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In seguito studiamo il rapporto tra committente e terzista, sia in modo
analitico- spezzando il contratto in tutte le sue fasi rilevanti- sia in modo
sintetico, illustrando problemi e difficoltà, l’operabilità e la credibilità di
entrambe le parti. Le controversie più rilevanti sono: la distinzione del
marchio di fabbrica nel passaggio delle lavorazioni dei capi tra i vari
imprenditori, la ricerca da parte dei committenti di façonisti all’estero e la
preoccupante migrazione dei façonisti italiani.
Il terzo capitolo riguarda la legge n.192 del 1998, il provvedimento che ha
regolato il rapporto di subfornitura.
Nel capitolo successivo studiamo la Quick Response. In un rapporto di lavoro
dove i margini di guadagno sono ridotti al minimo, il rispetto e la riduzione
dei termini di consegna giocano un ruolo fondamentale, la time based
competition.
Mentre le pratiche tradizionali dilatano i tempi, la Quick Response- Risposta
Rapida- permette di ridurre il tempo impiegato nella progettazione,
confezione e distribuzione dei prodotti moda. L’impiego di supporti
informatici, dei codici a barre e dei dati rilevati tramite terminale POS (Point
Of Sale) sono gli strumenti per avviare tale metodologia e rilevare i risultati di
essa.
Nel quinto capitolo si analizza la subfornitura nel contesto europeo. Pur
essendo questa un’indagine a livello locale, è fondamentale ricordare quanto
fatto dal Consiglio dei Ministri dell’Industria dell’Unione Europea e dalla
Commissione Europea nel campo dell’abbigliamento.
Infine, si illustra la dinamica della concorrenza intereuropea nel settore.
Per rendere più verossimile tale ricerca, sono state realizzate interviste a
terzisti del vicentino, a uno studio di consulenza e alla Benetton Group S.p.a.,
committente rappresentativa sia come numero di façon impiegati sia come
quota di mercato.
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Capitolo 1
Subfornitura: definizione e funzionamento
1.1 Il contesto regionale della produzione
1.1.1 Il territorio come fabbrica
Il problema del territorio è spesso considerato, nella versione più banale come
mera contrapposizione tra Nord e Sud: il tema è entrato nel senso comune
anche in forza della sovraesposizione politica di cui è oggetto.
Un primo decisivo mutamento da segnalare è quello che assegna alla
dimensione territoriale funzioni e ruoli che vanno oltre l’abitare stesso,
rimandano al produrre e al produrre per competere.
Nel passaggio della fabbrica come luogo centrale e unico della produzione
(soprattutto in ambito urbano) alla sua dimensione diffusa, il territorio è
diventato esso stesso luogo produttivo: “territorio come fabbrica”,
interconnesso a reti e a processi dove si lavora comunicando. Concentrazione,
estensione, dilatazione sono le tre modalità che hanno caratterizzato fasi e
modelli produttivi in cui quel rapporto spaziale definito gerarchicamente da
un centro e da una periferia è venuto progressivamente meno.
E’ negli anni settanta che la grande impresa si ristruttura, passando da logiche
di concentrazioni “per poli” a dinamiche di “estensione territoriale”. In questo
contesto la dimensione territoriale assume crescente rilevanza fino a fare del
territorio un fattore di produzione alla stessa stregua del capitale e del lavoro.
8
Si assiste a un processo di contaminazione tra grande impresa, localismi
produttivi e distretti industriali. E’ la fase in cui il capitalismo molecolare
prende corpo e si diffonde con logiche di impresa sommersa che spesso
coincidono con la territorializzazione del ciclo della grande impresa. Non vi è
una rottura del modello produttivo fordista; anzi, questo modello attraverso
indotto e la subfornitura si estende sul territorio contaminando le
microimprese e il lavoro artigiano: nella fabbrica diffusa, però, forme del
produrre e strutture della società locale si trovano a interagire e il ruolo della
famiglia non si limita più all’attività del consumo ma investe anche quella
della produzione.
Certo, le nuove imprese, la loro crescita e la loro diffusione, sono incentivate
dalla grande impresa, ma attingono anche a logiche di finanza caratteristiche
del risparmio famigliare.
Inoltre, la fabbrica diffusa si impianta nei luoghi dove la manodopera è più
disponibile, radicata, dove può utilizzare strutture private e infrastrutture
pubbliche esistenti: sono ex capi o ex operai, sollecitati dall’impresa madre,
che innescano e alimentano i localismi produttivi.
Ne risulta una distribuzione diffusa sul territorio, che valorizza il rapporto con
l’ambiente sociale e minimizza i traumi e le fratture della crescita: i costi del
fordismo.
Potendo continuare a vivere nell’ambiente di origine, i lavoratori si trovano in
condizioni vantaggiose per quel che riguarda costo e qualità della vita,
protezione sociale ed opportunità di attività integrative e ciò è motivo di
moderazione e di pace sociale.
Questo processo, definito “industrializzazione senza fratture”, non può essere
letto come pura espansione dall’alto verso il territorio della fabbrica fordista
che decentra senza rotture segmenti e reparti del suo ciclo.
Quanto sia stato un processo dall’alto o, al contrario, di contaminazione e di
accerchiamento dal basso- partendo cioè dal tessuto diffuso del lavoro
artigiano e delle piccole e medie imprese- è da approfondire. Quello che è
9
certo è che nel passaggio, dalla fabbrica diffusa al territorio come fabbrica vi
è una frattura, una discontinuità che ha lasciato tracce profonde sia nelle
forme di produrre che nei modelli sociali.
E’ questo salto che fa registrare a Nord elementi di transizione da un modello
fordista a un postfordista- la fabbrica diffusa- molto spesso nient’altro che
l’estensione sul territorio dei diversi modelli in cui l’impresa si sta
strutturando.
Nel contesto di mondializzazione dell’economia, dove produrre significa
competere, il territorio diventa ambiente complesso a cui l’impresa ricorre in
maniera selettiva per reperire quelle risorse esterne al ciclo che le sono
necessarie per essere più competitiva: economie di urbanizzazione,
comunicazione sociale, saperi, infrastrutture. In questo senso il territorio si fa
fabbrica. E, più che attraverso sistemi d’impresa si compete attraverso sistemi
territoriali, si innesta il passaggio dai localismi di produrre ai localismi dei
saperi.
I confini territoriali si dilatano oltre le continuità fisiche, assumendo contorni
inediti determinati dal tessuto di relazioni e scambi, sia materiali che
immateriali, intrattenuti con l’esterno.
Declinando i fattori legati alla convenienza geografica- distanza, accessibilità,
contiguità- tipici della fase di estensione, e assumono importanza i sistemi di
relazione, i sistemi di trasmissione delle conoscenze, delle trasformazioni,
delle tecnologie. Riducendosi l’importanza delle tradizionali contiguità
spaziali, emergono anche quei sistemi locali, un tempo periferici, dotati di
capacità autonome di partecipazione a reti internazionali e mondiali.
Si pensi al ruolo strategico assunto da alcune aree transfrontaliere, prima
periferie del sistema.
10
Mutano le tre variabili forti del sistema fordista: capitale, lavoro e territorio. Il
capitale perché è soggetto a processi di coalizione finanziaria; il lavoro,
perché si scheggia in una molteplicità di figure atipiche; ed il territorio perché
le funzioni di “forza produttiva” si trasformano a tutto vantaggio di quelle che
integrano le esternalità senza di cui lo stesso aggancio alle reti lunghe è di per
se escluso. Il territorio diventa fabbrica solo se è in grado di garantire quei
margini di flessibilità e versatilità che lo rendono risorsa strategica e che in
questo modo lo sottraggono al destino di ridursi a puro fattore di produzione.
Paradossalmente, solo se non si limita a porsi come luogo di reperimento di
manodopera abbondante e a basso costo, un territorio può competere nella
globalizzazione.
Il territorio oggi è esposto ai rischi di marginalizzazione e nel contempo può
diventare fattore strategico dei processi di mondializzazione.
L’incontro tra locale e globale è allora tutt’altro che automatico. In questo
senso, il territorio è innanzi tutto un luogo di ambivalenza: vi si proiettano,
infatti, le incertezze indotte dallo schermo mobile della mondializzazione,
così come ambivalenti e plurime si mostrano le forme di "messa al lavoro” dei
soggetti. Chi lavora nel ciclo della grande impresa ristrutturata o della media
impresa competitiva lo fa sempre più spesso come se fosse lavoratore
autonomo, sviluppando quell’empatia con l’azienda (come se fosse propria)
che permette di produrre comunicando nei circuiti di qualità e cooperazione;
o, se il modello aziendale ha carattere “coreano”, l’essere salariati ma,
insieme, lavoratori autonomi significa perdere ogni garanzia e quindi essere
disponibili ad uscire dal ciclo o ad essere riassorbiti a seconda degli
andamenti di mercato dell’impresa. Nello stesso tempo, i lavoratori
formalmente autonomi, che sono le vere risorse di integrazione
territorialmente diffuse, se lavorano nel ciclo di subfornitura di qualità, o nel
ciclo della consulenza che interconnette le reti, sono legati a tempi e ritmi
dettati dalla fabbrica territoriale: proprio come erano i lavoratori salariati nel
ciclo produttivo fordista. Il territorio dilatato segue logiche di tipo funzionale,
11
crea nuove differenze e nuove forme di sfruttamento a fronte di un’ambigua
crescita delle opportunità.
In questo processo si osservano forme di resistenza e conflitto del tutto
inedite, anche se possono sembrare antiche, come ad esempio la difesa del
luogo e dello spazio, il territorializzarsi alimentando sintomi di agorafobia che
sono il portato più diretto della dilatazione dell’orizzonte della vita.
1
1.2 Il territorio: elemento caratterizzante i distretti industriali
I distretti industriali nel Veneto cospargono il territorio senza soluzione di
continuità. Ma la loro distribuzione, come sempre, non è affatto causale. Né lo
è la caratterizzazione merceologica. La stessa ormai da tempo individuata da
Giacomo Becattini, il massimo studioso del "fenomeno non fenomenale"
(cioè, unico, eccezionale e quindi destinato a sparire) dell’industria italiana
organizzata per poli produttivi di imprese piccole e medie, specializzate in
una precisa filiera (per esempio, il mobile) o in parti di una filiera produttiva
(per esempio, il tessile nell’abbigliamento), che si fanno concorrenza sulla
stessa fase produttiva ma che "collaborano" (attraverso rapporti più o meno
subordinati) su fasi diverse.
Quali sono i prodotti tipici dei distretti? Citando Becattini, sono: i beni di
consumo durevoli per la persona (abbigliamento, calzature, occhiali) e le
materie prime relative (tessili, cuoio, pelli); i beni per la casa (mobili, coppi,
ceramiche, vetri); e le macchine che servono a produrre gli uni e gli altri beni.
Molte altre sono le caratteristiche dei distretti, e tutte si trovano in Veneto. Lo
scambio informale di informazioni tra aziende del distretto, attraverso i
contatti familiari o sociali di imprenditori e lavoratori, che permette una
rapida diffusione delle innovazioni tecnologiche e la pronta individuazione
degli sbocchi o delle localizzazioni più promettenti. La continua formazione
1
Bonomi A., Il Capitalismo Molecolare, Einaudi Editore, Torino, 1997.
12
on the job. La grande vitalità di generazione di iniziative imprenditoriali,
spesso da ex lavoratori dipendenti che si mettono in proprio, aiutate a crescere
dalla presenza nel distretto di tutti i fattori competitivi e dall’assenza o dalla
ridotta dimensione delle barriere all’ingresso.
D’altronde, il Veneto ha offerto un terreno fertile al sorgere e moltiplicarsi dei
distretti. Sia per le forti radici commerciali e industriali di tutta la fascia
pedemontana, che per la tradizione storica di alcune lavorazioni legate
all’antica domanda della nobiltà e dei patrizi della Repubblica Serenissima (di
cui si è celebrato il bicentenario della scomparsa). Le une e le altre hanno
creato tradizioni e quel saper fare e creare prodotti che sono l’anima
distrettuale.
Ma quanti sono i distretti nel Veneto? I dati ufficiali dicono 34, lo stesso
numero che si trova nelle Marche e che non è molto distante dal primato
lombardo (42). I dati sono contenuti nel Rapporto annuale dell’ISTAT
presentato nel maggio del 1996 e che rielabora i risultati del censimento 1991
usando i criteri canonici della concentrazione-specializzazione territoriale. Si
scopre così che in Veneto ci sono: un quinto dei distretti tessile-abbigliamento
italiani, un decimo di quelli cuoio-calzature, un quarto dei distretti produttori
di beni per la casa, il 15% dei distretti della meccanica e il 25% di quelli
dell’oro (che a livello nazionale sono solo quattro).
Qualche esempio aiuta meglio a identificare questi distretti. Si va dalle
calzature sportive di Montebelluna a quelle eleganti della Riviera del Brenta,
dall’oro di Vicenza alla concia di Arzignano, dai mobili in stile di Cerea-
Bovolone (ma anche Bassano ha il suo bravo polo di mobili) a quelli più
austeri e da ufficio del trevigiano, dalle ceramiche bassanesi ai vetri muranesi,
dalle selle per bicicletta di Rossano agli occhiali del Cadore, ai coppi di
Possagno. E i marchi sono i più noti: Luxottica, De Rigo, Nordica, Tecnica,
Lange, Euromobil, Selva, Luigino Rossi, Mastrotto, Tognana, per citarne
qualcuno.
13
Questo modello di industrializzazione ha creato crescita del reddito e
riduzione della disoccupazione, che ormai è a livelli fisiologici. Insomma, ha
prodotto benessere. È stato anche quello meglio attrezzato per sfruttare
appieno il boom da svalutazione del 1993-95. Quello che poi ha fatto parlare
(e straparlare) del nordest.
Tuttavia, ora questo modello deve far fronte ai cambiamenti indotti dalla
delocalizzazione. Vicina, cioè nei Paesi dell’Est Europeo (Romania,
Slovacchia e Slovenia abbondano di iniziative e joint-venture promosse da
veneti); e lontana, nel Far Est asiatico, dove da tempo è concentrata la
produzione di scarpe sportive. La delocalizzazione da un lato rompe gli
schemi dei distretti, mettendo in seria difficoltà i terzisti. Dall’altro spinge le
imprese a concentrare l’attività della casa madre su attività di progettazione-
ideazione che a sua volta hanno bisogno di servizi reali e nuove forme di
fornitura. E in questo modo, rispecializzandosi, i distretti rinascono dalle
proprie ceneri.
2
Le vicende del tessile-abbigliamento nel Veneto assomigliano più a una saga
familiare che a una vera e propria storia imprenditoriale. E in questo caso
parlare di Veneto e non di nordest non è capzioso: l’evoluzione di questo
settore si gioca a cavallo tra due province, Vicenza e Treviso. Se vogliamo,
magari generalizzando, Vicenza rappresenta la capitale del tessile, Treviso,
con i Benetton e la Replay di Claudio Buziol e Stefanel, dell’abbigliamento.
Ma è una classificazione forzata, che non regge alla prova della Diesel di
Renzo Rosso, l’altro enfant prodige del casual veneto entrato in lizza tra i
finalisti che si sono disputati il premio americano di imprenditore dell’anno.
Se si comincia con gli alberi genealogici e le primogeniture territoriali non si
va lontano. Quello veneto è un intreccio, un dedalo di competenze e
intelligenze che si sono sparse in modo omogeneo nella regione. Quel che è
certo è che le 14.400 imprese del comparto (tessile, abbigliamento, cuoio e
calzature) di cui più delle metà artigiane, hanno dato vita a un polo produttivo
2
Paolazzi L., “Distretti alla sfida delocalizzione”, in Il Sole 24 ore, 2 giugno 1997.
14
che nel ’96 ha avuto un giro d’affari di 59.800 miliardi e un attivo
commerciale di 41.800.
Numeri di tutto rispetto, che arrivano da molto lontano, almeno da 240 anni
fa, quando a Schio nacque il lanificio Conte, una delle cinque fabbriche più
antiche d’Italia entrata di diritto nell’esclusivo club francese de Les
Henokiens che raccoglie le aziende con più di duecento anni che siano state
guidate da membri discendenti dalla stessa famiglia fondatrice. Dal lanificio
Conte in giù, fino ad Alessandro Rossi che sempre a Schio fonda la Lanerossi
e i Marzotto che nella prima metà dell’ottocento creano a Valdagno un’altra
dinastia imprenditoriale, c’è un filo rosso.
Dice Giorgio Roverato, ordinario di Storia dell’economia all’Università di
Padova: «Il "saper fare" che nel tempo si era stratificato tra le imprese del
tessile-abbigliamento dell’Alto vicentino, è riesploso nella seconda metà di
questo secolo, originando quel complesso di attività che dall’iniziale
produzione tessile si è estesa nelle sue diramazioni a valle: maglieria, abiti
confezionati, abbigliamento informale».
Quella nidiata di imprenditori che ha dato vita a quei casi imprenditoriali
(come il fenomeno dei fenomeni costituito dai Benetton) nasce da questa
cultura. Dalla cultura delle migliaia di laboratori artigiani, di façonisti, dei
sarti che prestano la propria opera conto terzi e che hanno costituito il
trampolino di lancio per tutti gli imprenditori che portano i loro nomi famosi
in giro per il mondo: oltre Benetton, che è il leader incontrastato di questo
modello, ci sono Renzo Rosso, Claudio Buziol, Giuseppe Stefanel, Claudio
Grotto. L’altro polo storico del tessile, quello di Valdagno, non solo ha
continuato a macinare successi e a diversificare, ma ha fatto un salto fruttuoso
nell’abbigliamento con l’acquisizione della tedesca Hugo Boss. Insomma, c’è
molto di più di un settore che genericamente si chiama tessile-abbigliamento.
Che dire del distretto calzaturiero della Riviera del Brenta? O di quello delle
scarpe sportive di Montebelluna che gli statistici fanno rientrare all’interno di
questo settore?
15
Sarà questione di «codice genetico», come azzarda il professor Roverato. O
forse dipenderà dalla capacità creativa e di lavoro che i veneti hanno saputo
mettere in mostra, fatto sta che il modello — se modello si può chiamare —
non solo funziona, ma negli ultimi dieci anni ha conosciuto una serie
impressionante di successi. Innanzitutto, tutti i principali industriali del settore
si sono globalizzati: l’insegna di Benetton nel cuore dell’Avana, a Cuba, è più
di un simbolo. Idem per il megastore che Renzo Rosso ha aperto in
Lexingtone avenue, a New York, di fronte al simbolo stesso dei jeans: la
Levi’s. Non è stato di meno Claudio Buziol, che ormai possiede il 100% della
Fashion Box (qualche mese fa il partner storico di Buziol, l’imprenditrice
Marina Salomon, ha venduto l’ultima tranche del 15% ancora nelle sue mani):
l’imprenditore trevigiano può contare su una rete di 215 negozi e 200 corner
sparsi in 50 Paesi in giro per il mondo. Il risultato fa un fatturato di 355
miliardi, che sommati ai 510 di Renzo Rosso, ai 3.637 di Benetton, ai 100 di
Grotto della Gas.
L’elenco potrebbe continuare. Quel che conta non è tanto l’abisso che separa
Benetton da tutti gli altri protagonisti dell’abbigliamento veneto, ma è la
capacità di far proliferare nuovi imprenditori capaci di inventarsi un marchio
e un prodotto di qualità, magari di nicchia, che però riesce ad imporsi su tutti i
mercati. La storia di Claudio Grotto, che in quel di Piovene Rocchette,
nell’Alto Vicentino, ha trasformato una merceria con annessa rivendita di
salumi in un’azienda da 100 miliardi di ricavi, spiega meglio di tante parole
che capacità pervasiva possieda quel reticolo imprenditoriale che 240 anni fa
ebbe origine da una filatura di lana nella vallata di Schio.
3
3
Maugeri M., “Un successo che ha radici nella tradizione famigliare”, in Il Sole 24 ore, 18 maggio 1998.
16
1.1.2 L’emergere dell’impresa in rete come formula organizzativa
Le strutture produttive minori sono interpretate come la tipologia più efficace
e flessibile per rispondere velocemente alla ciclicità e alla variabilità della
domanda finale, per interpretare creativamente i nuovi bisogni dei
consumatori nella transizione postfordista e per implementare modelli
produttivi e sociali più progressivi. Ma un passaggio importante nell’analisi
sulle prospettive del modello della piccola impresa è rappresentato
dall’identificazione di nuovi modelli di sviluppo imprenditoriale basati
sull’integrazione “a rete” di imprese anche di piccole dimensioni, più o meno
legate ai cicli produttivi delle imprese capocommessa.
Nelle nuove catene del fordismo flessibile, uno spazio rilevante è assegnato
alle imprese subfornitrici di piccole dimensioni che possono integrarsi in
modelli molto gerarchizzati, come nel caso di Benetton, sia lavorare più
autonomamente in un modello orizzontale di rapporti di potere, come nei
classici distretti industriali della “ Terza Italia”, dove però stanno emergendo
visibilmente forme di concentrazione proprietaria.
Nella nuova era postfordista, il “capitalismo disorganizzato” ritrova una
funzione di comando e di coordinamento, segmentando, scomponendo e
specializzando le reti di subfornitura.
Se assumiamo quest’ottica per rileggere i processi di ristrutturazione
dell’industria durante gli anni ottanta e i primi anni novanta, ne possiamo far
discendere due importanti conseguenze:
1. I cosiddetti processi di decentramento della produzione e di riduzione delle
dimensioni, che si sono osservati nei vari settori industriali, ma soprattutto
in quelli tradizionali e nell’industria dell’assemblaggio, non hanno per
nulla rilanciato la superiorità strategica della piccola dimensione, come
modello produttivo a se stante, ma hanno rappresentato un complesso
17
fenomeno di ricomposizione della matrice produttiva di molti settori e nel
frattempo un estendersi della gerarchizzazione e della specializzazione dei
network produttivi o dei corporate network, cioè dei sistemi produttivi che
hanno al centro un’impresa leader che in genere possiede le competenze
progettuali e tecnologiche sul prodotto e tiene ben saldo il legame con il
mercato, attraverso il controllo delle reti di vendita e distributive. In questo
senso la relativa autonomia giuridica e imprenditoriale di una fascia assai
numerosa di piccole imprese non ci consente di leggere correttamente il
fenomeno in atto, che è quello invece di una convergente messa in rete di
queste strutture all’interno di network produttivi dominati da aziende di
medie e grandi dimensioni, in cui la rete per ciascun’impresa dominante
rappresenta una forma non vincolante di valorizzazione delle competenze
aziendali.
2. Le forti modificazioni intervenute nei rapporti proprietari (attraverso
acquisizioni, fusioni e acquisti di partecipazione incrociata) hanno creato
una notevole mescolanza e integrazione tra il big business e le strutture di
piccola dimensione, così come appare altrettanto indicativo notare
l’affacciarsi di nuovi attori imprenditoriali formati da “grappoli” di
aziende medio-piccole.
In ogni modo, è la disintegrazione verticale esterna del ciclo di produzione il
fattore che interessa mettere in evidenza, essendo soprattutto questa ad aver
dato luogo a complesse forme di committenza e subfornitura e a processi di
integrazione esterni tra imprese che hanno assunto una connotazione spaziale
forte, con la localizzazione di gruppi di piccole imprese che caratterizzano
ciascun network produttivo (di tipo regionale o distrettuale o di “area
sistema”).
18
Questo nuovo modello organizzativo reticolare rimanda all’analisi delle
motivazioni che stanno alla base della costituzione di relazioni strutturate e
cooperative tra le imprese. Non si tratta tanto di attributi sociali riferiti a un
dato ambiente economico (cioè, condividere la stessa identità locale, la
medesima cultura produttiva, gli stessi codici linguistici e la stessa etica di
comportamento, dove quelli che si comportano diversamente sono
sanzionati), ma di competenze tecnologiche e di know how che sono
apportate dall’impresa subfornitrice, nell’ambito di una divisione sociale e
tecnica del lavoro, data dalle modalità di evoluzione di ciascun network
produttivo e dal livello di relazioni che legano il committente alla rete di
subfornitura cui fa riferimento, dal sistema degli incentivi (economici, sociali
e istituzionali) che spingono le imprese a ricorrere alla subfornitura stessa e al
livello di disintegrazione delle attività.
Possiamo cercare di definire le caratteristiche di ciascun corporate network in
funzione di una serie di una serie di vantaggi specifici, che il mercato non
sarebbe in grado di fornire, e che sono realizzati dall’esterno del confine
dell’impresa leader, ma all’interno di ogni singolo production network:
ξ La realizzazione di economie di capitale;
ξ La riduzione dei costi di coordinamento dei vari input produttivi (e tra
questi, come variabile critica, la riduzione del costo dell’orario del lavoro
ottenibile nelle lavorazioni che sono delegate a imprese collocate nel
settore artigianale o nella fascia della piccola impresa);
ξ Il bilanciamento della variabilità della domanda tra le varie unità
produttive (in caso di calo degli ordinativi le imprese leader possono
saturare i loro impianti e ridurre l’entità delle attività date all’esterno in
conto lavorazione);
ξ La massimizzazione della flessibilità produttiva (la scomposizione del
ciclo in piccole commesse realizzate da molte unità consente di applicare
un’organizzazione della produzione in just in time con una continua messa
19
in produzione di nuovi prodotti o modelli, e con una compressione
massima dei tempi di produzione);
ξ Lo sfruttamento delle potenzialità offerte dalla superiore specializzazione
tecnica di altre unità produttive;
ξ In relazione alla sua stabilità nel tempo, le caratteristiche di reversibilità
(mutamento sostanziale della rete e di retrattilità (flessibilità in senso
espansivo o di ridimensionamento), le quali, sommate, determinano la
capacità delle imprese che dominano il corporate network di divenire nodi
virtuali evoluti di molteplici network.
Nello scenario della moderna economia postfordista, l’esistenza di un modello
di “piccole imprese”, lungi dall’essere il risultato ideologico e metastorico di
una “fuga della produzione di massa, ne rappresenta invece un elemento
fondante di “integrazione strutturata”. Lo sviluppo del modello dell’impresa
rete mette in luce il formarsi di gerarchie organizzative, che rappresentano
un’evoluzione dimensionale verso l’alto dell’intera struttura industriale, e
l’introduzione nel sistema economico di nuovi livelli di concentrazione di
potere.
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4
Bologna S., Fumagalli A., Il lavoro autonomo di seconda generazione- Scenari del postfordismo in Italia,
Feltrinelli, 1997.