2
confermano o modificano tale sistema culturale e forniscono gli elementi per lo
stadio successivo».
1
Ulteriore scoperta del primo capitolo è il rinvenimento del
product placement in altri supporti comunicativi, sebbene in questo lavoro il focus sia
incentrato sul product placement cinematografico.
Proprio per definire meglio questo segmento particolare, il secondo capitolo si
configura come un breve storia del cinema vista attraverso la lente del product
placement. Assodato che il cinema nasce con un intento promozionale, e anzi,
nell’atto di nascita è già iscritto il collocamento del prodotto (in questo caso del
marchio di fabbrica Lumière), la via da noi scelta riceve un’ulteriore conferma: il
product placement, nella teoria e nella pratica, è molto di più di uno strumento di
comunicazione aziendale.
I tre capitoli successivi sviluppano il tema del product placement secondo tre
prospettive diverse e complementari: il quadro giuridico (e accanto ad esso le
questioni etiche), l’aspetto aziendale (il ruolo del product placement nell’odierna
comunicazione aziendale) e alcuni degli aspetti sociosemiotici coinvolti (l’analisi
della narrazione e il significato della marca nel mercato contemporaneo).
Incrociando questi tre paradigmi si rende evidente che lo spazio a disposizione del
product placement tende ad allargarsi, e il capitolo 6 sintetizza le modalità che
questa espansione del product placement potrebbe assumere.
L’ultimo capitolo tira le somme e mette in campo tutti i paradigmi attivati per tentare
di dare una lettura coerente delle dinamiche di scambio tra cinema e pubblicità,
utilizzando per le analisi il genere fantascientifico, che insieme modella il futuro e
racconta il presente.
Questa ricognizione generale del product placement, inclusiva dei suoi aspetti meno
radicati nelle scelte dell’impresa inserzionista, cioè quelli che appartengono
all’ambito della creazione e fruizione dell’opera e del marchio, si carica di attualità
grazie alla normalizzazione che ha investito la pratica del product placement in Italia.
Prima vietato come sottospecie di pubblicità occulta, è ora diventato un tema su cui
1
DALLI, 2003, p. 8.
3
tutti gli operatori del settore si sono attivati e stanno tentando di costruire una rete di
esperienze, di saperi e di pratiche, speriamo per il bene dell’intermittente (per qualità
e visibilità) cinema italiano.
4
1. IL PRODUCT PLACEMENT. DEFINIZIONI E AMBITI
1.1. IL PRODUCT PLACEMENT NEL CONTESTO DELLA TEORIA DEGLI 'HYBRID MESSAGES’
“The entertainment & advertising industries
must converge to survive.”
Scott Donaton
autore di Madison & Vine
Gli occhiali Ray-ban, ovviamente modello Aviator, sfoggiati da Tom Cruise in Top
Gun. James Bond che collabora al lancio della BMW Z3 in Goldeneye. Gli skaters
virtuali che in Tony Hawk Pro Skater vestono Diesel. Un reality show della ABC, The
Runner, il cui misterioso protagonista vaga per l’America tra un Burger King e un
Dunkin’ Donuts, bevendo Pepsi. E ancora: la creazione di canzoni che includano il
nome di un prodotto da sponsorizzare (i cosiddetti Adsongs). E i dolci e i vestiti
chiamati per nome proprio (cioè marchio) ne Il diario di Bridget Jones. O addirittura il
romanzo di Fay Weldon, intitolato The Bulgari connection, e commissionato
dall’omonima casa gioielliera italiana. Oppure la pratica dell’infomercial, che mette
modalità e volti noti del giornalismo al servizio di scopi commerciali.
I casi citati sono soltanto alcuni esempi tra quelli possibili all’interno di un vasto e
crescente campo di attività mediale, i cosiddetti hybrid messages (messaggi ibridi)
che per Balasubramanian includono «ogni tentativo, retribuito, di influenzare il
pubblico per (ottenere) profitti commerciali usando comunicazioni che proiettino
carattere non commerciale; con questi presupposti è probabile che il pubblico sia
ignaro del tentativo di influenza commerciale e/o che processi il contenuto di tale
comunicazione in modo differente da come è solito processare i messaggi
commerciali»
1
. Balasubramanian offre una panoramica delle varie forme che questi
messaggi hidden but paid for
2
possono assumere.
1
BALASUBRAMANIAN, 1994, p. 30. Traduzione nostra.
2
nascosti ma pagati.
5
Figura 1.1
I messaggi ibridi combinano in modo creativo i concetti di advertising e publicity
Fonte: rielaborato da BALASUBRAMANIAN, 1994, p. 30.
ADVERTISING
Retribuito Æ Vantaggio: contenuto del
messaggio e formato
controllati dallo sponsor.
Sponsor Svantaggio: fonte
Identificato percepita (sponsor)
guardata con sospetto.
PUBLICITY
Non Svantaggio: contenuto del
Retribuito messaggio e formato non
controllati dallo sponsor
Sponsor non Vantaggio: fonte
Identificato Æ percepita (media) appare
credibile
HYBRID MESSAGES
Forniscono allo sponsor un benefit mix unico
RetribuitiÆ Vantaggio: sponsor mantiene controllo sul
messaggio.
Sponsor non Svantaggio: il messaggio dello sponsor
identificato Æ ppare credibile.
6
Forme molto diverse tra loro ma accomunate dalla natura a cavallo tra ‘advertising’
e ‘publicity’
3
, in grado quindi di offrire il perfetto benefit mix che le forme pure non
riescono a fornire.
La Figura 1, rielaborata da Balasubramanian, chiarisce quale sia l’enorme potenziale
di controllo sul messaggio (derivato dall’advertising) e credibilità dell’emittente
(derivato dalla publicity) di cui i pubblicitari possono disporre usando i messaggi ibridi.
Questi permettono di mascherare il messaggio pubblicitario, che da tempo porta
segni di usura e genera fastidio soprattutto nelle fasce giovani del mercato, le più
ambite. E, unendosi in maniera più fluida al flusso della programmazione, consentono
di bucare le barriere mentali (e fisiche, come lo zapping) che il pubblico oppone alla
pubblicità. Senza che, per contro, sia necessario il trasferimento della gestione dei
contenuti a soggetti diversi dai pubblicitari, con il rischio di una cattiva o perlomeno
incompleta gestione del messaggio che questo comporterebbe (cfr. cap 3).
Anche l’attuale assetto economico dell’industria dei media spinge verso la diffusione
dei messaggi ibridi, in quanto il loro uso incoraggia la collaborazione tra media e
favorisce sinergie finanziarie, all’interno di un panorama societario sempre più
intrecciato
4
.
Questo processo di ibridazione delle tecniche pubblicitarie con quelle proprie di altri
tipi di comunicazione -giornalistica e di intrattenimento- è causa (ed effetto) del
fenomeno dell’assottigliamento dei confini (the blurring the boundaries) tra cultura
popolare e attività commerciale rilevata in alcuni studi in ambito di marketing e
pubblicità e sociologia dei consumi
5
.
3
Con ‘advertising’, termine inglese traducibile con l’italiano pubblicità, si indica, secondo
Brioschi [1984, p. 39] «qualsiasi forma di comunicazione di massa a carattere persuasorio ed
oneroso, proveniente da una fonte identificabile e avente delle finalità di tipo commerciale».
Per ‘publicity’, in italiano all’incirca pubbliche relazioni, si intende «un’attività occasionale di
informazione circa una determinata azienda e i suoi prodotti, realizzata da elementi estranei
all’azienda stessa e senza pertanto un diretto sostentamento di costi da parte di
quest’ultima».[BRIOSCHI, 1985, p. 162]
4
SANDLER – SECUNDA, 1993.
5
Si vedano tra gli altri SANDLER – SECUNDA, 1993; SOLOMON – ENGLIS, 1994; THOMPSON, 1995;
CODELUPPI, 1996; MCCRACKEN, 1996; HIRSCHMAN, 1998.
7
Ed è proprio in questa zona di confine che il product placement trova il suo campo
d’attività, in quanto inserisce un discorso pubblicitario/promozionale (ciò che la
legislazione americana chiama commercial speech) in un discorso genericamente
culturale (noncommercial speech).
Balasubramanian nella sua ricognizione sui messaggi ibridi considera il product
placement come un messaggio ibrido già consolidato, con una storia alle spalle e
pratiche già assodate. Lo definisce «un messaggio retribuito attorno a un prodotto,
con lo scopo di influenzare gli spettatori cinematografici (o televisivi) attraverso
l’introduzione pianificata e discreta di un prodotto dotato di brand (branded
product) in un film (o un programma televisivo)»
6
.
L’esempio più eclatante, nonché il più citato, quello che ha dato il via a una pratica
del product placement più consapevole e strutturata, è l’uso dei Reeses’s Pieces nel
film E.T., L’extraterrestre. Nel film i dolcetti, fino ad allora poco sconosciuti, sono l’esca
che il protagonista umano usa per attrarre il piccolo alieno spaventato fuori
dall’armadio e instaurare un primo contatto. Spielberg, vero maestro del product
placement (cfr. l’analisi di Minority Report al cap. 7), in un primo momento offrì il
placement alla Mars per gli M&M’s, che però rifiutò per timore che l’aspetto poco
invitante di E.T. potesse allontanare i clienti invece di attrarli. E invece la Hershey,
produttrice dei Reese’s Pieces, secondo diverse fonti, incrementò le vendite del 65 %
in un mese.
Da questo esempio, che ormai ha assunto dei contorni quasi leggendari, ai nostri
giorni la pratica del product placement si è declinata in una varietà di modi, mezzi e
luoghi tale da rendere inevitabile un nuovo approccio al concetto.
Nonostante la rilevanza della definizione fornita da Balasubramanian, e soprattutto
dello sfondo teorico da lui tracciato, questi strumenti di analisi non sono più in grado
di comprendere appieno il fenomeno, nella vastità dei risvolti che esso implica.
6
BALASUBRAMANIAN, 1994, p. 31.
8
1.2. DEFINIZIONE DEL FENOMENO PRODUCT PLACEMENT
La pratica del product placement (in italiano ‘collocamento pianificato del
prodotto’, abbreviato PPL) è nata insieme ai media che da più tempo ne fanno uso.
Il cinematografo dei fratelli Lumière fu inventato con lo scopo principale di dare
prestigio alla vera attività della famiglia, la produzione di pellicole fotografiche. Non
possiamo quindi stupirci se il primo ‘film’ proiettato durante la prima assoluta del 28
dicembre 1895 fu La sortie des usines Lumière. Quindi in un certo senso il product
placement è nato contemporaneamente al cinema. [BAÑOS – RODRIGUEZ, 2003; CORTI,
2002, 2004].
E il connubio tra arte e commercio (del resto strutturalmente insito nel cinema)
continuò soprattutto nell’industria cinematografica americana che, ben prima di E.T.,
l’extraterrestre, intuì la grande capacità di questa pratica. Per decenni gli studios
utilizzarono i prodotti e le pubblicità delle varie aziende come materiale di scena, e
nel 1939 la MGM diventò il primo studio della storia ad aprire un ufficio destinato agli
accordi di placement.
E per ciò che riguarda la televisione? Nonostante la legislazione USA stabilisca delle
limitazioni per il product placement televisivo (cfr. cap. 4), la natura squisitamente
commerciale del broadcasting americano (radiofonico e televisivo) non poteva
lasciarsi scappare questa opportunità. Diversi autori hanno collegato l’attuale,
massiccia, presenza di prodotti nelle produzioni televisive alle origini del mezzo, in cui
non si vendevano spazi pubblicitari tra un programma e il successivo, ma gli sponsors
producevano direttamente o controllavano strettamente i programmi, dai titoli più
che espliciti: Camel News Caravan, Texaco Star Theatre, The Kraft Music Hall, Pepsi-
Cola Playhouse ecc. [TURNER, 2004; KRETCHMER, 2004; SANDLER – SECUNDA, 1993].
Nonostante questa lunga storia alle spalle, la ricerca scientifica ha iniziato da poco
(sporadicamente da fine anni ’80 del secolo scorso e con maggiore intensità da non
più di una decina d’anni) a interessarsi al product placement. E ancora non esiste
9
accordo su molti aspetti, tra cui la definizione e alcune problematiche specifiche:
l’estensione del campo d’azione, il dilemma brand o product placement,
l’intenzionalità (e il pagamento) e le modalità dell’inclusione.
Per poter giungere alla definizione più completa e stringente del fenomeno del
product placement passeremo in rassegna le diverse definizioni finora proposte,
senza tralasciare l’uso di esempi che possano aiutare a focalizzare al meglio il
fenomeno. Per evitare di lavorare in un ‘limbo semantico’, potremmo assumere
come definizione base quella pragmatica e limitata al mezzo cinematografico,
proposta da Turcotte [1995]: «il product placement capita quando un prodotto di
consumo definito da un brand è usato come materiale scenico in un film».
1.2.1. Estensione del campo d’azione
Come già accennato, la definizione di Turcotte si limita a considerare il mezzo
cinematografico quale unico ospite del product placement, omettendo ambiti
importanti e in costante crescita.
Anzitutto la Tv, lasciata a margine anche da Nebenzahl e Secunda. Nel loro
pionieristico lavoro -il primo studio pubblicato su riviste scientifiche di marketing e
pubblicità- definiscono il product placement come «l’inclusione di prodotti di
consumo o di servizi in film distribuiti nei teatri dalle majors di Hollywood, in cambio di
una tariffa in denaro o di una reciproca esposizione promozionale per i film nella
programmazione pubblicitaria del venditore del bene/servizio»
7
.
Il mancato riferimento all’uso del PPL nel broadcasting televisivo potrebbe essere
giustificato, in quanto la FCC (Federal Communication Commission, ossia l’organismo
statunitense con poteri legislativi sui mass-media) impone che ogni sponsorizzazione
televisiva (anche nei film-tv) venga esplicitata. In questo modo la natura stessa di
product placement come messaggio ibrido verrebbe snaturata, in quanto lo sponsor
sarebbe costretto a uscire allo scoperto, perdendo il suo carattere embedded.
I pubblicitari USA hanno però trovato il modo di aggirare la legislazione,
7
SANDLER – SECUNDA, 1993, p. 1. (Traduzione nostra.)
10
considerando l’incremento di placement che si sovrappongono in qualche modo
alle sponsorizzazioni e sfruttano le possibilità che la regolamentazione del FCC lascia
aperte (cfr. cap. 4).
È quindi entrato nel sentire comune di aziende, pubblicitari, giornalisti e ricercatori
(soprattutto europei, come SACK, 1987; MANSANI, 1988; GUGLIELMETTI, 1990, anche se
con eccezioni, es. CORMIANI, 2001) l’idea di product placement televisivo, spesso
associato a sponsorizzazioni [D’ASTOUS – SÉGUIN, 1999; AVERY – FERRARO, 2000; RUSSEL,
2002].
Oltre che nei media audiovisivi tradizionali, il product placement è ormai una realtà
in altri campi d’azione che le imprese e i pubblicitari considerano sempre più
appetibili e efficaci.
Alcuni studi [FRIEDMAN, 1985, 1986 e 1991; ENGLIS – SOLOMON – OLOFSSON, 1993] hanno
rivelato un notevole incremento, dal secondo dopoguerra ai nostri giorni, delle
apparizioni di nomi di brands, sia all’interno di romanzi best-sellers sia in testi e video
musicali.
Nonostante il fatto che non tutte le citazioni siano retribuite, ciò evidenzia una
propensione all’inclusione di marche, che negli ultimi anni si è trasformata in un vero
ricorso al product placement pianificato e regolato da contratti. Possiamo citare
come esempio il placement di una Maserati in un romanzo di Beth Ann Herman,
Power city, ambientato nella comunità di PR di Hollywood. In cambio della pubblicità
un rivenditore di Maserati di Beverly Hills organizzò un party, costato 15.000 dollari, a
cui le televisioni nazionali diedero ampia copertura [SNYDER, 1992].
La nascita e il consolidamento dei media digitali ha infine aperto nuove possibilità
per il product placement, che vanno dall’inclusione di brands e prodotti nei
videogame alle possibilità offerte dalla televisione digitale.
La definizione che più di ogni altra rispecchia questo aspetto multiforme, si potrebbe
dire quasi metamorfico, del product placement è quella fornita da Karrh [1998, p.33]
e poi utilizzata da molti altri autori. Karrh definisce ‘brand placement’ (vd. 1.2.2. per la
11
differenza con il product placement) «l’inclusione retribuita di prodotti dotati di brand
o di identificatori del brand, attraverso mezzi audio e/o visivi, nella programmazione
dei mass media».
1.2.2. ‘Brand placement’ vs ‘product placement’
“Product placement, brand integration,
whatever you want to call it.
It’s still product placement.”
Frank Zazza
Direttore generale ITVX
‘Product placement’ è il termine più comunemente utilizzato dal mondo delle
aziende, dagli studios, dalla stampa non specializzata e in genere anche da quella
scientifica [TURCOTTE, 1995] .
Tuttavia alcuni autori [KARRH, 1994, 1995, 1998; DELORME, REID AND ZIMMER, 1994; BABIN –
CARDER, 1996; DELORME – REID, 1999; JOHNSTONE – DODD, 2000, OLSON, 2004] preferiscono
utilizzare la denominazione ‘brand placement’, perché “generalmente è una marca
particolare, piuttosto che una tipologia di prodotto a essere evidenziata (Rayban
versus occhiali da sole)”
8
.
L’utilizzo di ‘brand placement’, al posto del più generico ‘product placement’ aiuta
a cogliere maggiori sfumature della questione, in quanto focalizza l’attenzione sugli
effetti comunicativi dell’uso delle marche e sullo scartamento di valore delle marche
che si realizza in uno stesso settore merceologico in seguito a un placement.
Ciononostante la maggioranza degli studiosi e dei professionisti continua a riferirsi al
concetto di inserimento di marchi nei mass-media usando ‘product placement’,
termine che permette una maggiore comprensibilità comune dell’argomento
trattato.
Andriasova [2001] risolve la questione riferendosi al concetto di brand placement
con i termini ‘brand’ e ‘product placement’, usando invece la formula ‘generic
product placement’ per i casi in cui compaia un prodotto privo di brand e in questo
8
KARRH, 1998, p. 32.
12
lavoro ci atterremo a questa scelta.
È però interessante notare come nel gergo degli addetti ai lavori si vada diffondendo
una nuova definizione per un fenomeno che si è certamente evoluto, ma in buona
sostanza è rimasto lo stesso. Si parla sempre più spesso di ‘brand integration’,
espressione che vuole attirare l’attenzione degli inserzionisti sulla capacità di
amalgamare marchi e contenuti, fino a renderli indistinguibili e inseparabili
9
.
1.2.3 Intenzionalità del product placement
Turcotte focalizza il suo lavoro sui benefici (aziende, studios, filmmakers, agenzie di
placement) che le vari parti in gioco in un accordo di PPL possono ricavarne.
Nonostante questo approccio, secondo la sua definizione il product placement
“capita”. Questo significherebbe affermare che il PPL non è né intenzionale, né
soggetto a pianificazione.
La definizione già citata di Balasubramanian invece considera il product placement
come pianificato (e quindi intenzionale, da parte delle imprese) per influenzare il
pubblico. Influenza che Karrh [1995] scompone nei vari effetti desiderati, vale a dire
accrescere la consapevolezza, creare un atteggiamento favorevole, intensificare
l’intenzione di acquisto per giungere all’effettivo acquisto di una determinata marca.
Il product placement non può quindi essere un caso. È uno strumento del promotion
mix che l’impresa deve volere ed essere in grado di utilizzare. L’intervento
imprenditoriale è vincolante per poter parlare di product (o brand) placement. E di
conseguenza il product placement è solitamente retribuito, in modi diversi: o in
denaro (a un importo base si sommano eventuali importi extra, nel caso di uso da
parte della star, o menzione del nome), o con contratti tipo barter-deal (presuppone
l’uso gratuito della merce come props in un film in cambio dell’esposizione del
marchio), o con reciproca azione promozionale (movie tie-ins).
Tuttavia esistono casi in cui non è l’intenzionalità imprenditoriale a causare
l’apparizione di una marca, ma entra in gioco l’intenzionalità autoriale.
9
Si veda ad esempio DONATON, 2004
13
Friedman [1991] distingue, in ciò che lui chiama ‘word-of-author advertising’
(pubblicità d’autore, cioè l’uso di nomi di marche all’interno di testi quali
sceneggiature, show televisivi, e altri prodotti della cultura popolare) tra ‘sponsored
word-of-author advertising’ e ‘unsponsored word of author advertising’. Con la prima
espressione intende gli impieghi di brand names suggeriti da intenti commerciali (il
product placement tradizionale, l’opera commissionata) e con la seconda quelli che
non lo sono (semplice citazione, in cui un determinato brand è usato come
condensato di senso sociale).
È di grande importanza notare come per il pubblico questa sia una distinzione
invisibile, che può condurre a inferenze scorrette riguardo al reale intento che si cela
dietro l’apparizione di brand dentro a contenuti generalmente definibili come
editoriali [Karrh, 1998].
È su questa base, vale a dire la possibilità di un inganno nei confronti del pubblico,
che si basano le critiche che le associazioni di consumatori, ma anche gran parte
della legislazione europea, rivolgono al product placement.
La tabella 1 incrocia le differenze indicate nel paragrafo precedente tra ‘brand
placement’ e ‘product placement’ e la presenza o meno di intenzionalità dovuta a
un intervento imprenditoriale, che si può fermare al controllo dell’esposizione o
espandersi al controllo dell’intero mezzo ospitante.
Nonostante l’intervento imprenditoriale sia un fattore determinante per confermare
l’effettiva esistenza di un brand placement, durante le analisi di casi cinematografici
non è sempre possibile risalire all’esistenza di un contratto. Vista però la legislazione
sull’uso dei marchi registrati e la densità di linguaggio del mezzo cinematografico,
che concede ben poco spazio alla casualità, è altamente probabile che
un’apparizione sia causata da accordi fra le parti.
14
Tabella 1.1
Intenzionalità del placement e riconoscibilità della marca
CAUSA DELL’ESPOSIZIONE
INTERVENTO IMPRENDITORIALE
Limitato
all’esposizione
Esteso al controllo
del mezzo ospite
LIBERA SCELTA
STILISTICA
IDENTITÀ DEL
PRODOTTO
=
RICONOSCIBILE
BRAND
(o PRODUCT)
PLACEMENT
COMMISSIONE
CITAZIONE
4
IDENTITÀ DEL
PRODOTTO
=
NON RICONOSCIBILE
———— ————
GENERIC
PRODUCT
PLACEMENT
4 comparabile, dal punto di vista semiotico, al product placement.
Nostra elaborazione.
15
Ma se non esistesse alcun tipo di accordo, se ciò che potrebbe sembrare un
placement fosse solo una citazione intenzionale dell’autore? Baños e Rodriguez
[2003, p. 35] affermano che «il messaggio si riceve e compie una missione nel
pubblico indipendentemente dalla possibile relazione economica tra la marca e la
produzione. […] Se la marca o qualsiasi elemento che permetta di rappresentarla e
riconoscerla appare in un modo rilevante, per noi è product placement
indipendentemente dalla sua relazione commerciale con la produzione».
Risulta quindi chiaro che l’intenzionalità si può intendere in due modi distinti: in senso
stretto (o dal punto di vista del marketing), significa che il PPL si verifica grazie a un
contratto tra impresa e produzione, che includa una qualsiasi forma di retribuzione, e
in senso lato (dal punto di vista delle scienze sociali) per scelta dell’autore.
Neppure da questa visione generale del fenomeno sono escluse le ragioni del
marketing: se un autore decide di usare una marca assegnandole particolari valori,
significa che il marketing ha raggiunto il suo scopo, creare la cosiddetta brand
equity, vale a dire un’immagine valoriale che identifichi una marca all’interno della
mente del consumatore. In caso contrario (cioè un trasferimento di disvalori creato
da un autore verso una marca) , potrebbe comunque valere la massima principe
della pubblicità: “bene o male, l’importante è che se ne parli”.
D’altra parte le ragioni dell’arte dovrebbero sempre essere prese in considerazione
prima di mettere in pratica un product placement. Se un’opera si presenta
sovraccarica di citazioni di prodotti, allontanerà da sé gli spettatori, e al contrario
un’opera che voglia risultare realistica difficilmente potrà evitare di includere brand
al suo interno.
Ai fini del nostro lavoro, in un’ottica che privilegia il consumer’s behavior e la
semiotica alle regole del business, ma che del resto è già stata percorsa, i due tipi di
intenzionalità si equivarranno.