disciplina che la legge ricollega ad esso deriva dalla presenza di quel particolare
coefficiente psicologico (finalistico) che è il medesimo disegno criminoso.
Quanto al presente lavoro, si avrà modo di vedere l’intera evoluzione della con-
tinuazione, dal momento storico in cui è possibile ravvisarne la nascita fino alla
sua forma attuale, dovuta alla riforma penale del 1974. Quest’ultima, che costi-
tuisce il principale intervento riformatore finora avutosi sulla parte generale del
codice del 1930, risulterà di particolare importanza, avendo avuto il merito di re-
stituire all’istituto una veste conforme al suo intrinseco fondamento.
Si procederà, esaminando le diverse soluzioni avanzate dalla dottrina, a colloca-
re sistematicamente la figura del reato continuato, valutando anche la concezio-
ne unitaria che è dato ritrovare nell’esperienza giuridica tedesca.
Nel momento in cui si individuerà l’essenza della figura in esame si tenterà di
coglierne la vera spiegazione razionale, non limitandosi ad individuarla in una
generica ratio favoris, come troppe volte invece avviene nelle trattazioni in ma-
teria. Effettuata questa operazione, sarà consequenziale coglierne la funzione ri-
coperta all’interno del sistema penale e in particolare in relazione al regime del
concorso di reati.
Verranno analizzati gli elementi strutturali dell’istituto e le importanti questioni
implicate nell’esame di essi; dopo aver chiarito la natura giuridica della conti-
nuazione si definirà il complesso rapporto tra questa e l’aggravante di cui all’art.
61, n. 2 c.p., cogliendo le differenze tra le due figure, in modo da comprendere
come una pur innegabile sovrapposizione del medesimo disegno criminoso a
danno del nesso teleologico, non significhi eliminazione del campo di operativi-
tà di quest’ultimo.
Tra le varie opzioni astrattamente possibili sul piano dogmatico, si tenderà a pre-
ferire quelle che maggiormente si raccordano al fondamento ontologico della
continuazione, a conferma e sostegno di una matrice di pensiero che emerge
chiaramente nel corso della trattazione.
6
Si avrà anche cura di illustrare il trattamento sanzionatorio riconnesso all’istituto
con particolare attenzione alla lenta e progressiva (e per certi versi non ancora
conclusa) evoluzione giurisprudenziale avutasi su tale argomento .
Verrà trattata la disciplina sostanziale propria dell’art. 81, comma 2 del codice
penale ed alcuni rilevanti aspetti di quella processuale, quest’ultima ridisegnata
ex novo dal codice di rito del 1989.
Da ultimo, si osserveranno le tendenze applicative che si registrano nella giuri-
sprudenza e gli effetti – talvolta distorsivi – da questa causati.
Infine si darà conto della prospettiva in cui si muovono – non sempre in modo
rispettoso del fondamento della continuazione – i recenti progetti di riforma del
codice penale.
7
CAPITOLO PRIMO
Origine, evoluzione ed inquadramento sistematico
§1.1. Origine ed evoluzione dell’istituto: dal diritto romano al codice penale del 1930. – §1.2.
Il d.l. 11 aprile 1974 n. 99 e l’attuale formulazione dell’art. 81 cpv c.p. – 1.2.1. Le ragioni che
hanno dato vita alla riforma penale dell’aprile 1974. Portata ed effetti dell’intervento riforma-
tore. – 1.2.2. Continuazione e teoria generale del reato. La concezione pluralistica e quella u-
nitaria della dottrina tedesca. – §1.3. Ratio e funzione attuale dell’istituto. Unicità del fine e
responsabilità: il reato continuato come espressione di una esigenza di giustizia.
§1.1. Origine ed evoluzione dell’istituto: dal diritto romano al codice penale
del 1930.
Già dalla premessa si è messo in luce come l’esigenza della previsione del reato
continuato derivi dalla rilevanza dell’agire umano come teleologicamente orien-
tato. Dal momento che essa è in rerum natura si è manifestata ripetutamente
nella storia del diritto penale, come dimostra l’analisi sulla nascita ed evoluzione
della continuazione.
Prima di operare una ricostruzione storica si deve premettere che non si può pre-
tendere di ritrovare nel passato l’istituto come è attualmente ricostruito né è pos-
sibile applicare principi della dogmatica attuale ma all’epoca ignoti: a tal propo-
sito basta citare il fatto che oggi molte indagini storiche hanno parzialmente per-
so il loro significato dopo che la riforma del 1974 ha eliminato il modulo opera-
8
tivo con cui esse erano condotte (violazione della medesima disposizione di leg-
ge). Naturalmente tutto questo non significa che si è in presenza di un istituto
sfornito di fondamento storico-dogmatico sicuro poiché, come detto, ripetuta-
mente nella storia si è affermata l’esigenza della sua previsione.
È possibile affermare che l’istituto della continuazione non era conosciuto dal
diritto romano, nel quale vi era una applicazione rigida del cumulo materiale
delle pene
2
, come si ricava da D. 47.1.2: “Numquam plura delicta concurrentia
faciunt, ut ullius impunitas detur: neque enim delictum ob aliud delictum minuit
poenam”.
Tale applicazione era supportata poi, dal punto di vista sostanziale, dal fatto che
per determinare la unità o pluralità di reti si teneva conto non della unità o plura-
lità di azione ma del contenuto offensivo della condotta e, dal punto di vista pro-
cessuale, dal procedimento per quaestiones; in esso soltanto fatti di reato simili e
costituenti un unico crimen, erano giudicati dal medesimo pretore nello stesso
processo. Questo significava che per crimina diversi, giudicati in procedimenti e
da magistrati differenti, neanche si poneva un problema di applicazione di un
criterio di assorbimento o di cumulo giuridico delle pene
3
.
In passato erano sorti dubbi intorno alla interpretazione del passo D. 47.2.68
4
;
ora si riconosce che questo non si riferisce alla continuazione ma ad una partico-
lare situazione suscettibile di verificarsi nella ipotesi di furto; si tratta
dell’eventualità della permanenza del possesso da parte del ladro e del conse-
guente problema della determinazione del valore della cosa su cui calcolare la
pena del doppio prevista dal diritto romano per il furto, nel caso in cui il trascor-
2
Cfr. in tal senso R. RAMPIONI, Nuovi profili del reato continuato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, p. 614; Di
uguale opinione V. ZAGREBELSKY, Reato continuato, seconda edizione, Giuffrè, Milano, 1976, p. 2.
3
Cfr., FALCHI, Diritto penale romano, Dottrine generali, 1937, p. 202; BRASIELLO, voce Procedimento penale
(Dir. rom.), in Novissimo digesto italiano, vol. XIII, 1966, p. 1158 in R. RAMPIONI, Nuovi profili, cit., p. 615.
4
“Infans apud furem adolevit: tam adulescentis furtum fecit ille quam infanti set unum tamen furtum est: ideo-
que dupli tenetur, quanti umquam apud eum plurimi fuit, nam quod semel dumtaxat furti agi cum eo potest, quid
refert propositae questioni? Quippe , si surreptus furi foret ac rursus a fure altero eum recuperasset etiam si duo
furta fecisset , non amplius quam semel cum eo furti agi posset, nec dubitaverim quin adulescentis potius quam
infantis aestimationem fieri oporteret , et quid tam ridiculum est quam meliorem furis conditionem esse propter
continuationem furti existimare ?”.
9
rere del tempo avesse fatto mutare il valore della cosa sottratta
5
. Quindi
l’espressione propter continuationem si riferisce ad una situazione assimilabile
al reato permanente
6
o ad effetti permanenti
7
.
Neanche D. 47.2.46.9 e D. 47.2.57
8
riguardano il reato continuato, ma conside-
rano la ipotesi in cui il ladro si impossessi nuovamente della cosa sottratta e tor-
nata al proprietario
9
. In tal caso restava ferma l’applicazione del principio tot
crimina, tot poenae, come dimostrato dal fatto che era concessa una seconda fur-
ti actio. Si può quindi concludere, come anticipato, che nel diritto romano non
esisteva il concetto di continuazione.
Nell’epoca medievale, per quanto riguarda il diritto degli statuti comunali (dalla
fine del XIII alla seconda metà del XIV secolo), ancora non era presente il con-
cetto e la figura del reato continuato
10
, anche se bisogna notare che mentre alcu-
ni statuti lasciavano inalterato il sistema del concorso di reati e il conseguente
cumulo delle pene
11
, in altri statuti erano presenti deroghe o limitazioni a tale
regime. Così era nello statuto di Narni (1371) dove era punito per una sola per-
cossa chi, uno impetu, avesse colpito più volte taluno e nello statuto di Roma
(1363) dove unica era la pena per chi avesse ingiuriato taluno “licet plura verba
ingiuriosa dixerit in eodem contestu”.
Queste ipotesi non riguardano il reato continuato
12
poiché ne manca il presuppo-
sto cioè il trattamento unitario di una pluralità di reati e, in particolare, la unifi-
cazione ai fini della pena. Si tratta di fattispecie in cui il reato rimane unico pur
5
Cfr. V. ZAGREBELSKY, Reato continuato, seconda ed., op. cit., p. 3.
6
In tal senso, FALCHI, Diritto penale romano, I singoli reati, vol. I, 1932, p. 38 in V. ZAGREBELSKY, Reato con-
tinuato, seconda ed., op. cit., p. 3.
7
In tal senso, G. LEONE, Del reato abituale,continuato e permanente, Jovene, Napoli, 1933, p. 177 e ss.; G. PI-
SAPIA, Reato continuato, Jovene, Napoli, 1938, p. 10 e ss.; V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. II,
UTET, Torino, 1981, p. 700; L. PILLITU, Il reto continuato, Cedam, Padova, 1936, p. 17 e ss.
8
In essi è disciplinato il caso in cui “Si furtiva res dominum redite et iterum contrectata est competit alia furti
actio”.
9
Per G. LEONE, Dl reato abituale, op. cit., p. 179, qui ricorrerebbero gli elementi soggettivi ed oggettivi del rea-
to continuato ma proprio il fatto che il diritto romano concedeva in tal caso una seconda azione di furto, secondo
l’autore, conferma che tale diritto non conosceva la continuazione.
10
Cfr., V. ZAGREBELSKY, Reato continuato, seconda ed., op. cit., p. 4 e ss.
11
Ad esempio gli statuti della Valsassina (1388) per la ipotesi di furto, e quello della Lega di Gambassi (sec.
XIV) per la pluralità di falsificazioni.
12
In tal senso V. ZAGREBELSKY, Reato continuato, seconda ed., op. cit., p. 7. Di contrario avviso G. LEONE, Del
reato abituale, op. cit., p. 197.
10
in presenza di una pluralità di fatti di per sé tipici, di tecniche finalizzate ad e-
scludere il cumulo delle pene ma diverse dalla continuazione.
Diversi risultati si ottengono invece analizzando il pensiero e le opere dei giuri-
sti che si collocano tra il XIV e il XVI secolo poiché si può ricavare che qui na-
scono prima quei meccanismi pratici ed interpretativi e poi quegli schemi più
tecnici che sono il primo embrione, il primo manifestarsi del reato continuato; si
tratta di espedienti per mitigare la durezza del sistema del concorso di reati e del
suo corollario rappresentato dal principio tot crimina, tot poenae. Preliminar-
mente bisogna fare due considerazioni: la prima è che più forte è il desiderio di
umanità delle pene a partire dal XV secolo (a ridosso del rinascimento) che non
in epoca comunale, quando un sistema di pene al limite della crudeltà era con-
forme alla difesa dell’autorità costituita e al mantenimento del potere. Poi biso-
gna tenere conto di un istituto, spesso trascurato nelle indagini storiche sulla
continuazione, ma che è fondamentale nella logica del concorso di reati così
come è configurato nei secoli che vanno dal XIV al XVI: la consuetudo
delinquendi
13
.
A partire dal XV secolo, dato il contesto storico prima accennato, conseguenze
sanzionatorie eccessivamente rigorose
14
non si hanno più per il solo operare del
concorso di reati ma quando insieme alla commissione di delitti sia presente una
qualificazione soggettiva a carico dell’agente, la consuetudo delinquendi. Si in-
tende punire più gravemente la abitualità nel reato, portatrice di un giudizio di
particolare disvalore a carico dell’agente
15
.
Molti autori
16
affermano che i Commentatori non elaborarono la figura del reato
continuato, come noi la intendiamo, vale a dire come considerazione unitaria di
una pluralità di reati ma si riferirono a situazioni in cui il reato restava unico
13
Cfr. sul punto R. RAMPIONI, Nuovi profili, cit., p. 618.
14
Moltissimi sono gli autori che riportano come esempio di crudeltà, lo statuto della Valsassina (1343), il quale
puniva con la pena di morte l’autore di tre furti.
15
Cfr. la posizione di FARINACIO sulla questione: “Humanum enim est peccare […] diabolicum perseverare, et
propterea peccatum veniale geminatum effici mortale” in Praxis et theoricae criminalis, parte I, ed. di Lione, q.
XXII, f. 296, n. 4.
16
G. LEONE, Del reato abituale, op. cit., p. 186; V. ZAGREBELSKY, Reato continuato, seconda ed., op. cit., p. 8 e
ss.; G. PISAPIA, Reato continuato, op. cit., p. 25 e ss.
11
poiché unica era la condotta e identico il tempo in cui questa era tenuta. Il reato
continuato si sarebbe affermato come reato unico in casi in cui l’unica azione si
spezza in pluralità di atti lesivi di un unico bene (la elaborazione della figura av-
venne specialmente in relazione alle ipotesi di furto).
Il legame tra i reati sarebbe da considerarsi di tipo “cronologico-oggettivo” più
che psicologico.
Così può essere per Bartolo da Sassoferrato (1314-1357); egli nella Additio ad
librum Nonum Digest. Lex XXXII
17
configura l’ipotesi della unificazione di più
reati quando unico è il tempo della commissione e unico è il fine (inteso però in
senso oggettivo come unicità della lesione dell’interesse tutelato
18
). Non c’è
continuazione ma reato unico.
Tuttavia, come riconosce anche Zagrebelsky
19
, già con Baldo degli Ubaldi
(1327-1400) nei Commentaria abbiamo un primo embrione di reato continuato:
se da una parte l’autore resta ancora legato alla unicità del tempo, emerge un e-
lemento teleologico di tipo psicologico poiché per egli la mancanza di temporis
intervallo va intesa come unicità del fine (“Intervallo. Melius diceret diversis
propositi et animi impetibus”). La conseguenza è che per Baldo più reati, della
medesima o di diversa specie, possono essere unificati salvo che siano posti in
essere diversis propositi et animi impetibus, come emerge dalla seguente Auten-
tica: “Ulterius quero, numquod plura furta facta eodem loco et tempore dinume-
rent plura dicit statutus, quod pro tertio furto quis suspendat, et dicit, quod non:
quia huius mens statuti interdit gravius punire propter consuetudinem delin-
quendi, in qua consuetudine regrit temporis intervallo”
20
.
17
“Quando plura delicta tendunt ad eundem finem, pro uno tantum puniuntur. Quando plura delicta diversis
temporibus sunt commissa , de qualibet venit imponenda poena, sed quando fiunt eodem tempore pro uno pu-
niuntur.” Per G. LEONE (Del reato abituale, op. cit., p. 181) Bartolo configurerebbe il reato continuato richie-
dendo per la pluralità di reati della medesima specie l’elemento unificatore della unicità del fine. In realtà è più
probabile che il passo si riferisca a reati di specie diversa.
18
“Si quidem plures testes producantur ad unum effectum,una est productio,et pro uno tantum delicto punien-
tur….”. BARTOLO DA SASSOFERRATO, Lucernae Juris, In primam Digesti Novi partem. Ad lib. XLVII Digest.
Lex XXVII. § Si infans.
19
V. ZAGREBELSKY, Reato continuato, seconda ed., op. cit., p. 10 e ss.
20
BALDO DEGLI UBALDI, Perusini iurisconsulti, Commentaria, Venetiis, MDCXXVII.
12
Quindi Baldo esclude il concorso di più furti se questi sono commessi conte-
stualmente, poiché lo statuto cui si riferisce l’autore prevedeva la pena di morte
per il terzo furto nell’ambito della consuetudo delinquendi; questa richiedeva un
intervallo temporale ed è esclusa proprio dalla contestualità (per Baldo se c’è
mancanza di intervallo temporale c’è unicità del fine).
Infine è con Farinacio (1544-1618) che è delineata la moderna concezione di re-
ato continuato
21
. La sua costruzione va inquadrata nell’ambito dei meccanismi
del tempo volti a mitigare il cumulo delle pene nella ipotesi di più reati uniti tra
loro da vincolo di mezzo a fine non necessario (il reato mezzo non è necessario
per la realizzazione del reato fine) poichè finalisticamente orientati allo stesso
scopo
22
. Scrive l’autore nella Praxis et theoricae criminalis: “Ubi delicta inter
se non tendunt ad eundem finem necessarium, potestque unum comode patrari
sine alio: et tamen secundum communem traditum est, unicum tantum poenam
posse imponi: ideo pro resolutione dicas in proposita limitatione non duplicem
poenam […], sed unicam tantum, illam scilicet principalioris et maioris delicti
fore imponendam, […] sed istam poenam licet unicam bene fore aggravandam
ab aliis delictis ad principale delictum”
23
.
Ecco il reato continuato: una pluralità di reati, della stessa o di diversa specie u-
niti dalla medesimezza dello scopo, aumento di pena sul reato più grave. Proprio
la unicità del fine escludeva le terribili conseguenze sanzionatorie della consue-
tudo delinquendi, cioè della abitualità nel reato e determinava la unificazione
quod poenam dei reati. Si può perciò ritenere che già in questa epoca si ha una
configurazione del reato continuato di tipo soggettivo, incentrata sulla rilevanza
della unicità del disegno criminoso e quindi del fine, e che è la elaborazione dot-
21
Cfr. R. RAMPIONI, Nuovi profili, cit., p. 622-625.
22
Solo quando i reati erano dello stesso genere, realizzati contestualmente o ex intervallo, erano considerati un
unico reato poiché unica era la condotta e unica l’offesa.
Nel caso di reati uniti da vincolo necessario si applicava la pena per il reato più grave (principio
dell’assorbimento).
23
FARINACIO, Praxis et theoricae criminalis, op. cit., f. 294-295 n. 25; Un altro passo di tale opera, addotto da
molti come esempio di reato continuato sembra invece riferirsi, come nota ZAGREBELSKY (Reato continuato, se-
conda ed., op. cit., p .13), a una ipotesi in cui la condotta si svolge durante un arco di tempo senza soluzione di
continuità. In tal caso il reato era considerato unico proprio in base al criterio temporale. Il passo in questione è
la Quaestio CLXLII: “…furta non dicantur plura, sed unicum, quando quis ex uno loco tempore tamen diverso,
sed continuato et successivo, unam rem, sive plures furatur.”.
13
trinale e legislativa successiva, come si avrà modo di vedere più avanti, che ha
costruito l’istituto sul piano oggettivo, specialmente tramite il requisito della i-
dentità delle disposizioni di legge violate.
Il reato continuato comparve nelle legislazioni nella prima metà del XIX secolo:
l’istituto è presente per la prima volta in Germania nell’art. 110 del codice pena-
le Bavarese del 1813; in Italia, tra i codici preunitari, solo il codice penale To-
scano del 1853 lo prevedeva nel suo art. 80
24
disponendo che “Più violazioni
della stessa legge penale, commesse in uno stesso contesto di azione, o anche in
tempi diversi, con atti esecutivi della medesima risoluzione criminosa, si consi-
derano per un solo delitto continuato, ma la continuazione del delitto accresce
la pena entro i limiti legali”. Quindi, per la prima volta compare in una disposi-
zione di carattere generale quell’elemento soggettivo (“medesima risoluzione
criminosa”) che funge da elemento unificante di una pluralità di reati (per i quali
è richiesto il requisito della omogeneità).
I vari progetti di codice penale unitario che porteranno al codice del 1889
25
prevedevano soluzioni divergenti in ordine al problema all’epoca più dibattuto,
quello della condotta che potesse costituire continuazione: ci si chiedeva se po-
teva aversi reato continuato quando le violazioni fossero state commesse con
un’unica azione oppure se fosse stata necessaria la pluralità di azioni.
La soluzione adottata nel codice, sulla base del progetto Zanardelli del 1887, fu
quella della pluralità di azioni
26
. L’art. 79 del codice del 1889 disponeva:
“Più violazioni della stessa disposizione di legge penale, anche se commesse in
tempi diversi, con atti esecutivi della medesima risoluzione delittuosa, si consi-
derano per un solo reato; ma in questo caso la pena è aumentata da un sesto al-
la metà”.
24
Il codice penale sardo del 1859 non prevedeva la continuazione ma ne faceva un cenno all’art. 144 in tema di
prescrizione.
25
Per le varie fasi dello sviluppo del codice Zanardelli vedi B. ALIMENA, Del concorso di reati e di pene, in Enc.
del dir. pen. del Pessina, vol. 5, p. 417 e ss., Sel, Milano, 1904.
26
La relazione al progetto affermava che era stata eliminata l’ipotesi delle violazioni commesse con un'unica a-
zione perché altrimenti “non si sarebbe potuto concepire il reato continuato, uno dei cui estremi è la pluralità del-
le azioni”.
14