4
certamente di dominio: la pena consiste infatti nella privazione della libertà. Dominio sui
detenuti: ma non arbitrio né sopruso. Giustizia. Legalità.
5
L’Istituto penitenziario viene allora considerato parimenti luogo di reclusione e luogo di
esclusione per tutti coloro che agiscono reati, che quindi rompono il patto sociale, assumendo
un potere particolarmente inglobante nei confronti del singolo, minando l’integrità della sua
identità e divenendo in tal modo una sorta di microcosmo dove si muovono e interagiscono
persone sofferenti. Un ambiente in cui i complessi equilibri interni, sia fisici che psichici,
possono risultare facilmente alterati, tanto che è possibile sostenere l’immagine di un carcere-
contenitore del disagio psichico e possibile evocatore della patologia mentale: quella provocata
dallo stato detentivo ma anche, e forse soprattutto, quella che, non trovando alcuna risposta alla
richiesta di un reinserimento una volta scontata la condanna, finisce per divenire una delle cause
del rientro nell’Istituto di pena.
In questo “contenitore di tutti i mali”, e aggiungerei anche di proiezione di tutti i mali, è
pressoché automatico che sia racchiusa quindi, sempre più, una percentuale di popolazione che
si fatica ad inquadrare con categorie nosografiche rigide in quanto le deviazioni
comportamentali presentate sono spesso addebitabili a stimoli devianti delinquenziali e/o
antisociali dei più diversi
6
.
Se prendiamo come realistica l’affermazione di Dostoevsky quando sosteneva che “la qualità
della società si misura dalla qualità delle sue prigioni”, sembra allora indispensabile che
avvenga, da parte di tutti i soggetti cointeressati, una presa d’atto dell’esistenza rilevante sia dal
punto di vista quantitativo sia dal punto di vista qualitativo, del problema dei disturbi mentali
come specificità del carcere a cui bisogna dare risposte complesse.
In tal senso l’esperienza del progetto Sestante, nata nel 2002 presso la Casa Circondariale
“Lorusso e Cotugno” di Torino, ad opera degli operatori del Dipartimento di Salute Mentale
(DSM) G. Maccacaro dell’ASL 3, ben si presta ad esprimere questo tentativo: la possibilità che
anche in carcere possa realizzarsi un clima volto al trattamento dell’individuo, in quanto
portatore di bisogni concreti, nel contemperamento tra il diritto alla cura e le esigenze di
custodia.
Queste le considerazioni che si pongono alla base del presente lavoro, all’interno del quale uno
degli obiettivi è proprio quello di comprendere come si colloca la psichiatria nell’universo degli
istituti di pena. Per tale motivo si tratterà di carcere non come istituzione totale, ma come
organizzazione complessa, che, analogamente a qualsiasi altra organizzazione
7
è “costituita
5
Gozzini M.,“Carcere perché carcere come”, Edizioni Cultura della Pace, S.Domenico di Fiesole (FI), 1988.
6
A. Pellegrino, Il carcere: opportunità psico-terapeutiche tra bisogni di cura e necessità di custodia, Seminario
Apragi-Coirag , Torino 2 ottobre, 2004.
7
Quali un’azienda, una scuola o un ente amministrativo.
5
formalmente e normativamente da membri che decidono le regole della prestazione singola e
collettiva, in vista di scopi prefissati e convenuti, cioè attraverso la distribuzione dei compiti e il
ruolo delle gerarchie e delle funzioni”
8
.
Nel primo capitolo viene descritto il progetto Sestante quale oggetto dell’analisi su cui la ricerca
si sviluppa. Esso si configura come un Reparto di Osservazione e Trattamento Psichiatrico, ad
oggi unico in Italia, che garantisce l'intervento sui detenuti portatori di disturbi mentali,
prevedendo la riproposizione integrale delle modalità di lavoro che il DSM attua per i propri
utenti territoriali, anche ai detenuti ospiti della Casa Circondariale, sita geograficamente
nell’ambito di competenza e quindi essa stessa “territorio”.
Dopo una breve ricostruzione del contesto entro il quale il progetto è nato proseguo esponendo
l’organizzazione delle attività svolte al suo interno ed i principi metodologici utilizzati.
Successivamente vengono presentati i principi ispiratori, i contenuti, le finalità e gli attori
coinvolti in questa esperienza. Rispetto a questi ultimi è interessante evidenziare come l'Autorità
Giudiziaria (AG), il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) ed il
Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP), abbiano individuato nel
progetto una sede di prestazioni sanitarie ad hoc a cui inviare detenuti/pazienti psichiatrici,
provenienti anche da tutta Italia. D’altro canto il progetto è stato finanziato
dall’Amministrazione Penitenziaria (AP) solo nei suoi primi dodici mesi di attività. Negli anni
seguenti il finanziamento è ricaduto interamente su due Fondazioni torinesi
9
. Analizzando
alcuni contributi uditi a convegni indetti sul tema, si è rilevato come una delle difficoltà
riscontrate e, a tutt’oggi non risolte, riguardi proprio il passaggio del progetto da una condizione
sperimentale ad una istituzionale. Partendo da queste osservazioni ho provato ad ipotizzare
dove, lungo questo continuum (A. Cavalli), si collochi il grado del processo di
istituzionalizzazione del Progetto Sestante. Attraverso il riferimento alla teoria sociologica dei
nuovi movimenti emergenti, la nascita di questo Progetto è stata intesa quale forma di
mobilitazione, da parte di un gruppo di interesse, che, all’interno di un’istituzione statale, ha
avuto quale obiettivo sociale e specifico, produrre cambiamento e innovazione.
La definizione dei contesti di riferimento entro cui il Sestante si è sviluppato, illustrati nel
secondo capitolo, ha permesso di inquadrarne limiti e complessità. L’operatività di un fenomeno
dovrebbe, per essere adeguatamente analizzata, comprendere i due fondamentali ambiti entro i
quali essa nasce e si sviluppa: il livello normativo e quello culturale. Essi sono infatti da ritenere
imprescindibili l’uno dall’altro, essendo il secondo, “terreno fertile” da cui poter attingere per
attivare una vera e propria prospettiva del cambiamento.
8
La definizione riportata è tratta da Nuovo dizionario di sociologia, Edizioni Paoline, 1987, p. 1415.
9
La Fondazione Compagnia di S. Paolo e la Fondazione della Cassa di Risparmio di Torino.
6
In questo senso in primo luogo è stato vagliato, sul piano nazionale e regionale, il quadro
normativo in relazione alle numerose leggi emanate in materia di sanità penitenziaria.
Alla luce dell’art. 112 del Regolamento di Esecuzione, nel maggio del 2004, il DAP ha
diramato una circolare ministeriale ed un successivo “progetto pilota”, contenente le indicazioni
per la realizzazione, su tutto il territorio nazionale, dei reparti di osservazione psichiatrica
all’interno degli Istituti penitenziari. Al momento della stesura di questo elaborato non esisteva
un documento complessivo di sintesi sull’attivazione e l’utilizzo di detti reparti. Solo grazie alla
collaborazione concessa dall’Ufficio III – Servizio Sanitario - del DAP, è stato possibile, in
questa sede, esporre i risultati di una rilevazione effettuata, per la prima volta a livello
nazionale, sulle risposte operative che sono state date dai diversi istituti di pena alla
disposizione impartita.
Il capitolo si chiude con una breve panoramica di alcune esperienze straniere realizzate in
materia di assistenza psichiatrica all’interno delle carceri, con un approfondimento
dell’esperienza francese dei Services Médico-Pénitentiaires Régionaux. Questi istituti, che, per
alcune analogie e similitudini, più si avvicinano all’esperienza del progetto Sestante, sono nati
dall’attuazione, in ambito penitenziario, del modello clinico della psichiatria di collegamento.
Nel terzo capitolo viene delineato il quadro teorico di riferimento. La prospettiva della
sociologia dell’ambivalenza e più in specifico i contributi di autori quali G. Simmel, N. Elias e
R.K. Merton, hanno caratterizzato la cornice entro cui sono state formulate le ipotesi della
ricerca. Il concetto dell’ambivalenza, inteso quale configurazione che si può presentare sia a
livello di strutture cognitive che di strutture sociali, è stato per lo più utilizzato secondo l’analisi
effettuata della sociologa A. Calabrò, nel suo saggio
10
.
In tal senso si è considerato il carcere
11
come caratterizzato, nella normalità e non
nell’eccezionalità, da contraddizioni, incoerenza e ambiguità. In ogni sistema penitenziario si
verifica infatti la presenza di una duplice contraddizione di fondo: si ha la pretesa di insegnare
al detenuto il modo di vivere e comportarsi nel mondo libero e nello stesso tempo lo si costringe
in una rappresentazione del reale che di quel mondo è l’antitesi.
Una delle ipotesi vede il carcere, nel suo rapporto con la società esterna, collocarsi in un
intreccio di paradossi e di ambivalenze che contribuiscono, nei luoghi comuni, ad alimentare
una concretizzazione dei pregiudizi sociali intorno alla figura del detenuto/paziente psichiatrico
e della sua pericolosità sociale.
Simmel considera che “la tendenza è quella di sfuggire l’ambivalenza, sentire solo un lato della
contrapposizione, considerare la quiete, la sostanza, la solidità intrinseca dei nostri contenuti
esistenziali come ciò che veramente ha valore, come definitivo rispetto al mutevole, inquieto,
10
A. Calabrò, “L’ambivalenza come risorsa. La prospettiva sociologica”, Edizioni Laterza, Bari, 1997
11
Al pari delle altre organizzazioni sociali.
7
esteriore”. In altre parole ciò significa celare la complessità in una rappresentazione del mondo
dotata di punti fissi e valori definitivi, quasi che ammettere molteplicità e relatività di significati
voglia dire disordine e caos.
Se si considera, e accetta, la presenza di queste ambiguità e di queste incoerenze, l’ambivalenza
diventa allora un metodo, una risorsa, uno strumento indispensabile di conoscenza.
Secondo questa ottica viene affrontata l’analisi dei concetti di malattia psichiatrica ed
esecuzione penale, delle contraddizioni tra il diritto alla salute del soggetto e le esigenze
pubbliche di controllo sociale, con l’evidente conseguenza di una difficile “convivenza” tra le
ragioni della tutela della salute e quelle della sicurezza collettiva.
Questi gli “ingredienti critici”, tutti contraddistinti dalla doppia condizione dell’attore ivi
considerato, di essere, al contempo, detenuto e portatore di patologia psichiatrica. Attraverso
l’esperienza del progetto Sestante il perdurare della carcerazione, diventa, per quanto possibile,
non solo espiazione della pena ed es-clusione dalla società che è stata “danneggiata” dai reati
commessi. In questi spazi viene sentita ed attuata la necessità del “prendersi cura di”.
Ma cosa succede quando la condizione detentiva cessa? Quando lo stesso paziente psichiatrico,
prima preso in cura dal sistema carcere diventa ex detenuto?
Punto di partenza delle ipotesi è stato il considerare questa tipologia di soggetti alla stregua
della figura sociologia dello straniero. Un ex-detenuto portatore di patologia psichiatrica es-
cluso dalla società, può diventare cittadino in-cluso della stessa società che lo ha emarginato?
Attraverso un’indagine mossa sul doppio binario delle percezioni e degli interventi attivati,
effettuata sui principali attori
12
chiamati ad agire questa in-clusione, si è cercato di comprendere
cosa succede in seguito alla scarcerazione di un soggetto portatore di patologia psichiatrica,
come e se viene attuata da parte dei servizi specialistici del territorio la continuità di un percorso
di cura precedentemente avviato in carcere, ed in presenza di quali condizioni esso si verifica.
Ma soprattutto se i progetti di sostegno attivati per questi soggetti, possano essere considerati
veri strumenti ai fini di un reinserimento nella società e non invece caratterizzare un nuovo
rischio di esclusione.
Il quarto capitolo inizia con la definizione delle fasi dell’indagine e degli strumenti di analisi
utilizzati. L’analisi dei dati secondari, rappresentati dalle informazioni raccolte in relazione
all’intera operatività del progetto, ha consentito di circoscrivere la vera e propria area
dell’indagine che si riferisce al numero di persone, residenti nella città di Torino e prima
cintura, ospitate e successivamente dimesse dal Progetto Sestante negli anni 2004-2005 e per
cui, gli operatori interni hanno effettuato una segnalazione di presa in carico ai servizi
specialistici presenti sul territorio. Per la raccolta dei dati è stato utilizzato lo strumento del
questionario, disposto ad hoc, e somministrato agli operatori dei servizi che hanno accolto la
segnalazione.
12
I Servizi specialistici territoriali: Centro di Salute Mentale e Servizio Tossicodipendenze.
8
I contenuti delle informazioni così acquisite sono stati inseriti in grafici di riferimento al fine di
poter effettuare le adeguate comparazioni presentate nell’esposizione dei risultati della ricerca.
Termino con alcune conclusioni. Uno degli obiettivi posti nello svolgimento di questo studio, di
carattere prevalentemente esplorativo, è stato il restare il più possibile aderente ad un piano
pragmatico, al fine di rendere disponibile un prodotto che potesse essere soggetto ad una più
fertile fruizione sul livello di eventuali risvolti operativi.
Attraverso l’analisi di casi concreti si è cercato di comprendere, ad esempio, quali modalità
utilizzano gli attori per svolgere la necessaria, ma ad oggi carente e sfaccettata, funzione
mediatrice tra la realtà carceraria e la società esterna e di mostrare l’interrelazione tra bisogni
percepiti e risorse attivate dai servizi o la percezione, da parte degli stessi, dei fabbisogni
soddisfatti e del livello di qualità relativo agli interventi offerti.
Questa ricerca intende descrivere questa difficile realtà, evidenziando i molteplici aspetti, spesso
contraddittori, che caratterizzano il ritorno dello “straniero”, nella stessa società che lo ha
escluso.
Un ultimo accenno è per la bibliografia, la cui costruzione si è rivelato compito impegnativo,
soprattutto a causa della scarsità di produzione letteraria e giuridica circa l’argomento trattato.
Un’attenzione particolare è stata rivolta alla normativa: essendo questa ultima costituita in
prevalenza da documenti ministeriali, la loro acquisizione è stata per lo più facilitata grazie alla
collaborazione dell’Ufficio Studi del DAP.
9
Capitolo I. Il Progetto Sestante nella Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino
I. 1. I “Nuovi giunti”: la psichiatria entra in carcere
“(...) Frequente necessità di stare in compagnia di persone che non si sono scelte, talvolta non
desiderate e non gradite, di dividere con loro ogni minuto di ogni giornata. Rapporti sociali
imposti o subiti. Odori, rumori, sapori, sporcizia, di altri. Promiscuità che degrada. Non stare
soli, ma essere soli, ma sentirsi soli. Solitudine e freddo dentro, nell'anima, non fuori. (...)
Espropriazione di ogni riservatezza e di ogni intimità. Nessun momento, neanche il più
personale, privato, intimo, gode di un minimo di rispetto. Perché non si è mai soli e, in ogni
istante, si vede e si è visti, si sente e si è sentiti. (…) Perché tutto è di tutti e nessuno ha nulla”.
13
Non dovrebbe essere difficile, a questo punto, capire perché è necessaria la presenza dello
psichiatra all'interno delle Istituzioni penitenziarie.
Nel 1987 il Direttore generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Niccolò
Amato, emanò una circolare, per taluni considerata opinabile, criticabile, discutibile, che fissava
il mandato degli esperti al presidio “Nuovi Giunti”. Questo si costituiva come un servizio di
consulenza effettuato da psichiatri e psicologi "allo scopo di prevenire e di impedire i ricorrenti
e gravissimi atti di autolesionismo, in specie di suicidi, posti in essere dai detenuti e dagli
internati, nonché gli atti di violenza di vario tipo da essi subiti ad opera di altri compagni di
detenzione e di internamento”.
14
Sicuramente, nella predisposizione di questo istituto, ha concorso la necessità di far fronte a
problemi scaturiti da nuovi fenomeni che cominciarono ad affacciarsi nello scenario sociale di
allora. Penso, in particolar modo a quelli connessi alla tossicodipendenza, al fenomeno
dell'Aids, alla presenza degli stranieri. Così come ho già precedentemente sostenuto, anche per
gli anni '80 il carcere si configurava quale "contenitore" che rappresentava il principale tipo di
risposta ad un disagio sociale sempre più dilagante. Nello stesso tempo, in relazione al divenire
dei fenomeni sociali, esso si costituiva, e si costituisce a tutt’oggi, quale fattore di rischio
specifico, dove l’espressione del disagio di una larga parte dei detenuti può avvenire a diversi
livelli di gravità. Il carcere è infatti, per sua natura e suo mandato, finalizzato all'espiazione
della pena e dunque luogo di produzione dell'infelicità. Se di per sé non può essere considerato
luogo di creazione di fenomeni psicopatologici specifici, esso però tende a enfatizzare, per la
sua organizzazione, i problemi già esistenti o a favorire la crescita di fenomeni di alterazione del
comportamento, rendendone più impegnativa la gestione. L’istituzione del servizio Nuovi
Giunti ha, in questo senso, segnato una svolta nella storia dell'operatività penitenziaria; la sua
13
N. Amato, "Decadimento fisico e psichico", Principi fondamentali di medicina penitenziaria, n. 16, 1991.
14
Della nascita di questo servizio e delle circolari ministeriali ad esso correlate, se ne tratterà specificatamente nel
secondo capitolo.
10
costituzione può essere letta in duplice chiave: da un lato è espressione dell’aumentata
sensibilità nei confronti di un fenomeno, che, selezionato come problema reale, ha reso
necessaria la predisposizione di un intervento ad hoc finalizzato ad agire in primo luogo
prevenzione, dall’altro è considerabile quale tangibile tentativo di limitare i “danni del carcere”,
attraverso la realizzazione di azioni concrete.
Il lavoro di salute mentale svolto all’interno di un carcere deve però anche tenere conto del
rapporto di contraddizione che gli è intrinseco: il dover stabilire, di volta in volta, tra tutela
della salute mentale e livelli di concreta qualità della vita; tra presa in carico del malessere e
delle sue espressioni e lettura disciplinare delle stesse; tra lavoro di promozione della salute
mentale e trattamento in senso criminologico; tra necessità di procedere caso per caso, propria
della psichiatria, e necessità di regole universali e generalizzabili sulla quale l'istituzione
carceraria si regge.
Queste constatazioni contribuiscono a rendere il lavoro psichiatrico nelle istituzioni di pena una
situazione di permanenti contraddizioni e tensioni dove spesso gli operatori psichiatrici provano
la sensazione di trovarsi a remare controcorrente, in situazioni in cui l'unica richiesta fatta loro
dall’Istituzione è quella di segnalare oltre quale misura il dolore possa farsi insopportabile
mettendo a serio rischio la salute e la vita, e ciò, solo per consentire che il meccanismo si fermi
un attimo prima
15
.
Ma poiché la psichiatria non rappresenta un'area problematica a sé stante, bensì s'inscrive nella
complessità dell'intervento sanitario, diviene allora fondamentale pianificare delle
attività che siano in grado di gestire questa complessità e ciò non può essere
realizzato se non attraverso un’organizzazione di rete. In altri termini, l’onore
e l’onere di “curare” i disagi\disturbi psichici in carcere non deve essere
appannaggio esclusivo degli psichiatri, purché ci si accordi sul significato da
dare al termine curare.
Appare chiaro dunque, come la gestione delle problematiche di salute mentale dentro il carcere
rappresenti un'operazione che necessita di attenta riflessione e di impegno progettuale, oltre che
di intrecci indissolubili con gli standard complessivi di qualità della vita e dell'assistenza
sanitaria erogata alla persona detenuta. Ciò dovrebbe diventare un elemento costante e
trasversale nella conduzione della quotidianità penitenziaria e implica pertanto la necessità di
una incessante riflessione tesa alla comprensione dei suoi fenomeni e dei loro continui
cambiamenti normativi, strutturali ed umani.
15
P. F. Peloso, M. Cechini, L. Ferrannini, P. Strata, Salute mentale in carcere e ruolo del DSM: esperienze e progetti
nell'area genovese, Relazione al Simposio "Carcere e Psichiatria" del XLII Congresso Nazionale della Società
Italiana di Psichiatria "Dal pregiudizio alla cittadinanza", Torino, 16-21 ottobre 2000.
11
Nello specifico dell’Istituto torinese, il porre attenzione ai segnali di disagio psichico e
comportamentale espressi da una quota rilevante di detenuti, da anni è divenuto patrimonio
comune del personale opera all’interno
16
. Questo patrimonio è stato costruito con quello che il
Direttore della Casa Circondariale di Torino ha definito “un cammino tutto in salita”.
Un lungo lavoro di riflessione, affiancato da un’attenta attività di analisi dell’esistente, dove
nulla è stato considerato banale o scontato, bensì tutto è stato soggetto a critica e verifica: dalle
idee all’organizzazione, dai tempi ai metodi, dai principi ai valori. In questo paragrafo verranno
ripercorse le tappe fondamentali di questo cammino (Buffa, 2001), dando conto dei risultati
ottenuti, degli ostacoli e dei problemi ancora insoluti oltre che delle prospettive future. Il
risultato di queste riflessioni ha portato ad una serie di considerazioni critiche e dalle quali è
nata l’idea di riorganizzare alcuni servizi penitenziari con l’obiettivo di sostituire al mero
contenimento dei fenomeni di disagio personale espresso dai detenuti, un’attenzione meno
formale e più puntuale. In tal senso si è proceduto, in maniera graduale, alla disposizione
razionale dei problemi che si volevano affrontare, alla riflessione sulle idee che avrebbero
potuto concretizzarsi, alla verifica, all’interno dell’organizzazione, della sussistenza o meno
delle condizioni quantitative e qualitative necessarie ad accettare, ma contestualmente
contrastare, gli stereotipi, le ansie e i timori che ogni cambiamento, di fatto, alimenta.
L’analisi effettuata ha innanzitutto rilevato la presenza di un’organizzazione del lavoro
estremamente frammentata ed instabile che, producendo una serie di effetti circolari negativi,
non consentiva di dare continuità all’azione. L’agire in modo pressoché isolato delle figure
professionali operanti nell’Istituto e la conseguente scarsa integrazione tra di essi creava una
fondamentale incomunicabilità che, tradottasi in un elevato grado d’instabilità limitava, se non
addirittura impediva del tutto, la capacità di attivare connessioni di rete efficaci
nell’intercettazione e la gestione del disagio manifesto.
L’assenza di una rete chiara e certa degli interventi era a sua volta alla base del forte senso di
frustrazione sentito dagli operatori, i quali esplicitavano una realtà di lavoro fortemente
imperfetta, non dotata di valenza strategica, che non interpretava né interveniva concretamente
sulla gestione dei rischi connessi ai vari disagi psichici e comportamentali che caratterizzano
l’ambito penitenziario.
E’ stato inoltre rilevato come la sensazione di solitudine, la scarsa gratificazione e l’assenza di
progetti organici e finalizzati determinassero fenomeni di corto circuito che limitavano la
propensione alla sperimentazione la quale, se da un lato veniva vista come improponibile
17
d’altro canto era considerata quale principale strumento per uscire da situazioni di stasi.
16
P. Buffa, A. Pellegrino, E. Pirfo “Attenzione al disturbo psichico e territorializzazione della cura: nuovi metodi
dell'intervento psichiatrico in carcere” Noos - Psichiatria e carcere - Vol. 12 n°1, gennaio -aprile 2006.
17
Tenuto conto dei carichi di lavoro eccessivi.
12
Un altro problema emerso era il mero conto delle risorse umane e professionali disponibili: se
ad esempio venivano considerate le sole categorie degli educatori, o degli esperti in psicologia o
criminologia ex art. 80 O.P., capaci di occuparsi del disagio, allora il conteggio delle risorse si
attestava su numeri risibili ed insufficienti, confermando l’impossibilità di agire efficacemente.
E’ così diventata evidente la necessità di attivare un processo di cambiamento teso ad ottenere,
per citare Gonin (1994) “l’accentuazione della presenza di ognuno (al fine di soddisfare)
l’esigenza di uno sforzo di informazione e un maggiore ascolto del detenuto”.
Il sistema carcere si è allora mosso ricollocando ruoli e compiti degli operatori.
Dando concreto avvio ad un percorso di integrazione tra tutti gli operatori operanti nel contesto,
si è cercato di superare quelle barriere culturali per le quali l’attenzione ad una persona detenuta
è compito solo di una o alcune categorie professionali. In tal modo anche i medici, i poliziotti
penitenziari, gli assistenti volontari e gli stessi funzionari direttivi, seppur mantenendo compiti e
specificità professionali, sono stati indirizzati verso un unico obiettivo: la costruzione di un
progetto globale su quella persona. Tutte le figure citate infatti, hanno pieno titolo per occuparsi,
a diversi livelli, dell’osservazione e dell’intervento sul disagio dei ristretti. In particolare è stato
rilevato e valorizzato il lavoro svolto dagli agenti di polizia penitenziaria, che, in servizio nei
blocchi detentivi, svolgono un ruolo peculiare di osservazione delle dinamiche individuali e di
gruppo nel contesto quotidiano.
In altri termini, modificando l’interpretazione delle professionalità, il rapporto tra problemi e
risorse si è trasformato, assumendo dimensioni accettabili.
Il primo passo verso la riorganizzazione delle risorse a disposizione è stato quindi la
suddivisione, per ogni padiglione detentivo, di tutti gli operatori afferenti alle varie figure
professionali.
Questo ha significato il confronto serrato con soggetti abituati ad operare indistintamente e
trasversalmente in tutto l’Istituto, il quale, per la sua vastità ed un correlato grado di
dispersività, non consentiva né la conoscenza né tanto meno l’aggregazione degli operatori,
molti dei quali impegnati in turnazioni nell’arco delle ventiquattro ore o comunque con orari
molto flessibili.
Le argomentazioni forti proposte a sostegno di questa fase propedeutica furono, in sostanza, la
possibilità di ottenere, settorializzando, gruppi di lavoro più stabili e ristretti, una maggiore
conoscenza reciproca e da questa, una migliore comunicazione interpersonale ed
interprofessionale.
Poliziotti, educatori, esperti ex art. 80 O.P., assistenti volontari, vicedirettori sono stati tutti
suddivisi e assegnati ai vari padiglioni con l’evidente obiettivo di creare gruppi di lavoro in
modo tale da facilitare la reciproca conoscenza ma anche il rispetto del ruolo di ciascun singolo
contributo, ognuno con proprie specificità, finalità ed utilità rispetto all’utenza. Individuati i poli
13
della rete si è agito poi sulla comunicazione che da impersonale è diventata personale e
specifica: chiarendo da chi parte e perché, come a chi e diretta.
L’ individuazione di punti di riferimento e di flussi di comunicazione in andata e in ritorno ha
avuto quale corollario lo svilupparsi di interventi meno individuali e sempre più integrati.
Contestualmente si è però registrata la crescita di fenomeni ansiogeni, segno evidente che il
sistema precedente, seppur sostanzialmente imperfetto, era, grazie alla sua vacuità ed
autoreferenzialità, “protettivo” e “contenitivo” delle ansie.
Il passo successivo è stato la nascita dei cd. “gruppi di attenzione”.
Questi si caratterizzano come aggregazioni temporanee di diverse figure professionali
18
con il
fine di attivare, a seguito di segnalazioni filtrate dai funzionari direttivi, nel più breve tempo
possibile, l’ascolto delle motivazioni e dei bisogni sottesi a momenti di disagio
comportamentale e/o psichico.
Questo strumento è stato pensato come un sistema di intercettazione del disagio, un
monitoraggio teso all’intervento integrato e progettuale nei confronti di quei soggetti che hanno
messo in atto gesti autolesivi o che sono ancora silenti ma che lasciano prevedere una
evoluzione ingravescente.
Per comprenderne meglio il funzionamento è necessaria una breve sintesi della loro
organizzazione. La prima intercettazione del sintomo attivo, in occasione di un evento critico
quali gesti autolesivi, tentativi di suicidio, o quadri di alterazione psicomotoria, avviene ad
opera del personale di custodia in servizio nelle aree detentive; essi sottopongono la situazione
al sanitario di guardia il quale, a sua volta, attiva la procedura di segnalazione dell’evento.
Il filtro iniziale rispetto alle segnalazioni e la loro discriminazione in ragione dei motivi dei
comportamenti critici viene effettuata dai vicedirettori in sede di decisione dei registri
mattinali. L’Ufficio Comando, gestito da operatori di polizia penitenziaria, ha il compito di
smistare celermente queste segnalazioni formali agli educatori, secondo la loro competenza per
blocco detentivo. A questi ultimi la funzione di valutare le relazioni di cui sopra, optando per
ascoltare direttamente il soggetto o assegnarlo, in riferimento alla gravità del fatto e alle
caratteristiche personali e penitenziarie, ad un assistente volontario o ad un esperto ex art. 80
O.P., operanti nello stesso blocco. L’assegnazione avviene in base alla presenza dell’operatore
al momento in servizio, il quale dovrà successivamente riportare il risultato conoscitivo
dell’approfondimento.
Gli educatori di riferimento, valutando congiuntamente le risultanze di questi primi colloqui e i
dati in loro possesso, propongono alla Direzione - nelle persone dei funzionari incaricati per
ogni blocco e/o al Direttore - eventuali interventi di sostegno trattamentale che sono discussi in
équipe.
18
Educatori esperti psicologi o criminologi, volontari, medici.
14
Antecedentemente alla costituzione dei gruppi di attenzione è stato riscontrato che l’incontro tra
un operatore ed il detenuto avveniva per lo più in maniera estremamente disarticolata
determinando anche un notevole numero di mancati contatti. Attraverso questa organizzazione è
stato rilevato invece l’aumento delle capacità di interlocuzione con i soggetti che hanno
espresso un disagio reattivo.
Certo è che, ai fini di una valutazione in termini di efficacia ed efficienza, ogni strumento deve
essere soggetto a critiche ed eventuali modifiche. Una fase sulla quale è stata riscontrata la
necessità di un miglioramento dei gruppi di attenzione è quanto avviene dopo il contatto e il
feed back tra l’educatore che coordina l’intervento e l’operatore eventualmente incaricato. In
altre parole tale fase, che in termini progettuali è quella dedicata alla valutazione del caso e alla
proposizione dell’intervento vero e proprio, non è ancora adeguatamente strutturata e lasciata,
viceversa, all’iniziativa degli operatori coinvolti, in particolare agli psicologi, professionalità
caratterizzata dalla forte propensione ad una presa in carico del soggetto di tipo individuale e
non di gruppo.
I gruppi di attenzione sono stati costituiti con la principale finalità di
intercettare il disagio a diversi livelli: sia che essi si riferiscano alla superficie del fenomeno sia
al profondo del disturbo mentale vero e proprio. Essi operano in stret ta connessione con il
“Presidio Nuovi Giunti”, istituito al fine di un’individuazione, da parte del sanitario e/o
dell’esperto psicologo, del sintomo attivo o biografico, già al momento dell’ingresso in Istituto.
Per integrare questo primo filtro operato dai gruppi di attenzione e dal presidio nuovi giunti e
proseguire nella “offerta” di un trattamento sanitario specifico al detenuto portatore di disturbi
psichici, nell’ottobre del 2000, il Direttore Sanitario della Casa Circondariale ed il Direttore del
Dipartimento di Salute Mentale Giulio Maccacaro dell’ASL 3 di Torino, stilarono
congiuntamente un progetto intitolato “Riorganizzazione e potenziamento del servizio
psichiatrico intramurario della Casa Circondariale Le Vallette di Torino “
19
.
Il documento, ottenuto il parere favorevole del Direttore dell’Istituto e la successiva
approvazione da parte del capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, si tramutò
in una convenzione ad hoc, firmata nel marzo 2001, per la riqualificazione del servizio di
assistenza psichiatrica nei confronti della popolazione detenuta, attraverso la creazione di un
Servizio di Psichiatria Penitenziaria
20
. In altre parole il “terreno fertile” sul quale
successivamente sarebbe nato il progetto Sestante.
Nell’Istituto penitenziario di Torino è dunque avvenuta, da parte di tutti i soggetti cointeressati,
una presa d’atto dell’esistenza rilevante, sia dal punto di vista quantitativo, sia dal punto di vista
qualitativo, del problema del disagio psichico non quale fenomeno occasionale che capita a
19
A firma di R. F. Urani, E. Pirfo “Riorganizzazione e Potenziamento del Servizio Psichiatrico Intramurario della
Casa Circondariale Le Vallette di Torino”, Torino, 21 ottobre 2000.
20
Deliberazione n. 292/01°/2001 del 2.03.2001.
15
pochi detenuti e per il quale può essere sufficiente il trasferimento in un altro carcere, bensì
come specificità complessa a cui è opportuno dare risposte complesse
21
. Indi, più che sulle
“carte”, è attraverso questo cammino che si è concretamente cercato di gestire la criticità e il
disagio dell’individuo ristretto. E non solo perché i fenomeni si modificano con il tempo e
quindi implicano una riflessione continua, ma anche perché i servizi posti in essere, le
metodologie applicate, la loro integrazione e i loro livelli di comunicazione necessitano di
ulteriori verifiche sulla base di un sistema informativo omogeneo e ben organizzato.
I. 2 L’organizzazione del progetto Sestante
La nascita del Sestante ha previsto la trasformazione di due distinte aree di detenzione del
carcere rispettivamente nei Reparti di Osservazione e di Trattamento. Esso è dunque un luogo di
osservazione permanente correlata ad una struttura di trattamento di tipo comunitario all’interno
delle mura, in un regime di sorveglianza attenuata, in cui il gruppo di lavoro è costituito da
personale di sorveglianza e da operatori di varie professionalità provenienti dal DSM
22
. Vi è da
dire che, a partire dalla sua nascita, durante gli anni di attività del progetto, lo stesso ha subito
naturali e conseguenti modifiche strutturali, adeguate in relazione sia al contesto sia a
valutazioni in merito alla sua efficacia.
L’elemento fondante dell’organizzazione si basa principalmente su una differenziazione delle
attività prevista all’interno delle due sezioni le quali hanno mantenuto, nel tempo, le seguenti
modalità clinico-organizzative: nel Reparto Osservazione, che consta di 23 posti, si procede
principalmente ad un inquadramento clinico-psichiatrico di tutte le situazioni di disagio psichico
evidenziatosi durante la detenzione, sia che esso si manifesti in soggetti già precedentemente
affetti da patologie psichiatriche sia che si tratti di detenuti privi di anamnesi psichiatrica
positiva; vi si svolge quindi il trattamento di situazioni cliniche acute e l’osservazione di nuove
situazioni. L’organizzazione del lavoro prevede un intervento prevalentemente individuale con
visite mediche, controlli psichiatrici frequenti, somministrazione di terapia psicofarmacologica,
colloqui psicologici regolari ed interventi psicoeducativi mirai ai bisogni emergenti.
Il Reparto Trattamento è invece organizzato con un più alto indice di socializzazione, consta di
30 posti in cui vengono collocati quei detenuti che, pur dovendo scontare una pena detentiva,
sono portatori di sindromi psichiatriche e pertanto necessitano di situazioni custodiali più
attenuate e a caratteristica trattamentale più incisiva. Esso presenta una connotazione
comunitaria di tipo riabilitativo e risocializzante, maggiormente improntata ad un intervento di
21
P. Buffa, A. Pellegrino, E. Pirfo “Attenzione al disturbo psichico e territorializzazione della cura: nuovi metodi
dell'intervento psichiatrico in carcere”, doc. cit.
22
Ibidem
16
tipo gruppale che prevede un regime custodiale attenuato con apertura alla socialità durante
tutto il giorno, attività risocializzanti in gruppo, attività psicoterapiche in gruppo ristretto,
possibilità di attività lavorative interne alla sezione oltre naturalmente ai controlli medici e
psichiatrici e alle terapie farmacologiche necessarie. Qui si attuano tutte quelle attività tese
prevalentemente al recupero delle abilità perse a causa del disturbo psichico e allo sviluppo di
capacità di adattamento alla detenzione più funzionali.
Nel complesso nell’Area custodiale di osservazione prevalgono attività diagnostiche individuali
al fine di filtrare le necessità di cura del paziente e di selezionare i casi che potrebbero
beneficiare del trattamento presso l’area adibita, mentre nell’Area custodiale di trattamento si
realizza principalmente uno specifico percorso di cura della patologia, attraverso l’attivazione di
interventi individuali psicologici e psichiatrici alternati ad attività di gruppo socioterapeutiche.
Di fatto si opera un intervento di tipo diagnostico e terapeutico nella prima sezione e uno di
trattamento e riabilitazione nella seconda. Il passaggio dall’una all’altra Sezione è previsto ed
auspicato nei tempi più brevi possibili compatibilmente con l’espressione sintomatologica del
disturbo presente al momento. La decisione del passaggio viene proposta e valutata in équipe e
viene successivamente disposta dallo psichiatra che ha in carico il detenuto in questione.
In tutto il Progetto, e quindi in entrambe le aree di lavoro operano psichiatri, medici di medicina
generale, psicologi clinici, educatori ed infermieri professionali appartenenti al DSM G.
Maccacaro dell’ASL 3 di Torino, Azienda Sanitaria competente territorialmente per l’istituto
carcerario.
Nello specifico l’équipe di lavoro si compone di:
¾ Il Direttore del DSM G. Maccacaro, Medico Psichiatra, in qualità di Direttore del
Progetto con la funzione di indirizzo dell’attività, supervisione clinica, conduzione della
riunione d’équipe e compilazione delle Relazioni di Osservazione;
¾ un Medico Psichiatra in qualità di Vice Responsabile del Progetto con funzioni di
coordinamento dell’attività, su delega del Direttore, e sostituzione dello stesso per i compiti
specifici della Direzione;
¾ Medici Psichiatri e specialisti per attività clinica individuale;
¾ Un Medico di medicina Generale per attività medica individuale;
¾ Psicologi, laureati in psicologia e Iscritti all’Albo degli psicologi per attività clinica
individuale e/o di gruppo;
¾ Educatori, Educatori professionali o titoli equipollenti per attività psicoterapica
individuale e/o di gruppo;
¾ Assistente sociale (prevista in organico, ma non attivata in équipe) per contatti con DSM
esterni e rapporti con Ufficio Esecuzione Penale Esterna ed Educatori dipendenti DAP;
¾ Infermieri professionali per attività infermieristiche e di nursing individuale e/o di gruppo;