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Questa primissima fase non fu però priva di contraddizioni.
Nel periodo che dal 1954 al 1956 gran parte dei programmi si
caratterizza per un taglio divulgativo, si affrontano numerosi
temi e argomenti, ma non avendo l’Italia una cultura di massa
prevalente e un livello medio di scolarizzazione per
promuoverla e diffonderla è necessario basarsi sull’unico
elemento comune allora: la cultura alta, quella della
ristrettissima classe dirigente. Gli italiani prima scoprono
l’intero Ottocento letterario attraverso la formula, di enorme
successo, del romanzo sceneggiato; poi colmano le loro
lacune più specificamente teatrali spaziando dalla tragedia
greca a Pirandello. Ovviamente questo rifarsi a una cultura
così elitaria che comportava il proporre trasmissioni troppo
accademiche, costituì un forte limite, si rischiava infatti di
compromettere la diffusione del nuovo mezzo tra le fasce più
numerose della popolazione. Tale limite venne superato nel
1956 quando si diffuse sempre più un orientamento opposto
che spinse la televisione a scendere a livello della popolazione
comune che era poi la maggioranza e che chiedeva a gran
voce programmi accessibili e fruibili che potessero aumentare
le loro conoscenze e i propri orizzonti culturali, in vista del
funzionale inserimento del cittadino nella nuova società
urbanizzata dove saper leggere, scrivere e far di conto non
erano più lussi o status simbol di appartenenza sociali, ma
esigenze essenziali.
L’iniziativa più emblematica e significativa di questo nuovo
corso è Telescuola, un corso di formazione professionale con
programmi identici a quelli scolastici.
Immagine tratta da Rai teche. Illustra una classe di Telescuola
Nacque dall’accordo con il Ministero della Pubblica Istruzione
al cui vertice era in quegli anni il ministro Moro, proprio come
sussidio ausiliare alle politiche di alfabetizzazione, cercando di
supplire la mancanza di infrastrutture e personale docente
portando le lezioni attraverso la televisione. Gli alunni
assistevano alle lezioni in punti di ascolto televisivi assistiti dai
maestri che controllavano la classe, ottenevano il silenzio,
raccoglievano i compiti e li iniviavano poi a via Teulada.
Telescuola fu il primo programma televisivo in Europa che ha
fatto acquisire un titolo di studio seguendo dei corsi di
avviamento professionale a distanza. Nel primo anno di
programmazione gli alunni furono 1500 e la prima fase che si
concluse nel 1961 fece registrare l’80% dei promossi.
L’ascolto della televisione equivaleva a cinque anni in più di
scuola quanto a conoscenze del vocabolario e della
grammatica. Così la televisione si è impegnata
significativamente nella lotta all’analfabetismo potendo
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raggiungere indistintamente anche quei ragazzi residenti in
paesi privi di scuole di secondo grado.
L’impegno educativo e istruttivo della televisione prosegue con
altre iniziative e programmi, nel 1960, prende il via “Non è mai
troppo tardi”, condotto dal maestro Manzi che durerà all’incirca
dieci anni. Il programma si prefisse di perseguire la
scolarizzazione di massa. Con questa trasmissione la Rai e il
Ministero della Pubblica Istruzione, istituzionalmente coinvolto,
danno vita al primo corso televisivo per l’alfabetizzazione di
base degli adulti analfabeti, offrendo loro la possibilità di
ottenere la licenza elementare.
Ancora una volta si cercò di combattere quelle sacche di
analfabetismo numericamente consistenti presenti nel paese.
Anche in questo caso si istituirono dei punti di ascolto
televisivi, oltre duemila, per venire incontro alle esigenze dei
più che non avevano la televisione. Ci furono 12.000 corsi e
150.000 allievi. Dopo queste prime trasmissioni a scopo
prettamente educativo e istruttivo, che significò la sostituzione
della televisione alla scuola, si andò verso un ruolo della
televisione rispetto alla scuola segnato dalla collaborazione e
dalla complementarità, inaugurando la fase cosiddetta della tv
integrativa.
Per agire in direzione di un’erudizione e una crescita culturale
del proprio pubblico alcuni critici parlano di “palinsesto
pedagogizzante”, che vede l’inserimento di elementi di
erudizione e una crescita culturale anche nei programmi di
intrattenimento come i quiz o i varietà. Un tentativo di
coinvolgere anche il pubblico che non fruisce della
programmazione culturale propriamente detta, attraverso la
lega del gioco, dello spettacolo, dell’ intrattenimento.
Nacquero programmi di approfondimento su tematiche
particolari e rivolte a diversi target con lo scopo di integrazione
e supporto all’insegnamento. Nel 1975 venne creato il DSE
(dipartimento scuola educazione) che fino al 1994 produsse
trasmissioni educative per vari target, operando su tre
direttrici: scuola, cultura e lavoro. Successivamente, il DSE
divenne Videosapere e alla fine degli anni novanta Rai
Educational, una struttura televisiva che produce programmi
che vanno in onda in chiaro e via satellite.
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Con l’avvento del format del sistema misto, la nascita degli
altri canali Rai e delle televisioni private, il primo canale
subisce una contaminazione, dominano il palinsesto
programmi di intrattenimento, oltre che di informazione e
cultura.In casa Rai sul Primo c’era appuntamento per il grosso
pubblico,sul Secondo si proponevano programmi più
informativi; in Finivest, diventata poi Mediaset, la
programmazione veniva fatta in base al principio di
complementareità, per cui se Canale5 mantiene i tratti di una
tv generalista diretta alle famiglie, a Italia1 spetta il compito di
intercettare l’attenzione dei ragazzi e a Rete4 quello di
interessare il pubblico femminile. Nelle esperienze
riconducibili alla prima età della tv, e in particolar modo
alprimo canale Rai si è maggiormente manifestato il ruolo
pedagogico ed educativo della televisione che ha saputo
agevolare l’unificazione linguistica e la crescita culturale
dell’Italia, arrivando a tutti gli strati della popolazione seppure
con un occhio particolare nei confronti di quelli maggiormente
svantaggiati.
1.4 Il quiz tra gioco e cultura
La funzione pedagogica della televisione si afferma anche
negli spettacoli e nei giochi: i quiz nascono infatti non come
forme spettacolari, ma come forme prettamente culturali.
Lascia o raddoppia? È un telequiz puro, che risponde alle
esigenze pedagogiche della prima televisione e al progetto
culturale e formativo del paese: l’unificazione e la
comunicazione. Deriva dal format americano The $ 64.000
Question, ma era stato acquistato dalla Francia, dove andava
in onda con il titolo Quitte ou Double?.
Non è la prima volta che si allestisce un programma a basa di
quesiti. La tradizione radiofonica – basti pensare al “Botta e
Risposta” di Silvio Gigli, che tiene banco dal primo dopoguerra
– è lunga e gloriosa. Risale addirittura all’Eiar e coinvolge
persino uno come Eduardo De Filippo, che negli anni trenta
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aveva inventato un giochino che cambiava titolo in
continuazione: da “Chi è al microfono” a “Insomma, lei chi è?”,
sino al più fascisticamente corretto “Insomma, voi chi siete?”.
Solo che, quelle di De Filippo prima e di Silvio Gigli poi, erano
domanidine facili, facili; indovinelli, più che altro. Assai prima
di “Samarcanda”, “Botta e risposta” aveva scoperto la piazza e
reso il pubblico protagonista; indubbiamente meno impegnato,
ma protagonista. Era un carrozzone itinerante che piantava le
tende un po’ qua, un po’ là – un teatro, uno studio radiofonico,
ma anche una fiera – proponendo rovelli con i quali si poteva
cimentare chiunque. Un karaoke ante litteram con i quiz al
posto delle canzonette. I premi erano adeguati, poco più di
una bambolina da luna park: saponette, cravatte, lamette da
barba, profumi autarchici, confezioni di Tabacco d’Harar per
lui e Felce Azzurra Paglieri per lei; il massimo dello chic di
provincia. Sogni da commesso viaggiatore.
Quella di “Lascia o raddoppia?” è invece un’Italia che comincia
a sognare in grande. E il quiz le tiene bordone. Il programma
non è il primo del genere nemmeno per quanto riguarda la
breve storia della televisione. Lo avevano preceduto almeno
quattro esperimenti: “Attenti al fiasco”, di Dino Falconi;
“Duecento al secondo”, di Garinei e Giovannini, presentato da
Mario Riva; “Cosa fa il signore X?” – in cui per la prima volta
scendevano in campo, anche come concorrenti, i personaggi
dello spettacolo – e “Fortunatissimo”, gioco a premi tutto
basato sulla conoscenza del galateo, anch’esso presentato da
Mike.
Solo che in questi casi l’indovinello era appena un pretesto, la
molla per far scattare uno spettacolino di poche pretese, a
base di scenette, prove d’abilità, gag e penitenze. E appena si
usciva dal seminato, apriti cielo…Come quando “Duecento al
secondo” venne soppresso perché ritenuto lesivo della dignità
umana. Chi perde paga pegno; ma un gavettone in tv,
nell’Italia perbenista di Andreotti, in cui i panni sporchi si
lavano rigorosamente in casa, può anche suscitare indignate
interrogazioni parlamentari.
“Lascia o raddoppia?” è invece il primo quiz allo stato puro,
senza orpelli. Nell’adattamento del modello straniero c’è ben
presente la lezione italiana del teatro. Il primo aggiustamento
è la durata. La striminzita mezz’ora del format americano è
indispensabile per lo spettatore italiano, che quando riesce a
conquistare un apparecchio televisivo, magari facendo
kilometri con una seggiola pieghevole sotto il braccio,
pretende di essere intrattenuto dalla scatola parlante per tutta
la serata. Da questo iniziale imprinting teatrale nasce la lunga
durata dello spettacolo italiano di prima serata: in Italia la
pezzatura da mezz’ora attecchirà solo nei giochi daytime e
preserali quotidiani; le prime serate settimanali supereranno
sempre l’ora, l’ora e mezzo.
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Il secondo aggiustamento è la spettacolarizzazione. Il format
originale era concentrato sul meccanismo del gioco, sulla
competitività e sulla scalata al successo. I concorrenti erano
pedine che dovevano rispondere ad un numero limitato di
materie. In Italia, il gioco non può ridursi all’asciutto
automatismo domanda- risposta, deve mettere in moto la
drammatizzazione, l’identificazione e la creazione del mito.
Prima di “Lascia o raddoppia?” il divo è solo l’attore, dopo
Lascia o Raddoppia divi diventano professori di matematica,
casalinghe, ovvero tutte quelle persone che si trovano a
partecipare ad un quiz per vincere una somma di denaro e
non per voglia di popolarità. Prima di “Lascia o raddoppia?”
nei dizionari di lingua italiana la parola “personaggio”
significava soltanto personaggio storico. E’ Mike Buongiorno
ad usarla per la prima volta nell’accezione di “persona che ha
un rilievo”. Si è personaggio per il mix fra normalità di vita ed
eccezionalità del sapere, che secondo la tradizione
dell’eclettismo culturale italiano può essere qualunque
materia. La costruzione del personaggio avviene teatralmente,
attraverso la prova, una roulette russa in diretta che è
l’occasione dello svelamento del “carattere”.
E’ la prima volta che il pubblico italiano reduce dalla guerra e
da un retroterra di povertà e di sobrietà fa l’incontro con il big
money quiz show. Lascia o raddoppia? È come lo zio
d’America; male che vada; c’è una fiat 600, il premio di
consolazione della neoindustria automobilistica italiana:
perché come in America il telequiz è incentivo al consumo e
paradigma di sviluppo. Nel 1958 solo il 12% delle famiglie
possedeva un televisore, che rappresentava un sogno quasi
irraggiungibile. Un 17 pollici – lo standard medio – non costa
meno di 250.000 lire: cinque stipendi di quelli normali. Va
bene che ci sono le cambiali, sulle quali si regge tutto il
sistema, ma il passo è comunque azzardato. Prima che la
nuova scatola magica cominci davvero a diffondersi ci
vorranno quattro o cinque anni. E’ cosi che si sviluppa quello
straordinario fenomeno di aggregazione che è la visione
condominiale. In una società nella quale il contadino è ancora
diverso dall’operaio e tutti e due guardano all’impiegato come
a un capitalista, le relazioni sono paradossalmente assai più
fitte di quanto non saranno vent’anni dopo, nella società
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integrata in cui tutto confluirà nella piccola borghesia. Nei
palazzi, ancora ci si conosce tutti. Ma è grazie alla televisione
che le relazioni si fanno più strette o s’intrecciano ex novo, al
di là del censo e delle barriere socio – culturali. Il fenomeno
nasce indubbiamente da un atto di orgoglio: perché stasera
non venite da noi a vedere il film(cioè a vedere quanto siamo
ricchi)?. Da questo momento, la visita diventerà un rito e la
casa del privilegiato si trasformerà in bivacco. La presa di
possesso, graduale, ma inarrestabile, non conoscerà ostacoli
né pudori. Le buone maniere andranno a farsi benedire e
nessuno si sognerà mai di abbandonare la posizione prima
della sigla di chiusura dei programmi. Non si può nemmeno
fare affidamento su una selezione naturale dell’uditorio, a
seconda dei generi. Certo, Lascia o raddoppia? E lo
sceneggiato di Majano raggiungono quello che si chiama il
picco d’ascolto. Ma in linea di massima il pubblico è onnivoro:
complici il monopolio e la novità. Lo spettacolo è la televisione
in sé, anche se l’immagine dei primi televisori spesso si
disintegra in un groviglio di righe diagonali che bisogna
dipanare intervenendo sulle apposite manopole. Nonostante
ciò nel 1965 il 49% delle famiglie possiede un televisore,
questo è frutto di uno sviluppo economico: triplicano le vendite
di frigoriferi, lavatrici, di automobili private, e gli abbonati Rai
passano dai 366.000 del 1956 ai 5 milioni del 1964. Durata,
concorrenti – personaggio, varietà degli argomenti sono gli
elementi teatrali che determinano il successo del quiz
all’italiana che dà l’imprinting a tutta la televisione a venire. Il
resto è scarno: la diretta da Milano(la registrazione su nastro
non esiste ancora), la scenografia, il tavolo dei notai, i gesti, le
parole.
1.5 Gli ingredienti del quiz italiano
Il format di un gioco “is like a cooking recipe”. Nella pentola del
quiz devono essere presenti alcuni ingredienti irrinunciabili,
basilari per la preparazione di qualunque piatto: la strategia, il
rischio, la semplicità, l’interattività, la linearità, la durata.
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La strategia è l’arte di predisporre e dirigere la battaglia.
Bisogna che nel gioco sia chiaro se il concorrente è padrone
del proprio destino o è in balia della fortuna, oppure se nello
stesso gioco le decisioni e la fortuna hanno entrambe un peso.
La strategia cambia non solo l’andamento del gioco, ma anche
la sua filosofia e di conseguenza il suo target.
Il rischio è l’elemento che garantisce la suspense: ad ogni
traguardo raggiunto può esserci un capovolgimento della
situazione, e si può perdere tutto o quasi tutto quello che si è
guadagnato.
La semplicità è un gioco che si spiega in due parole, di cui
l’interlocutore capisce immediatamente il meccanismo del
gioco.
L’interattività non è solo quella tecnologica, è il grado di
coinvolgimento del pubblico a casa anche quando non può
materialmente giocare: l’identificazione è la prima e
fondamentale forma di interattività.
La linearità è una struttura di gioco non appesantita da altri
sotto-giochi che confondono la strategia principale.
La durata è giusta se gli ingredienti precedenti sono presenti
in modo equilibrato. Solo se gli ingredienti fondamentali sono
dosati in modo giusto, il gioco ha le carte in regola per durare
nel tempo.
Perché un gioco vada in onda le norme e il regolamento di
gioco devono essere riconosciute ed autorizzate da un ufficio
legale, poi depositate all’Ufficio Concorsi presso il ministero
delle Finanze per l’approvazione ed il riconoscimento. Solo
dopo aver assolto questa parte burocratica, la produzione può
passare a lanciare il gioco e dedicarsi al casting, la ricerca e la
selezione dei concorrenti. Da sempre è stata necessaria la
presenza fisica di un notaio durante la fase di registrazione o
di trasmissione, cioè di un pubblico ufficiale che certifica lo
svolgimento regolari delle varie fasi di gioco.
Perché un gioco diventi televisivo bisogna far ricorso ad altri
due ingredienti: il divertimento e l’appeal, e la spettacolarità. Il
quiz è stato l’unico genere a rispondere immediatamente a
queste esigenze: la spontaneità(perché non era frequentato
da attori, ma da gente comune); l’attualità(perché il
telespettatore è sempre virtualmente presente anche se
lontano); l’alternanza realtà/finzione( il gioco è uno spettacolo
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con rischi e vincite reali). Il telequiz riusciva quindi a ricreare
quella autentica partecipazione emozionale e spirituale del
pubblico tipica del grande spettacolo di tutti i tempi.
Soprattutto in Italia il gioco è un pretesto per lo spettacolo
anche quando il pubblico che accede al teleschermo è solo
un’èlite di persone competenti, l’interesse italiano va al melò,
alla gente e alle piccole storie di vita, alla fiaba dell’eroe che
supera prove e merita il premio.
La gestione del casting in studio e la targetizzazione del
pubblico a casa cambia con il cambiare del tipo di gioco, ma
anche del tempo e dell’evoluzione del gusto. Anche i
conduttori devono essere diversi a seconda del tipo di gioco;
in comune però possiedono tutti una certa flessibilità. Anche
l’immagine dello studio cambia a seconda del tipo di gioco:
l’immagine può essere fredda, tecnologica, oppure colorata,
ottimista. Il sonoro è forse più importante dell’immagine, anche
se gli effetti sonori e la musica che sottolineano la suspense e
l’intervento delle tecnologie devono essere brani brevi che
suscitano richiami a temi già conosciuti.
Un altro ingrediente molto importante è il titolo del quiz. Il
pubblico lo da per scontato, ma il titolo è il frutto di un grande
lavoro ideativi. Gli autori sanno bene quanto pesa il titolo
sull’appeal del programma, e forse alcuni programmi non
avrebbero avuto lo stesso successo con un altro titolo.
1.6 La forza della conduzione: il fenomeno Mike
Anche per la difficoltà di trovare conduttori giusti per i giochi
televisivi, Mike ha avuto per tanto tempo il monopolio del
gioco italiano. Non c’è un genere come il gioco così
strettamente legato al conduttore.
Il conduttore è il garante della scaletta, cioè della narrazione
prevista dagli autori. La drammatizzazione e la suspense sono
ingredienti fondamentali della narratività del gioco televisivo: la
suspense dipende dall’abilità di gestire gradualmente la
tensione, il colpo di scena, il ribaltamento della situazione; la
drammatizzazione è il contraltare della suspense e serve a
prendere respiro dalla tensione con una situazione divertente,
imbarazzante, o un racconto.
Il telequiz è identificato con il presentatore, Mike Buongiorno:
non solo perché è stato il primo a condurne uno, ma perché è
l’uomo giusto al posto giusto.
L’ingrediente principale del successo di Mike è la dote
televisiva per eccellenza: la capacità di essere fino in fondo se
stesso. Insieme alla linearità, semplicità, non emozionalità, è
una caratteristica che il gioco televisivo esige dal conduttore,
ma anche da qualunque concorrente e ospite che voglia farsi
ascoltare. A ciò si aggiunge che nel 1954, anno di esordio
della tv italiana, Buongiorno, italoamericano, ex redattore di
una radio per emigranti, è l’unico che conosce davvero il
funzionamento della macchina televisiva. E’ consapevole che
davanti ad una telecamera i gesti contano più delle parole,
prova i movimenti prima della ripresa, è il mediatore ideale fra
la pesantezza del regolamento e delle domande e la
leggerezza della comunicazione televisiva, conosce
l’importanza del tormentone ed è il creatore dei primi slogan:
“Via al cronometro”!”, “Ahiahiahi il tempo è scaduto!”
“Peccato!”, “Il notaio conferma”, “La prima risposta è quella
che conta!”. Oggi sembra niente, invece le frasi fatte di Mike
hanno rappresentato veri eventi linguistici.
Con il tempo, il successo, gli insuccessi, la consapevolezza
del proprio personaggio, Mike si concederà non pochi vezzi e
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