INTRODUZIONE
1. Cenni storici
In seguito alle barbarie contro l’umanità perpetrate durante lo svolgimento
della Seconda Guerra Mondiale, si è palesata l’urgenza della costruzione
di un sistema di tutela dei diritti umani che potesse agire su due fronti:
quello negativo della opposizione alla reiterazione di catastrofi umane,
come quelle appena vissute, e quello positivo della volontà di sviluppare
una cultura dei diritti umani, che progredisse sempre più verso la
realizzazione di una architettura giuridica capace di rendere i diritti della
persona patrimonio fruibile da tutti gli individui. Mentre a San Francisco
le Nazioni Unite perseguivano questo obiettivo generando la
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nell’area europea veniva
concepito un sistema più articolato, che si sarebbe concretizzato nel
Consiglio d’Europa.
L’idea di creare un sistema internazionale in ambito europeo venne presa
in considerazione ufficialmente durante in Congresso dell’Aja nel maggio
1948. La Commissione Permanente istituita dal Patto di Bruxelles del
marzo 1948 esaminò la questione e presentò un rapporto al Consiglio
consultivo del Patto di Bruxelles, il quale nell’ottobre 1984, decise di
istituire un Comitato di studio per l’Unione Europea composto da Regno
Unito, Francia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi. Il Comitato formulò
una proposta nella quale figurava la creazione di un’Assemblea consultiva
europea e un Consiglio dell’Europa composto di rappresentanti dei
governi. Il 28 gennaio 1949 fu approvato dai Misti degli esteri dei cinque
Stati del Comitato un progetto, comprendente un Consiglio d’Europa
composto di un organo governativo con poteri consultivi e un organo
assembleare. Lo Statuto del Consiglio d’Europa fu stilato a Londra tra il 2
e il 5 maggio 1949; i fini dell’organizzazione vennero fissati nel
raggiungimento dello stato di diritto e nel godimento da parte di tutti gli
individui dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Dopo appena due
mesi dalla sua nascita, il Comitato dei Ministri propose lo studio di un
modello di Convenzione che contenesse un catalogo dei diritti umani.
Venne istituito un Comitato di esperti governativi che crearono un
progetto di Convenzione che fu discusso dalla Conferenza di alti
funzionari convocata dal Comitato dei Ministri. La stesura definitiva della
CEDU venne approvata dal Comitato nell’agosto 1950 e aperta alle firme
degli Stati il 4 novembre dello stesso anno. L’aggiunta di ben 14
Protocolli ha introdotto nuovi organi (il Protocollo 11 istituisce
permanentemente la Corte europea dei diritti dell’uomo) e arricchimenti
normativi per una migliore implementazione dei diritti (il Protocollo 14 ha
assegnato nuove funzioni al Comitato dei Ministri nell’ambito del
controllo sull’esecuzione delle sentenze della Corte).
Il testo della CEDU è suddiviso in tre titoli:
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- il primo (artt. 2-18) illustra i diritti e le libertà che gli Stati
contraenti riconoscono ad ogni individuo posto sotto la sua propria
giurisdizione secondo quanto previsto dall’art. 1;
- il secondo (artt. 18-51) regola i meccanismi di controllo sul rispetto
dei diritti da parte degli Stati;
- il terzo (artt. 51-59) definisce le competenze degli organi del
Consiglio d’Europa e il regime giuridico della Convenzione.
2. Presentazione del lavoro
Il presente elaborato si prefigge l’obiettivo di indagare le relazioni
esistenti tra la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e l’ordinamento giuridico
italiano, cercando di cogliere il grado di incorporazione della Convenzione
nel diritto domestico, le tendenze progressiste e quelle ostative
all’implementazione dei diritti convenzionalmente riconosciuti, il grado di
efficacia delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte
EDU) in Italia e i motivi che hanno condotto il giudice nazionale ad
applicare il diritto promanante dalla CEDU in maniera dissimile in casi
molto affini .
L’analisi è stata suddivisa in tre sezioni.
La Parte Prima espone l’evoluzione dei rapporti tra CEDU e ordinamento
italiano, relativamente alle seguenti questioni: valore della Convenzione
nel diritto nazionale, rango delle sue norme e possibile diretta
applicabilità delle stesse, eventuale fondamento giuridico della
preminenza del diritto CEDU su quello domestico, funzioni addizionali
della Convenzione (funzioni di “completamento” e di “stimolo”), atti
normativi posti in essere dall’Italia per dare attuazione alla CEDU e
capacità di una norma convenzionale di disapplicare le norme interne
contrastanti.
La Parte Seconda si occupa del valore delle sentenze della Corte europea
dei diritti dell’uomo nel nostro ordinamento. Precisamente vengono
individuati: la base normativa dell’obbligo di esecuzione delle sentenze
della Corte, il tipo di misure (individuali o generali) adottate dallo Stato al
fine di dare attuazione alle sentenze della Corte, la discrezionalità degli
Stati nella scelta dello strumento interno più idoneo alla riparazione
richiesta, la tendenza della Corte ad indicare la soluzione più idonea alla
violazione riscontrata, la funzione di controllo sull’esecuzione del
Comitato dei Ministri e la possibilità di perseguire uno Stato inadempiente
mediante una doppia condanna ( per violazione della CEDU e per mancata
esecuzione delle sentenze della Corte EDU) e, in ultima istanza, con
l’espulsione dall’organizzazione.
Nella Parte Terza vengono esaminati due casi (Somogyi e Dorigo) con
riferimento alle vicende giudiziarie dei due individui, considerando le
implicazioni giuridiche dei due casi e ricercando gli effetti
sull’ordinamento interno delle due vicende. Infine si procede con la
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comparazione dei casi. Questa indagine ha permesso di ravvisare alcune
falle dell’ordinamento nazionale, in particolare del sistema giudiziario,
che ad oggi non permettono che una fruizione parziale delle garanzie
1
convenzionali.
1
Si consideri, ad esempio, l’inefficacia della legge 89/2001, che non ha risolto la questione
relativa alla irragionevole durata dei procedimenti giudiziari, così che la violazione permane anche
se celata all’interno dell’ordinamento, visto l’obbligo, per il singolo, di rivolgersi prima alla Corte
d’Appello in virtù della citata legge e del rispetto del principio di sussidiarietà. Un altro limite alla
piena fruizione dei diritti convenzionali può riscontrarsi proprio nella nuova modifica al cod. proc.
pen., approvata il 3 agosto 2007, nella parte in cui subordina la possibilità di revisione del
processo considerato iniquo dalla Corte EDU ex art. 6 par. 3 CEDU alle seguenti condizioni:
a) la violazione riscontrata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo abbia avuto incidenza
determinante sull’esito del procedimento;
b) il condannato, al momento della presentazione della richiesta di revisione, si trovi o
debba essere posto in stato di detenzione ovvero sia soggetto all’esecuzione di una
misura alternativa alla detenzione, diversa dalla pena pecuniaria.
Le condizioni di cui al punto b) non sembrano essere giustificabili, specie quando la condanna a
pena pecuniaria precluda la possibilità di ottenere la revisione di un processo celebrato in
violazione delle norme CEDU relative: pare profilarsi una discriminazione tra procedimenti
giudiziari considerati egualmente iniqui.
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PARTE PRIMA
L’ADATTAMENTO DELL’ORDINAMENTO
GIURIDICO ITALIANO ALLA CEDU
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1. L’ evoluzione del rapporto tra ordinamento italiano e
CEDU
Il carattere dialogico della relazione tra ordinamento italiano e CEDU si
inscrive nel più ampio ambito dei rapporti tra diritto domestico e diritto
internazionale.
E’ qui opportuno richiamare per grandi linee le due principali teorie che
inquadrano i rapporti tra ordinamenti, per meglio comprendere le
difficoltà relazionali esistenti tra le norme giuridiche internazionali e
quelle interne.
Secondo la dottrina dualista, che deve la sua elaborazione a Heinrich
Triepel, l’ordinamento interno e quello internazionale costituiscono sue
sistemi originari e autonomi e tale considerazione trarrebbe fondamento da
due osservazioni: vi sarebbe una diversa volontà alla base dei due
ordinamenti, ovvero quella dello Stato e quella della Comunità
internazionale, e vi sarebbe dissimilitudine tra le due categorie di rapporti
da essi disciplinati, ovvero i rapporti interni allo Stato e quello tra Stati.
Al contrario, la dottrina monista, che trae origine dalle teorie di Hans
Kelsen, considera gli ordinamenti statali e l’ordinamento internazionale
come parti compenetranti di un unico sistema, la cui legittimazione
riposerebbe su un’unica norma fondamentale. Ciò permetterebbe agli
ordinamenti di dialogare tra di loro in maniera fluida e incessante e
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tendere ad un continuo miglioramento.
L’Italia ha sposato la concezione dualista del rapporto tra ordinamento
interno e internazionale e ciò rende necessario un continuo intervento di
adeguamento ad hoc ai precetti internazionali che sono ritenuti idonei ad
entrare a far parte dell’ordinamento italiano.
1.1 Il carattere delle norme CEDU: self-executing?
La CEDU, adottata nel 1950, è stata recepita dall’ordinamento giuridico
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italiano mediante ordine di esecuzione contenuto in legge ordinaria; in
virtù di ciò le norme della Convenzione detengono, nel nostro
ordinamento, il rango di legge ordinaria. Si è aperto da subito un fervente
dibattito sulla possibile diretta e prevalenza del diritto promanante dalla
CEDU rispetto al diritto interno, il cui svolgimento è illustrato nel
capitolo seguente.
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Paola Ivaldi, in Istituzioni di diritto internazionale, Torino, 2006, p. 126 aggiunge:
«All’impostazione monista viene per lo più associata l’idea del “primato” del diritto
internazionale rispetto al diritto interno; si tratta peraltro di una generalizzazione priva di
fondamento, in quanto la ricostruzione in esame è in astratto compatibile anche con la posizione di
chi, affermando l’opposto principio del “primato” del diritto nazionale, ritenga che le norme
internazionali acquistino validità soltanto quando, a seguito di “riconoscimento”, divengono “parte
integrante” di un ordinamento giuridico statale »
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Legge 4 Agosto 1955 n°848
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In questa sede si vuole indagare l’idoneità del diritto CEDU di trovare
diretta applicazione nel nostro ordinamento, eventualità che aprirebbe la
strada ad un dialogo continuo tra diritto domestico e diritto convenzionale
per una sempre migliore tutela dei diritti umani.
1.2 La diretta applicabilità delle norme contenute nella CEDU sancita
dalla sentenza Polo Castro
Nella sentenza n. 1191 del 23 novembre 1988, sentenza Polo Castro, le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno disposto la diretta
applicabilità delle norme CEDU alla sola condizione che
L’atto o il fatto normativo internazionale contengano il modello di un atto interno
completo nei suoi elementi essenziali, tale cioè da poter senz’altro creare diritti ed
obblighi, (caso in cui) l’adozione interna del modello di origine internazionale è
automatica
Ne consegue la loro immediata invocabilità davanti ai giudici italiani e
l’obbligo, per questi ultimi, di assumere le decisioni in sede di giudizio
attenendosi all’interpretazione della Convenzione resa dalla Corte EDU.
Ciò non esclude il compito dell’interprete nazionale nel valutare, in merito
alla singola disposizione e alla singola ipotesi interpretativa, la sussistenza
della possibilità di diretta applicazione, dunque può palesarsi il caso in cui
la medesima norma sia considerata self-executing se applicata ad un caso
ma non lo sia in relazione ad uno dissimile e ciò è pensabile in virtù della
complessità degli ordinamenti giuridici interni. In ragione di questa
possibilità, non di rado la Cassazione è giunta a conclusioni opposte in
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relazione alla stessa disposizioneed è rimasto costante, per molto tempo,
l’orientamento della stessa che mirava ad attribuire “valore
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programmatico” alle disposizioni CEDU, così come è usuale che la Corte
Costituzionale affermi che le norme pattizie “non si collocano di per se
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stesse a livello Costituzionale".
Questi atteggiamenti denotano il timore verso un’apertura al diritto
internazionale considerata forse troppo invasiva della sfera normativa
interna. Fortunatamente molte ritrosie saranno superate nel tempo,
consentendo una maggiore elasticità nell’incorporazione delle disposizioni
convenzionali.
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Un caso ancora controverso è rappresentato dall’art. 5, par. 5 della Convenzione. In merito si
confrontino la sentenze 7 Agosto 1984, caso Mustacchia contro Ministero di Grzia e Giustizia,
pubblicata in Temi romana,1985, II, p. 977 ss., e la sentenza 27 Maggio 1992, pubblicata in
Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, 1992, p. 1151 ss. che hanno avuto esiti asimmetrici.
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Questa ipotesi è stata ravvisata a proposito dell’art. 6, par. 1 della Convenzione. La Cassazione
penale, sez. I, nella sentenza del 27 Novembre 1990, ha attribuito infatti a tale disposizione il
carattere di semplice direttiva cui devono attenersi le legislazioni nazionali.
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Es. Sentenza 5 Luglio 1990 n°315
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