loro
attinenza con la sicurezza dello Stato. Così, è plausibile l’opinione
secondo cui, in quella legge, rispetto al reato politico
“apparve(…)il nome, ma non fu certo determinato il concetto a cui
quel nome avrebbe dovuto corrispondere”
30
. Stesso approccio
28
SBRICCOLI M., in Crimen, cit., p. 257, sintetizza questa moltiplicazione di soggetti
e, conseguentemente, di fattispecie, in questa formula: “La lesa maestà si cela sotto
altri delitti, li trasforma, e molti sono i tiranni che risolvono ogni cosa con la quaestio
maiestatis”.
29
MARINELLI A., Il delitto politico, cit., p. 75
30
Il giudizio è di CARFORA F., voce Il delitto politico, cit., p. 834.
12
superficiale per il Codice per l’Impero Germanico, che prevede, ad
esempio, l’Alto tradimento, il tradimento della Patria e i reati
relativi all’esercizio dei diritti politici, ma non inserisce criteri di
sorta per distinguere tra essi i diritti politici. I codici penali
spagnolo e ungherese, dal canto loro, confondono insieme delitti
politici e delitti che sono invece comuni, pur avendo attinenza con
la sicurezza dello Stato.
In conclusione, la relatività storica del reato politico, a partire
dalle sue prime descrizioni, si è sempre accompagnata alla sua
relatività spaziale, e ancora nel XIX secolo non era possibile
riscontrare, a livello dogmatico e legislativo, un vero e proprio
inquadramento concettuale della materia.
1.2 Le teorie “romantiche” del reato politico: i provvedimenti di
clemenza adottati dallo Stato liberale italiano- La seconda metà
dell’800, la nascita dei regimi liberali, e il conseguente mutamento
degli equilibri geopolitici, favoriscono l’emersione di un concetto
autonomo di delitto politico, e il suo affrancamento da una
connotazione negativa e “da un trattamento di dura repressione, se
non propriamente persecutorio”
31
. Nell’ideologia liberale si fa
strada un orientamento polemico nei confronti dell’antico regime,
che nei crimina laesae maiestatis avevano individuato la categoria
di reati più pericolosi, e le premesse teoriche dei giuristi riflettono
in pieno tale contrapposizione. Per quanto riguarda l’Italia, il
modello dottrinario di riferimento è Francesco Carrara. Il grande
giurista toscano, nelle sue pagine di grande impegno civile, prende
atto delle incongruenze passate, e manifesta una necessità
imprescindibile: il titolo di lesa maestà, che ha fondato molte
iniquità del sistema repressivo dei regimi autoritari, deve essere
assolutamente superato in quanto “Terribile e fantasmagorico.
31
MANZIONE D.,Vecchie e nuove prospettive nei rapporti tra reato politico ed
estradizione, in Cassazione penale, 1985, p. 218.
13