di una delle maggiori e più importanti istituzioni internazionali nel
campo dello sviluppo, trattandone tanto le luci quanto le ombre,
concedendo da ultimo spazio alle critiche che le vengono mosse, in una
chiave comunque costruttiva.
È nel terzo capitolo che si arriva così ad illustrare il programma di
sviluppo sociale messo in atto dalla Banca dopo il lungo dibattito
internazionale che animò gli anni ’90, sfociato nel Social Summit di
Copenaghen del marzo 1995, che di fatto costituì un nuovo inizio nelle
politiche mondiali dello sviluppo. Dopo aver raccontato brevemente la
nascita del Social Development Network in the World Bank, si spiegano i
fondamenti del programma e le strategie che ne derivano, procedendo ad
una rassegna ragionata dei progetti più significativi suddivisi per
tipologie di intervento. In conclusione, si tenta un bilancio quanto più
scientifico ed obiettivo possibile di oltre dodici anni di attività.
CAPITOLO 1
TEORIE DELLO SVILUPPO
1.1 Che cos’è lo sviluppo? Difficoltà di una definizione
Prima di analizzare le diverse teorie dello sviluppo che hanno
contraddistinto in special modo il secolo scorso, è necessario soffermarsi
con attenzione sulla definizione stessa di “sviluppo”: una definizione
che, in sede di analisi scientifica, presenta molte più difficoltà di quante
si potrebbero immaginare.
Quando gli psicologi parlano di “sviluppo dell’intelligenza”, i
matematici di “sviluppo di un’equazione” o i fotografi di “sviluppo della
pellicola”, il senso che viene attribuito alla parola sviluppo è chiaro e
condiviso da tutti coloro che appartengono al medesimo campo
professionale. Ciò, al contrario, non è pacifico se analizziamo la parola
sviluppo così come essa si è imposta nel linguaggio corrente, per
designare uno stato od un processo connotati da elementi di benessere,
crescita economica, realizzazione personale od equilibrio ecologico.
1
Il difetto principale della maggior parte delle c.d. definizioni dello
sviluppo dipende innanzitutto dal fatto che esse sono generalmente
basate sul modo in cui una persona, od un gruppo di persone, si
rappresenta le condizioni ideali dell’esistenza sociale. Tale
procedimento, tuttavia, ha il grande vantaggio di permettere la raccolta
di un largo consenso a partire da valori indiscutibili
1
.
Per il pensiero corrente, dunque, la ricerca di una definizione di sviluppo
oscilla tra due estremi entrambi di difficile controllo. In primis,
l’espressione del desiderio generale di tendere a vivere una vita migliore,
quanto più agevole, sana ed appagante possibile, che sembra però
ignorare deliberatamente che le concrete modalità di tale realizzazione
finirebbero inevitabilmente per scontrarsi all’interno di scelte politiche
contraddittorie. In secondo luogo, la molteplicità del concatenarsi di tutte
quelle azioni, non prive anch’esse di elementi rissosi e contraddittori,
che si presume possano portare col tempo al realizzarsi della maggiore
felicità per il maggior numero.
1
Un ottimo esempio per evidenziare ciò che s’intende per uso “consensuale” dello
sviluppo si ritrova nell’articolo primo della Déclaration sur le droit au
développement (risoluzione 41/128 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del
4 dicembre 1986) che afferma: «Il diritto allo sviluppo è un diritto inalienabile
dell’uomo in virtù del quale ogni persona umana e tutti i popoli hanno il diritto di
partecipare e di contribuire a uno sviluppo economico, sociale, culturale e politico in
cui tutti i diritti dell’uomo e tutte le libertà fondamentali possano essere pienamente
realizzate, e di beneficiare di questo sviluppo.»
2
Ben si comprende da subito la debolezza di queste due prospettive. Esse
non consentono una vera e propria identificazione dello sviluppo, che
appare prima come un sentimento mutabile e squisitamente soggettivo di
realizzazione diverso da una persona all’altra, poi come una serie
confusa di operazioni in cui niente è in grado di provare a priori che
queste contribuiscano davvero allo scopo proclamato.
Al fine di uscire da questo vicolo cieco e soddisfare le esigenze
metodologiche strumentali a tracciare le linee guida del presente lavoro,
il concetto di sviluppo che qui preme definire dovrà invece nascere
all’interno di un punto di vista sociologico, andando a descrivere i
molteplici meccanismi che determinano il cambiamento nell’insieme
delle società contemporanee secondo una logica particolare, creatrice di
strutture nuove. Conviene, ovvero, osservare che cosa permetta di
affermare che un insieme di paesi siano da considerarsi “sviluppati”
mentre altri siano invece “in via di sviluppo”, a partire da pratiche
osservabili da tutti. Si tratta di mettere in evidenza il processo che è
all’origine di questa differenza, che si diffonde diversamente nelle due
realtà suesposte trasformandole reciprocamente in modo irreversibile.
Non è sufficiente affermare infatti che lo sviluppo si riduce al
cambiamento sociale, ma è necessario comprendere che esso consiste in
3
un fenomeno storico globale di cui è fondamentale capire le meccaniche
di funzionamento per poterne poi riscontrare la presenza o l’assenza, sia
a livello sociale che economico, geografico e politico.
Gilbert Rist propone autonomamente una definizione di sviluppo che
aiuti ad evidenziare quali siano gli elementi che distinguano le società
moderne da quelle che le hanno precedute, ponendo fortemente l’accento
sulla dimensione del mercato: “Lo «sviluppo» è costituito da un insieme
di pratiche a volte apparentemente contraddittorie le quali, per
assicurare la riproduzione sociale, costringono a trasformare e a
distruggere, in modo generalizzato, l’ambiente naturale e i rapporti
sociali in vista di una produzione crescente di merci (beni e servizi)
destinate, attraverso lo scambio, alla domanda solvibile.”
2
Adele Bianco
3
sottolinea invece come ad oggi la definizione di sviluppo
più completa ed utile dal punto di vista sociologico, pienamente
rispecchiante i risultati principali del dibattito contemporaneo, sia quella
proposta da Nohlen e Nuscheler nel 1992, la quale poggia su cinque
elementi fondamentali: 1) la crescita economica, questa intesa non
2
Si veda il capitolo primo di RIST G., Lo sviluppo. Storia di una credenza
occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 1997. L’autore, con estrema chiarezza,
esplicita uno ad uno gli elementi con i quali costruisce tale definizione.
3
Si veda BIANCO A., Introduzione alla sociologia dello sviluppo. Teorie, problemi,
strategie, Franco Angeli Editore, Milano 2004.
4
soltanto come aumento prettamente quantitativo ma come miglioramento
effettivo del livello sociale; 2) il lavoro, correttamente elevato a risorsa
primaria per una popolazione che intenda intraprendere un percorso di
autopromozione al fine di uscire dal proprio stato di subalternità; 3)
l’uguaglianza sociale, contrapposta alle sperequazioni sociali, vere
limitanti di un pieno sviluppo; 4) la partecipazione, quale reale ed
effettivo coinvolgimento della popolazione nel comune processo di
sviluppo; 5) l’indipendenza e l’autodeterminazione dei popoli, non
soltanto politica ma anche in relazione all’impiego delle risorse e delle
ricchezze locali.
Questa seconda scientifica e ragionata definizione convince molto, sia da
un punto di vista prettamente teorico che alla luce delle risultanti
empiriche che in questo lavoro andremo ad analizzare. Lasciandoci
dunque alle spalle lo spettro di elucubrazioni eccessive, più proprie
dell’ambito filosofico che non sociologico, e poggianti su assunzioni
troppo personalistiche e discutibili, senza incorrere nel rischio di derive
semplicistiche possiamo infine delineare il nostro concetto di sviluppo
come “il pieno dispiegamento delle potenzialità economiche, politiche
sociali e culturali di un popolo, quale risultante delle forze e delle
5
capacità di utilizzare al meglio le proprie risorse al fine di vivere in
condizioni di progressivo benessere.”
Tale capacità va tuttavia valutata in relazione ai suddetti processi di
trasformazione sociale, da collocarsi opportunamente nei rispettivi
contesti spazio-temporali.
1.2 Breve storia dello sviluppo: dall’antichità all’era moderna
Il concetto di sviluppo ha attraversato i secoli fin dai tempi più remoti,
nella mente dei pensatori e nella realtà dei popoli. L’idea di poter
progredire, evolversi e migliorare, sia attraverso una conoscenza più
consapevole del mondo che ci circonda che attraverso un impiego più
proficuo delle risorse disponibili, appare ovviamente inscindibile dalla
stessa natura umana. Ci sembra quindi opportuno, e per certi aspetti
doveroso, tracciare qui un breve excursus storico che tenga conto dei
momenti più importanti nei quali il concetto di sviluppo si è formato,
incrementato e modernizzato.
6
Nell’età antica, le prime riflessioni di rilievo in merito al tema dello
sviluppo sono indubbiamente quelle di Aristotele (384-322 A. C.). Il
campo della scienza, per il filosofo, era coestensivo a quello della natura,
intesa in un senso alquanto diverso da quello che le si attribuisce oggi.
Egli definiva infatti la scienza come «teoria della natura» - cioè dello
«sviluppo» - delle cose, ed esaminare le cose in modo scientifico
significava considerarle «secondo la loro natura», ovvero
conformemente al loro «sviluppo»
4
. Dal piano scientifico-naturale a
quello sociale per Aristotele il passo è breve. L’uomo è un animale
politico, il cui scopo ultimo è dato dalla città o dallo Stato che
“precedono” l’individuo, proprio come l’albero è “già” contenuto nel
seme. E così, proprio come il seme si “svilupperà naturalmente”
nell’albero, l’uomo si svilupperà nella comunità, nella città, nello Stato,
perché essi sono già contenuti nella propria natura
5
. Non soltanto, ma
4
Come riportato da RIST G., op. cit. pag. 28, si veda ARISTOTELE, Metafisica, 1.
V, § 4/1-8 [1014b e 1015a]. Va rilevato che la traduzione presenta molte difficoltà
perché il testo gioca costantemente con termini che bisognerebbe rendere
simultaneamente con “natura”, “crescita” e “sviluppo”. Questo è tuttavia sintomatico
e maggiormente esplicativo di quanto nel pensiero del filosofo queste accezioni
vadano a sovrapporsi e a coincidere. Se ne ha un ulteriore esempio in Fisica, 1. II, §
1 [193b]: «(…) infatti ciò che nasce, in quanto nasce, va da qualcosa verso qualcosa.
Ma qual è, pertanto, la cosa che nasce? Non certo quella da cui essa nasce, bensì,
quella alla quale, nascendo, essa tende.»
5
Cfr. di seguito ARISTOTELE, Politica, 1. I, § 13 [1253a]: «Quindi ogni Stato
esiste per natura, se per natura esistono anche le prime comunità: infatti esso è il loro
7
tale sviluppo, secondo un preciso e univoco ragionamento filosofico
applicato a tutte le cose, seguirà inevitabilmente una strada naturale che
lo protenderà verso il suo stadio di più alto miglioramento
6
. La natura
assegna così ad ogni essere, uomo-politico compreso, uno stadio “finale”
che corrisponde alla sua forma perfetta, nella quale si svilupperà col
tempo. Tale stadio, però, non sfugge alla teoria dei cicli, alla quale
Aristotele resta fedele: ciò che nasce, cresce e raggiunge la maturità
finisce anche per corrompersi e morire, in un perpetuo ricominciamento.
Si delinea già da questo primo pensiero antico, una visione dello
sviluppo insito nella natura umana, ma che come essa vive in un
processo di cambiamenti e riassestamenti continui, tendente comunque
sempre a migliorarsi attraverso un travagliato percorso storico-naturale
che tuttavia non si distoglie mai dal suo fine ultimo, quello stadio
“finale” a cui persino il più piccolo seme è predestinato.
Pochi secoli dopo Cristo, la rovinosa situazione dell’Impero Romano
accreditò l’idea che il mondo si trovasse alla fine di un ciclo, e che fosse
pertanto “naturale” che la potenza imperiale giungesse al suo termine. In
questo contesto politicamente instabile, Sant’Agostino (354-430) si
fine e la natura è il fine: per esempio quel che ogni cosa è quando ha compiuto il suo
sviluppo, noi lo diciamo la sua natura, sia d’un uomo, d’un cavallo, d’una casa.»
6
Il riferimento è chiaro in Della generazione e della corruzione, 1. II, § 10 [336b]:
«(…) noi sosteniamo che in tutte le cose la natura è protesa verso il meglio.»
8
sforzò di conciliare la filosofia della storia di matrice aristotelica, ancora
preponderante nella sua epoca, con la neonata teologia cristiana. Tale
conciliazione pose allo studioso una serie di problemi legati alle
dissonanze apparentemente insanabili fra le due prospettive, che lo
portarono però ad elaborare una soluzione originale dipendente da tre
fattori fondamentali che influenzeranno notevolmente la storia dello
sviluppo.
In primo luogo, egli affermò, la filosofia della storia – proposta sotto
forma di una storia della salvezza – concerne l’insieme del genere
umano. Rispetto agli autori precedenti che si interessavano unicamente
alla storia locale, nazionale o imperiale, Sant’Agostino dichiarò
l’universalità del suo schema, poiché tutte le nazioni della terra sono
soggette alla provvidenza divina.
In secondo luogo, gli avvenimenti storici particolari hanno importanza
solo rispetto alla loro iscrizione nel piano di Dio. La storia concreta non
deve certo essere trascurata né tanto meno abbandonata ad altri, come
avveniva per Aristotele, ma va reinterpretata nel quadro di quel conflitto
che oppone la città degli uomini alla città di Dio. In altri termini, la storia
occupa sì un posto importante, ma di secondo rilievo rispetto alla
filosofia della storia.
9
Da ultimo, Sant’Agostino sostenne che, nonostante le sue apparenze
sinuose, la storia obbedisce a una necessità. La concatenazione storica
che va dalla creazione alla fine dei tempi non può essere sviata dal caso
7
né dagli artifici umani. Il disegno di Dio, quindi, stabilito dall’eternità,
deve svolgersi ineluttabilmente.
Inscritto nella prospettiva agostiniana, il concetto di sviluppo perdeva
così la sua connotazione particolare, propria della visione aristotelica e
legata alla teoria dei cicli, per assumere una misura universalistica di
matrice cristiana che vedeva la storia come un ciclo unico corrispondente
ai piani divini, all’interno dei quali l’uomo perde parte della propria
autonomia decisionale di stampo pagano per assoggettarsi
all’inevitabilità di un volere superiore ed insondabile. Ora, questo
“adattamento” ebbe una grande importanza nella misura in cui aprì ad
una interpretazione lineare della storia che influenzò moltissimo l’età
medievale, nella quale tuttavia, come si immagina, le riflessioni attorno
al tema dello sviluppo furono ben lungi dal conoscere un periodo di
intenso incremento.
7
Per Sant’Agostino gli avvenimenti che gli uomini attribuiscono al caso sono quelli
che essi stessi non comprendono. Come suggerito da RIST G., op. cit. pag. 33, si
veda, in merito all’intera riflessione, la Civitatis Dei, libri XII-XXII.
10
Il dibattito riguardante la possibilità dei progressi della conoscenza, e di
conseguenza attorno al tema dello sviluppo, riprese invece a partire dalla
seconda metà del secolo XVII, quando Leibniz (1646-1716) fondò
razionalmente la possibilità di un progresso infinito. Egli osservò che,
anche se lo sviluppo e la crescita non avevano mai smesso di essere
considerati “naturali” e positivi nella tradizione occidentale, la loro
espansione era stata a lungo frenata dalla coscienza di un limite, di una
sorta di optimum a partire dal quale la curva doveva necessariamente
invertirsi in conformità alle “leggi della natura e di Dio”
8
.
All’interno del secolo dei Lumi, però, le idee in merito al concetto di
progresso e sviluppo furono tutt’altro che univoche, animando un acceso
dibattito.
Jean–Jaques Rousseau (1712-1778) in primis, sollevò un certo scandalo
affermando che i progressi erano il risultato dei vizi e della vana
curiosità dell’uomo stesso
9
. Tale scetticismo sulla teoria di un progresso
8
Cfr. G. W. LEIBNIZ, La naissance du calcul différentiel, a cura di M. Parmentier,
Vrin, Paris 1959, come riportato da RIST G., op. cit. pag. 35. In particolare pagina
51: « Si potrà obbiettare che questo progresso non risulta, e che sembra anzi che ci
sia molto disordine che lo fa per così dire arretrare. Ma è solo apparenza (…). Così,
non solo tutto procede con ordine, ma anche le nostre menti devono accorgersene
sempre di più via via che fanno progressi.»
9
Si veda RIST G., op. cit. pag. 36 per un richiamo a J.-J. ROUSSEAU, Du contrat
social [1762], Discours sur les sciences et les arts [1750], Discours sur l’origine de
l’inégalité parmi les hommes [1755], Union générale d’éditions, Paris 1973. In
quest’ultimo (p. 290) Rousseau afferma che “(…) quante più nuove conoscenze
11
infinto venne condiviso dagli scozzesi David Hume (1711-1776) e Adam
Ferguson (1723-1816), mentre il nobile francese G.–L. Leclerc, conte di
Buffon (1707-1788) si oppose radicalmente a tale pessimismo
riprendendo le posizioni di Leibniz nel suo affresco storico Historie
naturelle del 1749.
Lo sviluppo, e la cooperazione fra gli uomini al fine dello stesso, si
inserirono così autorevolmente nell’ideologia dei Lumi, la quale
concluse che lo sviluppo delle società, delle conoscenze e delle ricchezze
corrispondeva ad un principio naturale ed autodinamico, che fondava la
possibilità di un grande percorso storico-umano. L’ordine delle cose,
cioè il progresso, si dispiegava dunque come una “necessità naturale”
che niente poteva arrestare: lo sviluppo non era una scelta, ma la finalità
(e, in un certo senso, fatalità) della storia.
Il nuovo paradigma trovò completamento nel corso del XIX secolo sotto
la forma dell’evoluzionismo sociale, che consentì di ancorare saldamente
nell’immaginario collettivo la superiorità della società occidentale su
tutte le altre società. Tutti i contributi degli autori più importanti
concordarono su tre punti fondamentali: il progresso era connaturale alla
accumuliamo, tanto più ci priviamo dei mezzi per conquistare la più importante di
tutte; e in un certo senso, a forza di studiare l’uomo, ci siamo messi nell’impossibilità
di conoscerlo.”
12
storia, tutti i popoli seguivano il medesimo percorso ed, infine, la società
occidentale avanzava ad un ritmo ben superiore alle altre in virtù della
propria scienza, ragione e produzione economica e, conseguentemente, si
imponeva su queste. J.–B. Say (1767-1832) esaltava il ruolo della
potenza dell’industria e della produzione moderna, di fronte al quale
niente poteva opporsi, e le società che ad esso non si fossero conformate
sarebbero state distrutte
10
. Auguste Comte (1798-1857) cercò di
dimostrare che tutte le civiltà durante il loro sviluppo giungono ad uno
“stadio positivo” in cui trionfa la scienza, fondata su fatti verificati
dall’esperienza
11
. Karl Marx (1818-1883) rilesse la storia in chiave
materialistica ed affermò che lo sviluppo della formazione economica
della società era assimilabile ad un processo di storia naturale
12
. Un
contributo importante al definirsi di concetto di sviluppo fu senza dubbio
quello di Herbert Spencer (1820-1903) che propose la sua “legge di
complessità crescente”, secondo cui gli organismi viventi come quelli
10
Cfr. J.–B. SAY, Cours complet d’économie politique pratique, Société
typographique belge, Bruxelles 1843, parte I, cap. 13, pag. 74, come riportato da
BIANCO A., op. cit. pag. 32.
11
“L’ordine diventa allora la condizione permanente del progresso, mentre il
progresso costituisce il fine continuo dell’ordine. (…), il positivismo rappresenta
direttamente il progresso umano come consistente sempre nel semplice sviluppo
dell’ordine fondamentale che contiene necessariamente il germe di tutti i progressi
possibili” in A. COMTE, Système de politique positive ou Traité de sociologie
instituant la religion de l’humanité, Paris 1854, Vol. I, p. 105, riportato da BIANCO
A., op. cit. pag. 34
12
Cfr. K. MARX, Das Kapital (1867), come citato da RIST G., op. cit. pag. 41.
13
sociali passavano dalla omogeneità – o stato indefinito – alla
eterogeneità – o stato definito, dall’inferiore al superiore e dall’informe
al complesso
13
.
Profondamente argomentato, l’evoluzionismo sociale del XIX secolo
permetteva così di conciliare la diversità delle società e l’unità del genere
umano, anche se, a ben vedere, soltanto in apparenza, data la superiorità
unanimemente conferita alla società occidentale industriale. Era al
modello occidentale infatti che si attribuiva qualità di referente per tutte
le altre comunità e civiltà, e la credenza di uno sviluppo ineluttabile e
naturale impediva di considerarle in se stesse. Natura umana e natura
sociale, considerate in chiave evoluzionistica, dovevano rapportarsi
necessariamente all’Occidente, che si presentava come il precursore di
un processo di sviluppo comune a tutti, a patto che le altre società
avessero avuto la volontà e la capacità di seguirlo sul sentiero scientifico
e industriale da esso tracciato.
In conclusione di questo breve excursus storico, che partendo dagli
albori del pensiero ci ha traghettato fino ai primi decenni del secolo
scorso, solamente con la pretesa di tracciare una linea di carattere molto
13
Spencer affermò che “il progresso è l’effetto di una benefica necessità.” Come
suggerito da BIANCO A., op. cit. pag. 36, si confrontino in proposito i suoi due
lavori più importanti: The Development Hypotesis (1852) e Progress, its Law and
Causes (1857).
14
generale sulla nozione “sviluppo”, possiamo fare alcune importanti
osservazioni.
In primo luogo appare necessario evidenziare i punti di continuità e
quelli di rottura fra Aristotele, Sant’Agostino e gli studiosi moderni. La
continuità si esprime nel modo di considerare lo sviluppo come
“naturale” e necessario e, in special modo, nell’applicazione metaforica
dei termini natura e naturale alle istituzioni sociali e alla storia. La
rottura invece si ha nell’abbandono della nozione di declino, il che va ad
eliminare la nozione di ciclo, favorendo una lettura lineare della storia
universale e producendo un nuovo insieme di valori ammessi da tutti.
In secondo luogo, non si può far a meno di notare un significativo
paradosso che emerge dall’attribuzione di supremazia alla società
occidentale: lo sviluppo si universalizza, ma non è transculturale.
Attraverso una curiosa forma di “universalismo particolare”, una società,
nella fattispecie quella occidentale, estende a tutte le altre i propri valori,
storicamente costruiti, nei quali crede, elevandosi simultaneamente ad
esempio di virtù e giudice delle condizioni e dei comportamenti altrui.
Ora, beninteso che in ogni società ci si sforzi di migliorare le proprie
condizioni di esistenza e la legittimità di queste aspirazioni non sia in
discussione, non è pacifico che lo sviluppo occidentalmente inteso sia il
15
solo mezzo per realizzarle, né tanto meno che tutte le società desiderino
la solita cosa. Tale malinteso non sarebbe poi così preoccupante se non
fosse inscritto in rapporti di forza, oggi su vera e propria scala mondiale,
e si finga di credere che tutti vi abbiano aderito, ritenendo oramai
impossibile, o quantomeno assurdo, che qualcuno possa scegliere
altrimenti, prendendo le distanze dalla credenza condivisa.
In terzo luogo, la comunità internazionale non può fare a meno di
ammettere l’abnorme contraddizione fra il paradigma meccanicistico
dell’economia – che profetizza una crescita infinta, inarrestabile,
autoalimentata e, per certi aspetti, autocorrettiva in virtù del progresso
scientifico e tecnologico – e lo squilibrio invece crescente, tangibile, sul
pianeta per cui, ad oggi, il 20% degli individui consuma l’80% delle
risorse disponibili. Seguendo ciecamente il primo, si ignora
(volutamente) il secondo, banalizzando le difficoltà presenti per correre
verso le promesse future. A forza di credere nel «senso della storia»,
sembrerebbe si stesse finendo per cancellarla. Purtroppo, nel momento in
cui si scrive, per quanto all’inizio di questo millennio si cominci a
respirare una diffusa presa di coscienza in relazione a tematiche
ambientali e di maggior equità globale, i meccanismi correttivi messi in
16