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signora? O infine forse che per puro caso si ha introdotto un modello di scarpa da
ginnastica (o “sneakers” all’americana) all’interno di una pellicola di fantascienza
ambientata nel futuro, ma che guarda caso è apparso sul mercato proprio in
concomitanza con l’uscita del film nelle sale cinematografiche?
Per lo spettatore medio al momento della visione porsi almeno una di queste
domande è naturale, porsene due è tanto, porsele tutte è impossibile.
Non potendo interpretare completamente quanto appena visto però il pubblico,
nell’immediatezza del momento, sa che Will Smith, uno degli attori più cool del
momento, ha espressamente elogiato quello specifico modello di sneakers (che poi si
tratti di finzione questo poco importa, poiché il riferimento è comunque ad un oggetto
vero). Inoltre sa bene che quel modello di scarpe lo può trovare al più vicino
rivenditore di scarpe da ginnastica o negozio di articoli sportivi, o potrebbe anche
ordinarlo su internet o tramite e-bay. Magari qualche utente sveglio ha già provveduto
a descrivere l’oggetto in vendita come “Le scarpe di Will Smith nel film ‘Io, Robot’”.
Nel sito ufficiale della pellicola poi, cliccando sulla barra degli sponsor, sarà possibile
scoprire tutti i marchi rientrati all’interno della pellicola e scovare l’esatto nome del
modello di scarpe utilizzato dal protagonista del film. Sfogliando una rivista di cinema
poi ci potrebbe essere un articolo, solitamente nella sezione curiosità delle star, dove
si può trovare marca, nome del modello e addirittura misura dell’oggetto cult in
questione. Infine sarà possibile che gli stessi amici, già possessori di tale prodotto, ne
parlino positivamente ad altri amici, dato che già a loro ne è stato detto bene dai
commessi di un Foot Locker periferico che hanno visto il film. E il gioco è fatto.
La catena di relazioni formatasi è ampia (anche se non al completo) e abbastanza forte
da poter far scaturire le vendite di massa di uno specifico prodotto, rendendolo
magari l’oggetto cult di tendenza, un must temporaneo per un mercato maturo.
Ma forse stiamo andando troppo oltre e dobbiamo tornare a monte, ossia alla scintilla
generatrice del tutto, la frase di Will Smith.
Pensate al potere di poche parole legate ad alcune immagini, cercate di immaginare
quante persone potrebbero avere un tornaconto da tutto questo.
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Innanzitutto la Converse, azienda produttrice di scala mondiale di articoli sportivi
fondata ben cento anni or sono a Malden in Massachussets (nel 1908 da
Marquis.M.Converse), la quale vanterebbe un testimonial di eccezione, una visibilità
chiara e potente ed un ipotetico parco spettatori di grande entità. Dall’altro lato la
20th Century Fox, una delle major californiane con il più grande numero di Sudios a
Hollywood, potrebbe “vendere” dei secondi preziosi del proprio film agli investitori
pubblicitari (chiamati nel campo “inserzionisti”) per poter portare avanti le ingenti
spese di produzione con l’ausilio di capitali aggiuntivi da parte di figure esterne
all’ambiente cinematografico; sapendo che i costi di lavorazione sono aumentati
notevolmente negli ultimi dieci anni.
Nel mezzo di tutto questo però occorrerebbero delle strategie vincenti di
comunicazione per poter permettere dapprima il dialogo tra le parti, il contratto,
l’intervento diretto sullo script, l’espletazione in termini concreti sul girato e la
conseguente campagna marketing annessa alla pellicola.
Sostanzialmente servirebbero degli esperti di comunicazione aziendale, di economia
del cinema e di branded marketing. Le imprese che si occupano di questo ponte
comunicazionale vengono definite di “Product Placement”. Ci siamo, abbiamo
pronunciato le due parole fondamentali, quelle che unite e declamate assieme si
caricano di un significato colmo di storia, del cinema e dell’economia, della pubblicità
e dei massmedia.
Letteralmente “piazzamento di prodotto”, il Product Placement è quel messaggio
pubblicitario che compare in determinati spazi e momenti (per lo più legati
all’entertainment) la cui natura pubblicitaria non viene però esplicitata. In questo
consiste proprio la forza e l’originalità del messaggio, veicolato in modo
anticonvenzionale senza la precisa indicazione di intento commerciale. Persino un
profano capirebbe le potenzialità insite in tale messaggio, più invasivo di quello
standard poiché forte di una maggiore attenzione da parte di chi lo percepisce, sia
direttamente che indirettamente.
Ora cercherò di focalizzarmi in breve su questo punto. Immaginiamo di essere sul
divano di casa e di guardare tranquillamente “Io, Robot” sul televisore del salotto.
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Dopo un paio di dozzine di minuti lo schermo si fa nero, indicando il classico momento
del break pubblicitario, ecco quanto accade: il filo continuo della narrazione viene
interrotto (provocando anche un certo fastidio nello spettatore), l’attenzione cala, le
possibilità che lo spettatore si alzi e presti meno attenzione o ancora peggio che faccia
“zapping” sono elevate. Se in quel momento la normale programmazione pubblicitaria
televisiva trasmettesse in broadcasting una pubblicità sul prodotto ‘Converse All Star
2004’ magari solo una piccola percentuale di tutti i telespettatori la guarderebbe, il
che farebbe perdere di appetibilità agli inserzionisti quello spazio. Come vedremo in
seguito gli spazi televisivi, all’interno di film, magari in prime time, hanno costi elevati.
Dopo il break lo spettatore riprenderebbe la visione della pellicola, ignaro dei
messaggi propinati in quel frangente, o comunque non affatto disturbato da ciò in
quanto meno attento in quel momento. Risultato: i messaggi andrebbero persi, mal
recepiti, ignorati o sorvolati. Gli inserzionisti non sarebbero soddisfatti, taglierebbero
di conseguenza gli investimenti a svantaggio dei network, che per mancanza di liquidi
sarebbero costretti ad introdurre una programmazione di dubbio gusto. Ma questo è
un altro problema.
Allora perché non sfruttare le caratteristiche di comunicazione insite in un film?
Perché non far volgere a proprio favore la totale attenzione degli spettatori? Perché
non inserire un messaggio pubblicitario cucito a puntino sulla pellicola in modo da non
distogliere lo spettatore dalla visione ma al contempo di farne recepire il significato
volente o nolente? E se a pronunciare il messaggio fosse un attore statunitense noto
in quasi tutto il globo e dall’appeal di un cover-man da modello perché non
approfittarne? Infine, perché non sfruttare la caratteristica per eccellenza di un’opera
cinematografica, ossia la sua indivisibilità, per poter veicolare il suddetto messaggio
pubblicitario in qualsiasi mezzo sul quale quell’opera verrà proiettata, trasmessa o
inviata, senza bisogno di break alcuno?
Il product placement è nato ormai molti anni fa, ma di questo avremo occasione di
discernerne in seguito, ma ha acquisito notevole interesse da parte di inserzionisti e
produzioni, investitori e reti, pubblicitari e media solo quando ci si è resi
affettivamente conto che occorreva concordare su una semplice cosa: il pubblico di
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un’opera filmica può coincidere con il target di un messaggio pubblicitario, il tutto
secondo il più basilare dei concetti di comunicazione pubblicitaria, ossia di portare il
maggior numero di “teste” a visionare il messaggio, almeno per una volta.
Il numero di teste che ad esempio in campo televisivo coincide con l’audience, metro
di misura dell’efficacia di un messaggio pubblicitario, sul quale si basa anche la
normale contrattazione sulle tariffe, ma anche di questo avremo modo di parlarne più
avanti.
Possiamo quindi affermare ora con un certo grado di sicurezza che il Product
Placement Cinematografico (ho specificato l’aggettivo “cinematografico” perché come
vedremo ce ne sono di molte altre tipologie) gioverebbe sia agli inserzionisti che a
coloro che mettono a disposizione la vetrina di lancio, ossia le case di produzione.
Naturalmente le agenzie di product placement, che mettono in comunicazione le
realtà del Cinema e del Marchio, così profondamente diverse, vivono di percentuali
sugli accordi e talvolta anche sui contratti legati all’andamento del mercato
cinematografico, che come avremo modo di vedere, si basa su pochissime stime
iniziali fattibili e su di un elevato grado di aleatorietà.
Avendo ora stabilito che è meglio che sia Will Smith a parlare delle Converse All Star
2004 durante il film stesso piuttosto che qualche anonima voce fuori campo durante
un bistrattato break pubblicitario, facendo così permanere nello spettatore l’illusione
di continuità della narrazione filmica, dobbiamo trovare risposta ad una semplice
domanda: chi si occupa però del grado di intromissione del messaggio pubblicitario
all’interno della pellicola? Perché diciamolo, c’è buon product placement e cattivo
product placement. Quanto più la presenza dei marchi all’interno di una pellicola è
troppo invasiva allora tanto più lo spettatore si rende conto del messaggio ma, al
contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, la reazione è più di repulsione e fastidio
verso l’oggetto pubblicizzato, e il product placement in questo caso mostrerebbe di
essere una lama a doppio taglio.
Inoltre c’è da considerare che, ammessa l’introduzione di oggetti “branded” all’interno
di un’opera cinematografica, sia questa effettuata con vari gradi di integrazione e
prominenza, occorre una regolamentazione legislativa per una corretta azione delle
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parti all’interno del mercato (come vedremo ben differente da paese a paese e da
mezzo a mezzo).
Da non sottovalutare la tutela del consumatore, anche questa di grande importanza
per poter veicolare i messaggi pubblicitari nella piena legalità e senza rischio di
incorrere in quella che un tempo (ma ancora oggi) veniva impropriamente definita
“pubblicità occulta”, ma anche di questa ne parleremo più avanti.
Il punto appena citato diventa non solo focale per comprendere come attuare una
corretta gestione del mezzo per la trasmissione del messaggio nei confronti del
consumatore, ma anche come interpretare una situazione soggiacente che ormai si
profila con la “necessità di una riaffermazione della centralità del consumatore –
spesso definito ‘nuovo consumatore’ per sottolineare la presenza di dimensioni
inconsuete rispetto alle chiavi di lettura tradizionali – e, dall’altro lato, della costante
perdita di efficacia delle forme classiche di comunicazione d’impresa, specialmente se
paragonate a quelle emergenti, che presentano caratteri di interattività e di
pervasività un tempo sconosciuti1”.
1 Roberto Paolo Nelli - Paola Bensi. “Il product placement nelle strategia di convergenza della marca nel
settore dell’intrattenimento”. Ed.Vita e Pensiero, 2007
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Peculiarità del Product Placement e principali aree di azione
1.1 Guida alla corretta interpretazione del termine “product placement”
Il Product Placement, termine coniato in ambito accademico verso i primi anni 80,
nasce principalmente come definizione per indicare il semplice inserimento di un
prodotto di marca all’interno di una pellicola cinematografica o di uno show televisivo
o in generale di un qualsiasi contenuto di entertainment nel senso standard del
termine.
Una considerazione iniziale sul PP (per lo più inteso come “brand placament”)
potrebbe portarci a delinearne varie tipologie quali:
- l’inserimento diretto di un prodotto “branded” all’interno della scena, la cui visibilità sia
tanto ineccepibile da farne immediatamente comprendere il marchio data la sua
forma fisica e il suo “shape” altamente riconoscibile;
- la citazione del nome del prodotto o del marchio da parte del protagonista/antagonista
(o di uno dei personaggi secondari) o anche da una voce fuoricampo;
- il piazzamento semplice della marca nell’arredo scenico (la soluzione maggiormente
adottata è la ripresa di un messaggio pubblicitario di cartellonistica all’interno di una
scena);
- l’inserimento di un prodotto all’interno di una scena in modo velato, ossia senza la
precisa visione del marchio o la precisa identificazione delle sue componenti fisiche o
simboliche nonché la mancanza di citazione verbale;
- l’introduzione di un prodotto ma senza riferimento alcuno al marchio, alle
caratteristiche fisiche o alla specifica categoria merceologica (basandosi sulla forza dei
marchi tanto noti da poter essere elaborati indirettamente per processi inferenziali)
Questa suddivisione iniziale, congiunta al tipo di discorso che intendo affrontare per la
prima parte, è ottimale. Vengono infatti indicate tutte le tipologie di comparsa del
prodotto all’interno di un contenuto di intrattenimento nel senso lato del termine.
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Il product placement infatti, slegato dalle numerose accezioni e ramificate definizioni
degli accademici, non è altro che trasportare l’idea (o il concetto) di marchio sullo
schermo (sia esso televisivo o cinematografico), che poi questo avvenga per via fisica o
non, uditiva o visiva, diretta o indiretta, non è questo il momento di discuterne.
L’obiettivo finale (o “final aim” come piace agli americani) è quello di imprimere l’idea
del marchio, sottoforma di ricordo, nello spettatore finale, che diventa target a tutti gli
effetti di un messaggio pubblicitario.
Figura 2 Rappresentazione artistica del concetto di ‘brand’
A questo punto verrebbe da chiedersi in che modalità questo messaggio pubblicitario
di product placement differisca da quello standard del classico break.
E’ una questione cruciale di tutto il discorso e verrà trattata e rivista in seguito,
relativamente agli ambiti di discussione più disparati.
Per ora, in fase iniziale, possiamo limitarci a prendere in esame le differenti definizioni
di PP date dagli esperti e dagli studiosi di questa branca dell’economia.
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Tenendo conto del ruolo sempre più importante giocato dal consumatore potremmo
citare il Prof.Daniele Dalli, docente presso la Facoltà di Economia di Pisa, il quale
afferma che “il product placement determina effetti sul piano culturale: da un lato
produttori e inserzionisti pescano significati e simboli appartenenti alla cultura
dominante per garantire l’efficacia della comunicazione e, dall’altro, le reazioni dei
consumatori confermano o modificano tale sistema culturale e forniscono gli elementi
per lo stadio successivo2”. Questa visione, positiva e aperta, si lega in modo
inoppugnabile a quella che è la nuova tendenza del mercato, sia statunitense che
italiano, all’interno dei quali si sperimenta ancora molto e dove il potere del
consumatore accresce di volta in volta. In questa realtà “in divenire” occorre rimanere
al passo coi tempi, rispettando gli obblighi verso ambo le parti e sapendo generare del
buon product placement.
Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire in primis il vero significato di
product placement, e poi come farne del buono, interpretando quanto visto in
antecedenza. La definizione più chiara ci arriva forse da S.K.Balasubramanian quando
dice che “il product placement veicola un messaggio finalizzato a influenzare il
pubblico attraverso l’inserimento oneroso, pianificato e non invadente di un prodotto
di marca in un film o in un programma televisivo3”. Questa affermazione ci porta
all’evidente riflessione per la quale un messaggio, qualsiasi sia la sua natura, è sempre
e comunque finalizzato a influenzare qualcuno. Non per altro Balasubramanian è uno
dei principali teorizzatori dei cosiddetti “messaggi ibridi” i quali, se distribuiti in modo
inoculato, possono plasmare il pubblico che accetta acriticamente la visione di un
contenuto di intrattenimento a loro non presentato come commerciale.
A questo proposito vorrei aprire una piccola parentesi dedicata alla studio dei mezzi di
comunicazioni effettuato nel ‘900 dagli esperti di sociologia tra i quali spiccò il noto
Marshall McLuhan, di origine canadese, che aveva racchiuso in una semplice frase, che
2 Dalli, D. “Il product placement cinematografico: oltre la pubblicità?” in "Le tendenze del marketing in
Europa". Venezia, Novembre 2003.
3 S.K.Balasubramanian. “Beyond Advertising and publicity: hybrid messages and public policy issues” in
“Journal of Advertising”, 1994.
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suonava “il medium è il messaggio”, intere decadi di ricerche e di risultati in ambito
sociologico, comunicazionale e, perché no, anche della comunicazione d’impresa.
Con questa frase McLuhan ci ha appena indicato la non neutralità del medium, che
suscita in tutti gli spettatori determinati comportamenti e attitudini che generano una
vera e propria “forma mentis”. Se il mezzo di comunicazione è non neutrale allora,
indipendentemente dal medium, il messaggio verrà captato dallo spettatore in forma
diretta, e se questo messaggio è di tipo pubblicitario, immaginiamo le potenzialità
comunicative di influenza sul pubblico.
A questo punto la frase “La Cinematografia è l’arma più forte”, pronunciata da Benito
Mussolini il 21 aprile 1937 in occasione dell’inaugurazione di Cinecittà a Roma, non ci
pare troppo anacronistica. E, volendo proseguire su questa strada, possiamo ormai
affermare con assoluta certezza che la tv ed il cinema non sono dei mezzi neutri per
definizione, se a questo ci aggiungiamo dei messaggi pubblicitari volti a fare acquisire
delle abitudini di consumo agli spettatori, allora abbiamo capito quanto sia importante
gestire bene questa potenza comunicativa in grado di plasmare intere masse.
Per questa ragione la definizione di PP fornita da J.A.Karrh, secondo il quale il PP è
“l’inserimento oneroso, attraverso modalità visive e/o uditive, di prodotti di marca o
dei relativi segni distintivi all’interno della programmazione dei mass media con
finalità commerciali4”, ci pare più adatta a comprendere al meglio il processo che
avviene quando un oggetto, costituito da beni o servizi, viene visibilmente inserito
sottoforma di “brand” all’interno di un contesto per raggiungere un obiettivo di
carattere persuasivo per via onerosa.
Entrano più nello specifico i due ricercatori B.P.Gupta e S.J.Gould5 quando affermano
che la prestazione dovuta dall’impresa può espletarsi principalmente in due modalità,
la prima, quella definita di “barter product placement”, consiste nella fornitura diretta
di prodotti di scena al set e la seconda è quella di “paid product placement”, per la
4 J.A.Karrh. “Brand Placement: A Review” in “Journal of Current Issues and Research in Advertising”,
1998.
5 B.P.Gupta – S.J.Gould. “Consumers’ perceptions of the ethics and acceptability of product placements
in movies: Product category and individual differences” in “Journal of Current Issues and Resarch in
Advertising”, 1997.
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quale è prevista una partecipazione diretta alle spese di produzione ai fini di uno
specifico inserimento.
Ma è solo quando un altro duo di ricercatori, C.A.Russel e M.Belch, dice: “Definiamo il
PP come l’inserimento finalizzato di una marca all’interno di un veicolo di
intrattenimento6” che allora entrano in gioco altre accezioni di ‘mezzo di
comunicazione’ che riconsidera il tutto, implicando anche la presenza di tutti i possibili
media quali tv, radio, cinema, internet, videogames, stampa, libri e quant’altro.
La pagina inglese di Wikipedia, la più grande enciclopedia online gratis al mondo,
definisce il PP così: “Product placement advertisements are promotional ads placed by
marketers using real commercial products and services in media, where the presence
of a particular brand is the result of an economic exchange. Product placement
appears in plays, film, television series, music videos, video games and books. It
became more common starting in the 1980s, but can be traced back to at least 1949.
Product placement occurs with the inclusion of a brand’s logo in shot, or a favorable
mention or appearance of a product in shot. This is done without disclosure, and under
the premise that it is a natural part of the work. Most major movie releases today
contain product placements7”.
(Trad.: “Le pubblicità sviluppate mediante il product placement sono dei veri e propri
messaggi promozionali, frutto di piani di marketing, che prevede l’inserimento di
prodotti reali o di servizi all’interno dei media, in cui la presenza di una particolare
marca è il risultato di uno scambio economico. Il product placement appare in giochi,
film, serie televisive, video musicali, video giochi e libri. E' diventat pratica comune a
partire dal 1980, ma può essere fatta risalire almeno al 1949. L'inserimento di prodotti
si verifica con il piazzamento del logo della marca nella ripresa, o una citazione di parte
riguardante un preciso aspetto del prodotto inquadrato. Questo viene fatto senza
pubblicità diretta, e sotto la premessa che si tratta di una parte naturale della scena.
La maggior parte dei grandi film di oggi contiene il product placement”)
6 C.A.Russel e M.Belch. “A managerial investigation into the Product Placement industry” in “Journal of
Current Issues and Resarch in Advertising”, 2005.
7 http://en.wikipedia.org/wiki/Product_placement
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Questa definizione, al di là di tutte quelle analizzate fino ad adesso, è quella che
racchiude in modo inequivocabile lo spirito del PP come è inteso oggi.
La frase finale riporta che la quasi totalità dei film prodotti dalle majors oramai sono
soggetti al product placement, questo significa molti guadagni sia per gli inserzionisti
che per gli studios, con introiti che di anno in anno aumentano visibilmente (ma di
questi dati andremo nello specifico più avanti).
Il sito www.allbusiness.com, noto portale di economia e marketing americano, nella
sua ampia sezione di “business glossary”, tratta del PP proprio descrivendone tutte le
caratteristiche fin qua evinte ma aggiunge una parte che definire fondamentale è
poco: “The marketer benefits from exposure to a large audience in an environment
that is perceived to be objective. An added benefit is the association created between
the actors or the characters they play and the product8”.
Non solo l’inserzionista beneficia di un audience su larga scala tramite un mezzo che
normalmente è visto come oggettivo ma si crea un vero e proprio stato di benefit
aggiuntivo in quanto il prodotto inserito viene associato a questo o quell’altro
personaggio famoso, che quindi diventa a tutti gli effetti testimonial dei valori del
marchio e non più del mero oggetto fisico.
8 http://www.allbusiness.com/glossaries/product-placement/4963717-1.html