6
distretti industriali. I processi di rilocalizzazione produttiva rappresentano
uno degli aspetti più visibili di questo percorso, che non caratterizza solo la
produzione ma, più in generale, una crescente varietà di funzioni aziendali.
Nella nuova situazione delineatasi, un ruolo di primo piano spetta alla
Pubblica Amministrazione, chiamata a svolgere oggi una funzione di
coordinamento e di regia al fine di dare ordine ed omogeneità alle soluzioni
intraprese dai diversi soggetti economici coinvolti.
L’ obiettivo primario di questo lavoro, dopo aver evidenziato il contributo
teorico dato al fenomeno dell’internazionalizzazione produttiva nel corso
degli anni, è di analizzare le opportunità ed i vantaggi che esso può
determinare.
Nel primo capitolo sarà rivolto uno sguardo al fenomeno
dell’internazionalizzazione da un punto di vista alquanto generico,
attraverso l’illustrazione del significato del termine e delle forme in cui essa
si manifesta e delle teorie microeconomiche e macroeconomiche che nel
corso degli anni ne hanno sostenuto l’importanza o al contrario ne hanno
evidenziato le mancanze.
Il secondo capitolo, invece, si rivolgerà al fenomeno
dell’internazionalizzazione produttiva dal punto di vista strategico e dei
settori in cui l’industria italiana si suddivide (ossia tradizionali, specializzati,
scale intensive e science-based).
Il terzo capitolo avrà un’impronta più tecnica in quanto riguarderà in modo
specifico il processo di scelta ubicazionale degli impianti, attraverso
7
l’analisi dei fattori che la influenzano e le modalità di scelta dell’area
industriale edificabile.
Nel quarto capitolo l’analisi si sposterà sulle Piccole e Medie Imprese (PMI)
per evidenziare le dimensioni del fenomeno ed illustrare i servizi di
assistenza per lo sviluppo dell’internazionalizzazione esistenti in questo
ambito più ristretto.
Infine, nel quinto ed ultimo capitolo, sarà illustrata la situazione che si
prospetta alle aziende che intendono investire in Francia ed America Latina.
Al termine di questo lavoro sarà poi delineato un quadro dello sviluppo del
fenomeno dell’internazionalizzazione produttiva, in particolar modo in
Italia, evidenziandone le prospettive per l’immediato futuro.
8
CAPITOLO PRIMO:
UNO SGUARDO AL FENOMENO DELL’
INTERNAZIONALIZZAZIONE
1. IL SIGNIFICATO DEL TERMINE
“INTERNAZIONALIZZAZIONE”
L’ internazionalizzazione è quel processo attraverso il quale le imprese non
solo dispiegano le loro vendite su più mercati esteri, ma dagli stessi mercati
o da altri attingono anche per il loro approvvigionamento di materie prime,
di componenti, di tecnologie, di impianti, di attrezzature, di risorse
finanziarie, di forza lavoro (Demattè, 2003); essa comporta spesso anche la
localizzazione su più mercati esteri delle attività produttive o di parti di esse.
L’ internazionalizzazione non è quindi la semplice attività di esportazione,
né tanto meno quel tipo di esportazione che si limita a consegnare in mano a
importatori esteri il prodotto finale affinchè lo collochino presso i punti
vendita locali con la loro organizzazione e sotto il loro controllo; essa è
piuttosto un processo di dispiegamento geografico dell’intera filiera
produttiva dell’impresa per cogliere le migliori condizioni nei diversi
mercati, sia quelli di approvvigionamento dei fattori, sia quelli di sbocco dei
prodotti.
9
Nel nuovo scenario competitivo le imprese che operano esclusivamente
all’interno dei singoli mercati nazionali, salvo qualche eccezione, vedono
limitate le loro prospettive di sviluppo e sono per di più esposte al rischio di
subire l’invasione di concorrenti esteri senza potersi appoggiare su altri
mercati. La mancata diversificazione dei mercati di sbocco, di
approvvigionamento o di produzione le espone, inoltre, al rischio di
variazioni di competitività per semplici oscillazioni del cambio reale,
quando le variazioni del cambio nominale si discostano dai differenziali di
inflazione. Ma oggi questo problema non colpisce solo le imprese rimaste
ostinatamente domestiche; interessa anche le imprese che si sono aperte ai
mercati di sbocco internazionali ma lo hanno fatto esclusivamente con la
modalità esportativa; quindi, quelle che hanno perseguito
l’internazionalizzazione per quanto riguarda i mercati di sbocco, ma l’
hanno realizzata solo su questo fronte, limitandosi a pochi mercati e per di
più in forma “leggera”, non danno radici profonde al loro operare su scala
internazionale. Tre sono le tesi a questo riguardo; la prima è che la presenza
sui mercati esteri solo in forma esportativa leggera espone l’impresa al
rischio di essere facilmente e velocemente soppiantata da chi “controlla” il
mercato; nelle presenti condizioni competitive solo
un’internazionalizzazione attenta a tutti i mercati, a quelli di sbocco come a
quelli delle tecnologie, di approvvigionamento e di produzione consente alle
imprese di reggere il confronto competitivo; l’ internazionalizzazione
“profonda” è quella che non si limita al solo mercato di sbocco, ma passa
10
quasi necessariamente attraverso linee di sviluppo esterne, con l’impiego di
alleanze di vario genere e con il ricorso alle acquisizioni. Ma alleanze ed
acquisizioni sono operazioni difficili e del tutto speciali, che richiedono un
cambio di mentalità e un know-how che non rientra nel patrimonio normale
di un’impresa.
1.1 LA NECESSITA DI DARE UN RADICAMENTO ALLA
PRESENZA SUI MERCATI DI SBOCCO
Molte imprese si avviano sulla strada della internazionalizzazione in forme
poco programmate; ad esempio partecipano a una fiera, talvolta nel proprio
stesso mercato domestico, dove arrivano compratori anche da altri paesi, e si
fanno persuadere ad andare all’estero da importatori di quei paesi. Altre
volte assumono un ruolo più proattivo e, proprio per approdare sui mercati
esteri, partecipano a fiere internazionali nei mercati target o intraprendono
specifiche iniziative commerciali per acquisire sugli stessi un importatore
(Mazzola, 2002). Il più delle volte il complesso delle attività che devono
essere svolte per accompagnare il prodotto presso i punti vendita e poi verso
il consumatore finale è svolto da un “consumatore” locale, il quale utilizza
la rete di vendita e di marketing, di distribuzione fisica, di incasso crediti, di
ritiro dei resi, di assistenza post-vendita e quanto altro è necessario per
completare l’anello della distribuzione all’ingrosso. Il resto della filiera,
quella della vendita al dettaglio, quasi sempre è sotto il controllo di
11
operatori indipendenti locali. Nei mercati più evoluti, costoro sono grandi
imprese di vendita al dettaglio che nemmeno si avvalgono dei distributori
all’ingrosso, ma che preferiscono approvvigionarsi direttamente presso i
produttori. Quanto meno numerose sono le funzioni controllate dall’
impresa sul mercato estero più essa è in balia vuoi del distributore
all’ingrosso, vuoi delle grandi imprese di distribuzione, se questa è la
struttura del mercato prevalente a valle del produttore. Nella maggior parte
dei mercati convivono sia la catena lunga che vede il distributore
all’ingrosso servire una moltitudine di distributori al dettaglio indipendenti,
sia la catena corta, costituita dalla grande impresa di distribuzione al
dettaglio. Quanto più un’impresa riesce ad affondare radici nel mercato
estero, controllando più funzioni possibili e penetrando più in profondità
nella filiera verso il consumatore finale, tanto più difficile è che possa essere
scalzata da quel mercato. Il primo passo in questa direzione consiste, di
solito, nel trasformare il rapporto contrattuale di mercato in rapporto più
vincolante e stabile: un’entrata nel suo capitale, accompagnata da accordi
per una presenza più penetrante dell’esportatore nella gestione operativa; il
passo successivo è quello di acquisirlo per farlo diventare una parte
dell’impresa esportatrice. Grazie a questi sviluppi l’impresa esportatrice può
acquisire un rapporto più stretto e più saldo con i distributori al dettaglio;
può sviluppare con essi forme di servizio pre- e post- vendita che li
vincolino in modo più duraturo; può raccogliere informazioni sulla
concorrenza non distorte dagli interessi dell’importatore, specie se questi è
12
plurimarca; può impostare e gestire direttamente programmi di
fidelizzazione con il trade, senza cadere nell’esclusiva guerra dei prezzi.
Con il controllo stretto delle funzioni di servizio al trade l’impresa che
esporta può impostare con i distributori al dettaglio anche programmi che
consentano una migliore evidenza dei suoi prodotti, con la creazione di
spazi dedicati, di azioni di promozione diretta al consumatore finale. È con
l’insieme di queste azioni che l’ esportatore modifica la propria posizione
sui mercati esteri passando da una presenza “leggera”, esposta a variazioni,
anche piccole, di prezzo da parte dei concorrenti, ad un radicamento più
profondo, protetto, rispetto alla mera concorrenza di prezzo, da una serie di
legami consolidati con il trade.
1.2 LA PRESENZA “PROFONDA” PASSA ANCHE ATTRAVERSO
ACQUISIZIONI ED ALLEANZE
Nell’ approfondire la presenza sul mercato estero, è importante procedere
per “linee esterne” e cioè, anziché andare in proprio, avvalersi dapprima di
un’alleanza con un operatore terzo (l’importatore locale) per poi rinsaldarla
con una partecipazione anche azionaria al fine di meglio allineare interessi e
prospettive; infine acquisirne il controllo quando diventa possibile e
strategica l’internalizzazione di questo anello della filiera (Dematté, 2003).
È evidente che, ove l’impresa riesca a prendere il controllo anche della
distribuzione al dettaglio, rafforza ulteriormente la presa sul mercato estero;
13
tuttavia una simile operazione richiede tempi lunghi ed investimenti ingenti.
Le strade che possono essere percorse sono diverse. Quella dello sviluppo
nel trade per linee interne aprendo un proprio punto vendita è quella più
lenta e dispendiosa, ed è anche quella più difficile, sia per la difficoltà di
gestire in proprio una funzione che è strutturalmente diversa dal produrre,
sia per i problemi dell’operare in un contesto estero in una funzione così
difficile, sia perché tanto le scelte di localizzazioni, che sono cruciali in
questo tipo di attività, quanto la probabilità di riuscire a catturare quelle più
convenienti sono sfavorevoli a chi non è del paese (Lall, 1995).
Per queste ragioni, anche se alcuni tipi di imprese, come quelle del lusso,
aprono propri punti vendita diretti (quelli che vengono chiamati “flag
stores”, negozi bandiera), lo fanno per ragioni di immagine, limitandosi a
poche località di prestigio. Un controllo più profondo del trade è pressoché
impossibile da raggiungere con lo sviluppo in proprio. Una forma che
consente di conciliare l’obiettivo dell’esportatore di avere una rete propria
con la necessità di know-how e imprenditoria commerciale locale, oltretutto
contenendo l’investimento per il primo, è il modello del franchising o
formule simili, come quella perseguita da Benetton. Ciò che si attiva in
questo caso è un modello di sviluppo basato sull’alleanza tra i soggetti
diversi allineati attorno ad un comune obiettivo con apposite formule
contrattuali e con specifici modelli gestionali. L’ alternativa più radicale,
quella che consente un controllo ancora più forte del trade, è quella
dell’acquisizione di reti già strutturate, che consente di superare il problema
14
del gap di conoscenza rispetto al mercato estero, ma ha come contropartita,
il problema dell’elevato investimento. Il radicamento vero sul mercato
estero lo si raggiunge solo quando si penetra profondamente nei pensieri e
nei desideri della clientela prima ancora che nella quota di mercato. Per
raggiungere questo stadio è necessario che i consumatori di quel paese
siano stati esposti a lunga sequenza di esperienze d’acquisto e d’uso
positive con il produttore. Solo in quel momento matura quel legame
profondo che prende il nome di “brand”. Sviluppare un brand su un mercato
estero è quanto di più difficile ed oneroso, anche perché il produttore che
viene da fuori deve trovare spazio fra quelli che il mercato lo coltivano da
sempre. In molti mercati, specialmente in quelli maturi, è possibile
un’entrata di nicchia, soprattutto se il nuovo entrante ha una proposta
innovativa capace di attrarre uno specifico gruppo di consumatori. Ma
andare oltre le posizioni di nicchia diventa problematico senza transitare per
la conquista di un brand locale a forte radicamento. Per questo motivo, ad
un certo punto del processo di internazionalizzazione sorge la necessità di
acquisire un produttore locale, con il problema successivo di integrarlo nella
strategia complessiva dell’impresa. Spesso quel produttore locale ha anch’
esso percorso sentieri di sviluppo internazionale: si apre allora la necessità,
post-acquisizione, di riordinare le posizioni, di posizionare i marchi sui
diversi mercati, di rivedere la distribuzione geografica della produzione ed
anche la specializzazione dei vari stabilimenti che cadono sotto il controllo
dell’impresa. Infine vi è un’altra ragione che conduce un’impresa che voglia
15
diventare sempre più internazionale verso le acquisizioni: in quasi tutti i
settori, ma soprattutto in quelli che presentano economie di scala, economie
di scopo, curve di esperienza e simili economie di dimensione, quando i
mercati si approssimano allo stadio della maturità si innescano processi di
concentrazione che premiano chi è più veloce nell’aggregare altre imprese e
penalizzano chi, non essendo riuscito a posizionarsi a nicchia, si trova
emarginato. Come si può rilevare, il radicamento sul mercato di sbocco in
mercati esteri presenta problemi di varia natura, che difficilmente possono
essere superati solo con uno sviluppo per linee interne senza dover pagare il
prezzo di tempi troppo lunghi o di investimenti rischiosi ed eccessivi. Il
ricorso alle alleanze o alle acquisizione è quasi una strada obbligata.
Un più forte controllo dei mercati di sbocco è uno dei passi che le imprese
devono compiere per dare spessore alle loro strategie di
internazionalizzazione. In realtà, premessa e condizione per potere reggere i
mercati internazionali (ma anche quelli domestici) è l’avere servizi e
prodotti competitivi. La competitività dipende da un insieme di elementi, ad
esempio la qualità ed il costo dei fattori della produzione, dei componenti,
delle tecnologie, del capitale, oltre che dalla capacità di concepire e
realizzare prodotti in grado di soddisfare i bisogni dei consumatori. Sempre
di più, per essere competitivi sul mercato di sbocco, occorre essere capaci di
cogliere le migliori condizioni sul mercato dei fattori, esplorando in
continuazione quanto di nuovo di migliore e di meno costoso si rende
disponibile nel mondo. Nei settori soggetti a maggiore innovazione questa
16
apertura internazionale è condizione essenziale per costruire e mantenere
una competitività nei prodotti finiti. Quando questi sono anche sistemi
complessi di tecnologie e di funzioni, nessuna impresa riesce da sola a
presidiare tutti i fronti di innovazione che possono arricchire e perfezionare
il prodotto. Da queste osservazioni si deduce che per essere competitivi sul
mercato dei prodotti occorre impostare un sistema di alleanze e spesso
anche di acquisizioni per controllare dinamicamente gli elementi necessari
per comporre il prodotto finale. Aziende che in poco più di un decennio
sono passate da una realtà locale, e per di più poco competitiva, a grandi
imprese internazionali, lo hanno fatto non solo stringendo svariate alleanze e
realizzando diverse acquisizioni sul fronte dei mercati di sbocco, ma
operando nelle stesse forme anche sul fronte delle tecnologie, dei
componenti, della determinazione degli standard. Per conservare un
adeguato grado di controllo dell’ambiente dal quale scaturiscono le
innovazioni che possono sconvolgere i giochi competitivi, ambiente che è
sempre più ampio, non bastano i processi di sviluppo per linee interne:
occorrono alleanze; e là dove emergono elementi di possibile vantaggio
competitivo forti, anche acquisizioni, perchè gestire un insieme di
collaboratori dipendenti è già difficile; gestire un processo il cui esito
dipende dal rapporto di collaborazione con un’altra impresa è doppiamente
difficile, perché occorre finalizzare verso un obiettivo che, almeno in parte,
deve essere comune a due squadre di soggetti che rispondono a due centri
direzionali. Sul fronte delle acquisizioni, quelle da farsi per presidiare i
17
mercati dei fattori della produzione, non sono da meno per difficoltà,
rispetto a quelle necessarie per controllare meglio i mercati di sbocco.
Siamo in un regime di economie aperte, sempre più libere negli scambi che
gli operatori possono realizzare con soggetti di altri paesi; sia sul fronte dei
prodotti sia su quello dei componenti, sia su quello dei capitali, l’unico
fattore che rimane vincolato nella sua immobilità è il personale, sia per
motivi di inerzia negli spostamenti, sia per vincoli all’immigrazione. In
queste condizioni di mobilità asimmetrica il luogo dove è più conveniente
produrre può mutare anche in tempi relativamente brevi in quanto è
sufficiente un’alterazione dei rapporti di cambio, oppure una spinta salariale
più accentuata in un paese, oppure un asimmetrico sviluppo della forza
lavoro nelle diverse aree, per fare sì che mutino i luoghi dove la produzione
è più competitiva. Gli impianti, d’altro canto, non sono cosa che si possa
spostare con facilità e senza costo. Ma se variano nel tempo le localizzazioni
più convenienti, un’impresa che voglia rimanere competitiva deve essere
capace di tenerne conto. Lo può fare spostando gli incrementi di produzione
verso i nuovi luoghi, se è tempestiva nell’avvertire il cambiamento in atto.
Oppure può essere costretta a farlo con dismissione dei vecchi stabilimenti
per delocalizzare su altri mercati anche lo stock storico di produzione.
Talune imprese, proprio tenendo conto di questo variare anche repentino dei
luoghi più convenienti, preferiscono non realizzare in proprio l’intera
produzione, dando in outsourcing una certa quota della medesima, oppure la
produzione dei componenti. Se l’assetto per cogliere queste opportunità e
18
sfuggire ai rischi è di questo genere, si pone il problema di dover fare conto,
per la predisposizione del prodotto, sull’opera di terzi. Poiché in molti casi
sarebbe troppo rischioso affidarsi esclusivamente ad acquisti spot, sia per il
controllo di qualità sia per la sicurezza degli approvvigionamenti, sia per la
possibilità di orientare e controllare l’evoluzione dei processi produttivi, si
pone il problema di costruire propri stabilimenti, o di disporre di una
capacità produttiva “controllata”, o di comprare produttori in quei paesi
dove è diventato conveniente produrre. Molto spesso le barriere di lingua, la
diversità delle culture, la difficile comprensione delle alternative, la
specificità dei rapporti con il contesto locale rendono preferibili soluzioni
quali le alleanze o le acquisizioni, rispetto alle operazioni “greenfield”, ossia
di creazione di un nuovo stabilimento. Talvolta si preferisce perfino
acquistare un produttore non del tutto in linea con ciò che sarebbe
necessario, procedendo poi agli adeguamenti necessari, pur di superare la
barriera dell’ignoto che circonda la produzione all’estero.
Comunque lo si osservi, il processo di internazionalizzazione trova ben
presto molti intoppi se ci si limita esclusivamente allo sviluppo per linee
interne. Le barriere conoscitive, quelle normative, quelle ancora più
profonde che legano, per storia condivisa, gli operatori locali fra loro e li
distinguono da quelli che vengono da fuori fanno sì che
un’internazionalizzazione più profonda, cioè con un maggior controllo sui
mercato di sbocco, l’intimità con i consumatori finali, la dimestichezza con
l’ambiente locale, il radicamento sociale, passi quasi necessariamente
19
attraverso alleanze ed acquisizioni. Le prime sono forme organizzative in
cui si fanno convergere il know- how e le risorse dell’impresa che persegue
l’internazionalizzazione con il know-how e le risorse dell’operatore locale
sul quale si fa conto per diventare insider, sia che si operi solo sul mercato
di sbocco sia che si debba manovrare anche quello di fattori o della
produzione. Con le acquisizioni si compie un atto di conquista volto a
catturare il patrimonio di “localizzazione” che si presume incorporato
nell’impresa target. Entrambe le politiche sono essenziali se un’impresa
non vuole limitarsi a rimanere solo un esportatore soggetto alla concorrenza.
Inoltre, non c’ è internazionalizzazione profonda senza il passaggio
attraverso queste forme di crescita; è però certo e dimostrato, da diversi
studi, che queste operazioni sono estremamente difficili, tanto che la
maggioranza di esse si trasforma in una distruzione di valore per gli
azionisti. La tensione fra la necessità di passare attraverso queste operazioni
per realizzare una compiuta internazionalizzazione e l’alto rischio che le
circonda è l’area sulla quale deve essere convogliata l’attenzione del
managent. Affinché queste operazioni non vengano evitate per timore dei
rischi che le accompagnano, ma diventino parte integrante di una strategia
di internazionalizzazione, occorre un’accurata preparazione precedente e
preparatoria ed una superiore capacità di gestione delle fasi di integrazione
successiva. Ci vuole soprattutto una cultura diversa capace di vedere
l’impresa come un organismo, con una propria identità, ma necessariamente