particolari esigenze ambientali che si trovano a fronteggiare e molto
spesso delegano a loro volta la produzione degli stessi servizi ad
altri enti esterni (pubblici o privati), creando così dei networks (reti)
decisamente articolati ed estesi.
Questa tendenza si allinea con i trend propri della “New-
Governance”, che sottolineano l’inefficacia dei vecchi modelli di
Pubblica Amministrazione basati sull’idea
dell’autosufficienza, del controllo diretto, dell’uniformità, della
responsabilità verso l’alto e delle procedure standardizzate (Stewart
e Walsh, 1992). A questo le nuove teorie contrappongono una
Pubblica Amministrazione non più monolitica e rigida, incapace di
rispondere efficacemente alle richieste di una società in evoluzione,
ma centro e fulcro strategico di networks composti da una
moltitudine di agenzie esterne a cui vengono delegate le funzioni di
erogazione dei servizi. Le Organizzazioni Pubbliche divengono
sempre più controllori, regolamentatori e coordinatori di networks e
sempre meno erogatori diretti di attività (Stewart e Walsh, 1992). Lo
stato da interventista, si sta gradualmente trasformando in regolatore
di attori non-statali (Kooiman, 1993).
Questo panorama, che qui costituirà semplicemente lo sfondo su cui
disegneremo la nostra ricerca, si inserisce in un contesto in cui la
pressione esercitata sulle Amministrazioni Pubbliche Locali italiane
e sulle loro strutture d’accoglienza risulta notevolmente
incrementata a causa di un forte aumento dei flussi migratori diretti
verso la penisola.
La possibilità di riscontrare tale fenomeno si rileva soprattutto nelle
grandi città dove notevoli comunità di immigrati, concentrandosi in
cerca di casa e lavoro, scatenano forti tensioni sociali che
coinvolgono la popolazione autoctona e mobilitano l’opinione
pubblica. Di conseguenza tematiche quali la “convivenza possibile”,
l’“accettazione della diversità”, l’“integrazione sociale” nella nuova
comunità, stanno divenendo problematiche sempre più diffuse ed
attuali anche nei comuni più sviluppati d’Italia.
In questo periodo di intenso cambiamento, quindi, la Pubblica
Amministrazione Locale (P.A.) cerca di appropriarsi e di sviluppare
nuovi paradigmi, superando un approccio prettamente burocratico e
5
adeguando le proprie strategie e strutture alla nuova situazione
socio-politica che si sta delineando.
Infatti, il confronto con una società la cui struttura e composizione si
presenta in continua evoluzione, rappresenta una vera e propria sfida
gestionale e “mentale” per le P.A. Locali. Esse si devono
confrontare con un ambiente estremamente più complesso di quello
in cui operavano solo venti anni fa e molto spesso si rivelano
impreparate ad affrontare le nuove issues che si fanno strada con
sempre più prepotenza nella società del XXI secolo.
Tra le molte problematiche emergenti, quella del costante aumento
della presenza di stranieri che si concentrano nelle grandi città
italiane – a conferma di un trend europeo ed occidentale ormai in
continua crescita – con l’obiettivo di cercare una casa e un lavoro,
sollevando questioni cruciali quali l’accoglienza, l’integrazione e
l’inserimento nella comunità ospitante, sembra perciò essere uno dei
punti critici sui quali le P.A. Locali e i Governi Nazionali dovranno
in breve tempo intervenire con un sempre più deciso e costante
impegno.
Infatti, il rischio che l’insediamento degli immigrati venga
considerato dalle comunità autoctone come una effettiva minaccia,
risultando di conseguenza in un vertiginoso aumento delle tensioni
sociali, è più che mai reale e riscontrabile nella cronaca di tutti i
giorni. Gli esiti di tale situazione sono molteplici e possono spaziare
dal semplice sentimento di insicurezza che genera diffidenza, alle
più complesse ed estreme manifestazioni di dissenso come la
“ghettizzazione” e il razzismo. Alle P.A. del nuovo secolo sarà
richiesto uno sforzo decisivo verso l’adozione di nuove strategie e
modelli d’azione in grado di superare le difficoltà della gestione
dell’immigrazione e delle nuove problematiche da essa sollevate.
Caratteristiche come capacità di adattamento, flessibilità e
apprendimento sono e saranno sempre più necessarie e richieste per
far fronte alle nuove esigenze ambientali.
L’obiettivo finale a cui le P.A. Locali dovranno necessariamente
mirare, sarà quindi quello di ordinare la realtà di tutti i giorni
preservandone le norme e i valori democratici e mantenendo umana
e accettabile la società per tutti i residenti, qualsiasi siano le loro
origini etniche.
6
Il risultato che tenteremo di raggiungere noi con questa ricerca, sarà
invece quello di gettare luce sui modelli e i “frames” secondo cui le
Amministrazioni Pubbliche Locali stanno oggi reagendo a questo
“nuovo” fenomeno immigrazione, cercando così di individuare delle
possibili “buone pratiche” che possano costituire una valida linea
d’indirizzo per il futuro sviluppo amministrativo di una migliore
risposta italiana alla problematica.
In questo tentativo non affronteremo solamente il caso di una P.A.
Locale italiana tra le più sviluppate nel panorama amministrativo
nazionale – Bologna – ma lo studio verrà inoltre arricchito da un
confronto con un significativo caso europeo, il quale per indubbia
tradizione si è da sempre distinto come esempio multiculturale di
amministrazione di una comunità cittadina a tutti gli effetti
multietnica: Rotterdam.
Compareremo le due realtà analizzandole attraverso un modello che
abbiamo chiamato “Catena di Socializzazione”, il quale dovrà
assolvere alla funzione di “mappare” l’iter di un immigrato dal suo
ingresso nel paese ospitante, fino alla sua teorica integrazione
sociale. Inoltre ci avvarremo degli strumenti propri della “Teoria
dell’Organizzazione”, al fine di individuare i frames cognitivi, gli
assunti, i presupposti e gli schemi mentali che determinano le
specifiche strategie d’azione e i modelli d’intervento rilevabili nelle
due rispettive realtà. Infine, alla “cassetta degli attrezzi” che
utilizzeremo nella nostra indagine sono stati aggiunti, in funzione di
supporto, alcuni elementi della “Teoria delle Istituzioni”, così da
consentire la determinazione del grado di “istituzionalizzazione” dei
due processi d’integrazione e d’inserimento sociale che
analizzeremo nel corso della ricerca.
L’obiettivo che ci prefiggiamo quindi è quello di individuare due
procedure comparabili per poi comprenderne le norme che le
regolano e le attività che le caratterizzano.
Uno tale studio – considerando la “giovinezza” dell’emersione del
fenomeno immigrazione in Italia e alla luce della ben più
consistente tradizione d’emigrazione che ha caratterizzato la storia
dell’ultimo secolo della nostra penisola e la conseguente
inesperienza e molto spesso totale impreparazione delle
7
Amministrazioni Pubbliche Locali italiane, ma allo stesso tempo
anche del Governo Centrale – si colloca sicuramente in una
posizione di frontiera per quanto riguarda il panorama
amministrativo italiano. Esso potrebbe inoltre rivelarsi illuminante
nello stabilire nuove strategie d’intervento nella gestione del
fenomeno immigrazione, le quali si dimostrino in grado di avvalersi
contemporaneamente dell’esperienza di chi in Europa e nel mondo,
è per tradizione e storia nazionale più preparato di noi ad affrontare
le problematiche connesse a tale fenomeno, e allo stesso tempo
senza dimenticare di sviluppare e valorizzare quelle tipiche
peculiarità che – come la grande diffusione di organizzazioni
assistenziali religiose e di volontariato, che da sempre si sono
rivelate estremamente sensibili alle questioni sociali più critiche e
bisognose di aiuto, quali quelle di gran parte degli immigrati –
costituiscono un’importante componente distintiva del caso italiano
e una decisiva e strategica risorsa da ottimizzare.
La ricerca è stata divisa in sei capitoli.
Nel “Primo Capitolo” si è cercato prima di tutto di inquadrare il
“fenomeno immigrazione” da un punto di vista storico-evolutivo,
specificandone le origini lontane nel tempo fino ad arrivare agli
ultimi sviluppi dei processi migratori di cui oggi siamo testimoni.
In seguito si è proceduto ad introdurre la tematica
dell’“integrazione” in rapporto alle attività svolte dalle
Amministrazioni Pubbliche Locali, continuando successivamente a
definire e spiegare l’entità e la funzione specifica degli strumenti
organizzativi che verranno utilizzati nell’ultimo capitolo di questa
ricerca, cioè quello dedicato alla discussione e al confronto dei due
casi. Inoltre si è eseguita la costruzione del modello interpretativo al
quale abbiamo dato il nome di “Catena di Socializzazione” (dalla
“Catena del Valore”) e al quale abbiamo allegato una precisa analisi
del concetto di “Istituzionalizzazione” che verrà ripreso nell’esame
finale dei due sistemi organizzativi. Per quanto riguarda il modello,
esso svolgerà la funzione di matrice di confronto e costituirà la
schematizzazione teorica utilizzata nei capitoli empirici per
analizzare le due realtà oggetto di studio.
Infine, a conclusione di questa prima parte introduttiva e
8
propedeutica al nucleo centrale del nostro elaborato, è stata inserita
la metodologia di ricerca utilizzata nell’analisi dei casi. All’interno
di questo breve spazio abbiamo ripercorso le tappe principali della
nostra indagine ed abbiamo esposto un quadro delle fonti, dei
soggetti intervistati e degli esiti delle interviste ai funzionari
comunali che si sono in seguito rivelati determinanti per
l’organizzazione e i successivi sviluppi della ricerca.
Nel “Secondo Capitolo” si è proceduto a fornire un panorama
storico-politico delle dinamiche evolutive caratterizzanti il
fenomeno immigrazione nella realtà olandese prima, e poi in quella
specifica di Rotterdam. Ci siamo soffermati sulla grande tradizione
multietnica propria della società olandese e sui particolari sviluppi
politici che hanno orientato i successivi interventi amministrativi
rivolti alla gestione del fenomeno immigrazione. Perciò abbiamo
ripercorso le tre fasi delle “Immigration Policies” elaborate
dall’Olanda partendo dai primi anni ’70 fino ad oggi ed infine
abbiamo posto in evidenza le iniziative innovative organizzate dalla
città di Rotterdam, la quale rappresentando un esempio di
sperimentazione locale unico in tutto il paese, anticipò il Governo
Centrale nell’adottare modelli più adeguati e strutturati finalizzati
all’allestimento di una migliore gestione del fenomeno.
Il “Terzo Capitolo” consiste, invece, in una specifica analisi del
sistema organizzativo sviluppato dall’Amministrazione Comunale di
Rotterdam e mirato all’integrazione dei new-comers all’interno della
comunità ospitante. Esso è stato strutturato sulla base del modello
interpretativo elaborato nel capitolo introduttivo di questa ricerca,
ovvero la “Catena di Socializzazione”. Perciò risulta nettamente
diviso in cinque parti distinte – la cui appropriatezza è stata valutata
positivamente dai funzionari (intervistati) del Comune di Rotterdam
– che rappresentano cinque fasi specifiche attraverso le quali il
nuovo arrivato viene inserito, tramite un processo di “inburgeren
1
”
(integrazione), all’interno della società. Inoltre si è cercato di
individuare le problematiche rilevabili nel funzionamento del
sistema organizzato dall’Ente Locale ed infine si sono esposti i
progetti in via di sviluppo che l’Amministrazione Pubblica di
1
Vedi § 3.3. Capitolo Terzo.
9
Rotterdam sta allestendo o ha intenzione di implementare in un
prossimo futuro.
Il “Quarto Capitolo” rappresenta l’inizio di un’analisi storico-
politica riguardante l’altro oggetto della comparazione e si presenta
perciò speculare a quella già eseguita sul caso olandese e su quello
specifico di Rotterdam.
Quindi si è cominciato con l’esporre la breve ma intensa storia
dell’immigrazione diretta verso la penisola italiana, senza tuttavia
tralasciare di ricordare il ben più consistente passato d’emigrazione
che ha caratterizzato il nostro paese fino agli inizi degli anni ’70.
Lo stesso è stato fatto per quanto concerne l’Ente Locale di Bologna
e di seguito si è proceduto alla descrizione riguardante l’evoluzione
della questione immigrazione nell’ambito dello scenario politico
italiano, ripercorrendo i suoi sviluppi dalla Legge “Martelli” del ’90
fino alla Legge “Bossi-Fini” del 2002.
Infine, si sono analizzati gli specifici indirizzi politici adottati dal
Comune bolognese riguardo la questione immigrazione, si sono
evidenziate le problematiche principali sollevate dal crescente
aumento di extra-comunitari nella comunità cittadina ed è stato
proposto un confronto con il precedente servizio immigrati (ISI),
sostenuto dalla ormai decaduta giunta dal ’96 fino al ’99, anno
dell’ultimo avvicendamento politico che ha visto per la prima volta
– nel capoluogo emiliano – la formazione di un Consiglio Comunale
di “centro-destra”.
Nel “Quinto Capitolo”, riferito alla specifica municipalità di
Bologna, si è proceduto ad analizzare il “sistema” organizzativo
allestito dall’Ente Locale e finalizzato a fornire una risposta
integrativa ad un fenomeno immigrazione in costante aumento
anche nella realtà bolognese.
Appurata l’impossibilità di applicare al caso di Bologna – come già
fatto nell’analisi del caso di Rotterdam – il modello della “Catena di
Socializzazione”, a causa di una notevole destrutturazione del
sistema e della mancanza di un reale coordinamento delle varie
organizzazioni coinvolte nella risposta al fenomeno
2
, si è quindi
2
Una tale conclusione è stata raggiunta a seguito di alcune interviste rilasciateci dai funzionari del
Comune di Bologna che abbiamo appositamente contattato. Vedi § 1.4. Capitolo Primo.
10
provveduto ad esaminare le caratteristiche i rapporti e le attività
delle principali agenzie operative nel campo dell’immigrazione.
Oggetto di studio sono stati il “Servizio Immigrati Profughi e
Nomadi” del Comune di Bologna, il “Centro d’ascolto Immigrati
Caritas” e le due Associazioni Sindacali CISL e CIGL.
Infine, nel “Sesto Capitolo” si procede a discutere e a confrontare i
dati raccolti ed analizzati nei precedenti capitoli della ricerca. Al
fine di sviluppare un’adeguata comparazione sono stati utilizzati gli
strumenti organizzativi che verranno introdotti nel primo capitolo di
questo studio ed inoltre ci si è avvalsi del supporto tecnico della
“Teoria delle Istituzioni”, allo scopo di determinare il livello di
istituzionalizzazione dei due sistemi di organizzazioni esaminati.
Prima di tutto si è cominciato col porre in evidenza e confrontare le
principali problematiche rilevate nelle due distinte realtà.
Successivamente, si è proceduto a definire il campo semantico delle
due specifiche espressioni utilizzate rispettivamente nel caso di
Rotterdam e in quello di Bologna per riferirsi al comune soggetto
immigrato, e cioè “new-comer” ed “extra-comunitario”. Esse
sottendono i particolari presupposti, i frames cognitivi e gli schemi
mentali che costituiscono la visione sociale e culturale dello
“straniero” e si collocano alla base delle conseguenti risposte
organizzative rilevate nelle due distinte realtà.
Infine, è stata elaborata una comparazione strutturale tra i due
sistemi di organizzazioni, quindi abbiamo puntato i riflettori sulle
strategie d’azione, i processi e gli attori coinvolti nello sviluppo dei
programmi d’integrazione. Allo stesso tempo si è proceduto ad
effettuare un’analisi istituzionale basandosi sugli elementi teorici in
precedenza introdotti, così da poter determinare il grado di
strutturazione, regolamentazione e formalizzazione riscontrabile
nelle due realtà esaminate.
Concluderemo infine questo studio con una valutazione dei risultati
ottenuti dal confronto tra le due realtà e, pur consapevoli della
complessità dell’oggetto di studio, tenteremo di isolarne gli elementi
più significativi al fine di individuare delle linee guida, le quali
possano costituire almeno parte dei possibili sviluppi futuri della
“risposta d’integrazione” italiana al fenomeno immigrazione.
11
L’esperienza accumulata dal Comune di Rotterdam potrebbe infatti
rivelarsi molto utile per le nostre Amministrazioni Pubbliche,
benché si debba riconoscere l’impossibilità di sradicare e trasferire
in maniera integrale ed acritica un insieme di strategie e modelli
d’azione da una realtà ad un’altra estremamente differente.
Tale esperienza potrebbe permettere all’Amministrazione Pubblica
Locale di evitare errori già commessi in altre realtà e ancor più di
prevedere ed organizzare nel miglior modo possibile, probabili
scenari futuri per il Comune di Bologna, che ha da poco intrapreso il
difficile cammino verso l’internazionalizzazione ed il
multiculturalismo.
12
Capitolo Primo
LE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI E LE MODALITÀ
D’ANALISI ORGANIZZATIVA UTILIZZATE NELLA
RICERCA
1.1. L’emergere del fenomeno immigrazione
Parlare di “emersione” del fenomeno immigrazione potrebbe
risultare corretto nell’ambito di un’analisi storico-sociale limitata
all’età moderna e contemporanea – nella quale in primo luogo si
rileva l’esplosione di intensi flussi migratori verso i nuovi continenti
ed in secondo luogo verso quei paesi nei quali più rapida fu la
diffusione della rivoluzione industriale, cominciando con l’Europa
centrale e settentrionale per poi finire con quelli che erano stati i
tradizionali paesi di emigrazione dell’Europa meridionale
3
– ma allo
stesso tempo anche fuorviante, qualora ci si dovesse riferire allo
stesso fenomeno in termini più estesi e complessivi.
Infatti non avrebbe senso cercare di individuare un “punto
d’origine” dei flussi migratori, in quanto essi costituiscono da
sempre parte integrante della vita di tutti gli esseri umani, che prima
di organizzarsi in insediamenti stabili sul territorio, erano nomadi
che gestivano i loro spostamenti a seconda della dislocazione delle
risorse e del susseguirsi delle stagioni.
Secondo una delle più accreditate interpretazioni paleo-
antropologiche, in meno di 100 mila anni, la specie umana è riuscita
a popolare l’intero pianeta con la sola eccezione dell’Antartide: i
piccoli gruppi di cacciatori e raccoglitori apparsi circa 150 mila anni
fa nelle pianure dell’Africa orientale, hanno portato a termine
un’impresa che non trova riscontri in alcun animale non dipendente
dall’uomo (C. Bonifazi, 1999). Perciò, molto prima della
3
Solamente intorno agli anni ’70, in coincidenza con le prime limitazioni ai flussi in entrata istituite dalle
nazioni nord-europee, paesi di tradizionale emigrazione quali l’Italia, la Grecia, la Spagna e il Portogallo
si sono trasformati, più o meno consapevolmente, in paesi di immigrazione.
13
rivoluzione neolitica e della nascita dell’agricoltura e della
pastorizia, databile approssimativamente tra l’8000 e il 6500 avanti
Cristo, l’homo sapiens sapiens aveva già colonizzato ogni angolo
del globo terrestre.
La spinta alla mobilità territoriale e alla colonizzazione di nuovi
spazi va quindi considerata un elemento caratteristico della nostra
specie, la cui straordinaria riuscita dipende dalla capacità dell’uomo
di adattarsi socialmente e culturalmente ai nuovi ambienti,
annullando e superando, in tal modo, i limiti e le lentezze
dell’adattamento biologico a cui sono costrette le altre specie
animali (C. Bonifazi, 1999).
Allo stesso modo, anche la storia greca e quella romana non
risultano estranee ai fenomeni d’immigrazione, ma anzi si possono
considerare come comprese tra due grandi movimenti migratori:
quello avvenuto nella preistoria, che portò i popoli di lingua
indoeuropea nella penisola italica e in Grecia, e quello tardo antico
delle invasioni barbariche (M. Sordi, 1994).
In particolare, per ciò che riguarda la storia di Roma, sembra
interessante sottolineare come nella riflessione sulla propria origine,
essa abbia elaborato la “tesi mitica” di essere una commistione di
gruppi autoctoni ed immigrati
4
(Enea e i troiani) e come, questa
volta realmente, si siano rivelati determinanti e di cruciale
importanza i primi rapporti che la “città” instaurò con i vicini e più
sviluppati Etruschi, i quali, a seguito di studi storici ed archeologici,
sembra fossero presenti “come immigrati”, anche se non
necessariamente in gruppi numerosi, all’interno della comunità
romana esercitando un’influenza continua e proficua sulla cultura
locale (L.A. Foresti, 1994). I cambiamenti culturali furono in questo
caso inevitabili e l’elemento etrusco, dopo essere stato il propulsore
di un grande progresso, fu infine integrato ed assimilato dalla
“piccola Roma”, giustificando così con grande anticipo quello che
secoli dopo constaterà Cicerone: “il progresso si attua attraverso
l’“assimilazione
5
” e questa si verifica là dove gli stranieri vengono
integrati nel proprio sistema civico
6
” (L.A. Foresti, 1994).
4
Tesi comune anche ad altri popoli, quali i Galli e i Britanni (L.A. Foresti).
5
In questo caso, il termine non indica una prassi connotata normativamente che evoca politiche
repressive fondate su un pregiudizio di superiorità di una cultura sulle altre.
6
Cic. De Rep. II, 16, 30; 1, 2.
14
Il progresso delle tecniche produttive, l’aumentata capacità di
controllo e di modifica dell’ambiente e lo sviluppo di strutture
sociali sempre più complesse, arricchì di nuovi elementi la spinta
alla mobilità (C. Bonifazi, 1999). Le antiche forme di migrazione
tipiche dei nostri progenitori cominciarono ad evolversi con la
diffusione dell’agricoltura, con la nascita della pastorizia nomade,
con l’acquisizione delle capacità necessarie a costruire imbarcazioni
e a navigare, permettendo così anche la colonizzazione delle isole.
Le nuove scoperte e le nuove abilità sviluppate dall’uomo portarono
alla nascita delle prime civiltà basate su una vera e propria divisione
del lavoro – i grandi imperi dell’antichità – e l’estendersi dei traffici
commerciali per tutto il medioevo (C. Bonifazi, 1999).
Ogni progresso tecnologico e produttivo e ogni mutamento
dell’organizzazione sociale, ha contribuito in maniera determinante
a ridefinire il sempre dinamico quadro migratorio, provocando la
sparizione di alcuni flussi e creandone di nuovi, modificando i
presupposti del fenomeno, le sue cause, i suoi effetti e le sue
conseguenze.
Inoltre, la tipologia delle strutture economiche cominciò sempre più
a delinearsi come fattore determinante dei meccanismi interni al
sistema migratorio internazionale.
Infatti, grazie all’affermarsi in epoca moderna di un’economia di
mercato e del capitalismo, l’Europa assunse un ruolo politico-
economico predominante sulla scena mondiale. Questa lenta ma
determinante trasformazione delle strutture economiche, dei rapporti
sociali e delle relazioni tra aree geografiche, ha radicalmente
modificato gli assetti del sistema dei flussi migratori internazionali,
al cui centro si distinguono, per la prima volta, “un gruppo di paesi
tecnologicamente avanzati e culturalmente simili”.
I bisogni delle nuove colonie e le esigenze commerciali e produttive
dei paesi europei, furono quindi la causa scatenante dei primi flussi
migratori dall’Europa verso l’America, ove la richiesta di
manodopera si manteneva in continuo aumento (C. Bonifazi, 1999).
Per tutto il periodo precedente alla Prima Guerra Mondiale gli
immigrati europei dominarono il panorama delle correnti migratorie,
abbandonando in massa i propri paesi per rincorrere l’opportunità di
una vita migliore all’estero (D.S. Massey, 2002).
15
Si stima che, tra il 1846 e il 1924, almeno 48 milioni di europei, pari
al 12% della popolazione di tutto il continente nel 1900, abbiano
lasciato l’Europa diretti verso l’America settentrionale e
meridionale, l’Oceania, l’Africa meridionale e l’Asia centrale (C.
Bonifazi, 1999).
Tale emigrazione di massa ha avuto come origine le isole
britanniche e si è andata poi espandendo in concomitanza con la
diffusione dell’industrializzazione, percorrendo cinque distinte
direttrici corrispondenti a cinque “società di frontiera”, che all’epoca
stavano vivendo un rapido sviluppo economico: Stati Uniti, Canada,
Argentina, Brasile e Australia (D.S. Massey, 2002).
Ammesso che si possano tralasciare i 9.6 milioni di schiavi deportati
in America tra il 1450 e il 1870, sono compresi tra i 12 e i 37
milioni di individui, i cosiddetti “indentured workers” o “coolies”,
ovvero i “lavoratori a contratto” immigrati nel nuovo continente, le
cui condizioni spesso non erano troppo diverse da quelle
caratterizzanti la schiavitù (C. Bonifazi, 1999).
Inoltre si sottolinea come la tratta degli schiavi verso le piantagioni
e le miniere del nuovo mondo e l’immigrazione dei “lavoratori a
contratto” diretti nei possedimenti coloniali delle potenze europee,
rappresentino ancora oggi due delle più imponenti migrazioni della
storia dell’umanità (C. Bonifazi, 1999).
Tuttavia, i sentori di un’inversione di tendenza cominciarono a farsi
strada già allo scoppio del primo conflitto mondiale, dove alcuni dei
paesi europei manifestavano netti mutamenti nella propria bilancia
migratoria: i sistemi produttivi di Francia, Svizzera e Germania, da
creatori di eccedenza di lavoro si erano ormai trasformati in
utilizzatori di lavoro immigrato (C. Bonifazi, 1999).
Di conseguenza, sulla scia di questo processo evolutivo,
l’emigrazione di massa degli europei giunse sostanzialmente alla
fine con la grande depressione degli anni ’30 e le ostilità della
Seconda Guerra Mondiale non permisero la rinascita di significativi
flussi migratori internazionali durante tutti gli anni ’40 (D.S.
Massey, 2002).
Con la fine del secondo conflitto bellico, è tutta l’Europa centro-
settentrionale a divenire un’area d’immigrazione, mentre i paesi
dell’Europa meridionale continuavano a mantenere il ruolo di “paesi
16
d’emigrazione” e quelli della parte orientale del continente erano
costretti a rimanere circoscritti ed isolati dietro la cosiddetta “cortina
di ferro” e quindi esclusi dalle dinamiche migratorie internazionali
(C. Bonifazi, 1999).
Dopo il 1950, quindi, lo scenario dei flussi migratori internazionali
appare estremamente mutato, l’emersione di nuovi paesi d’origine e
di destinazione ha provocato una radicale ridefinizione degli assetti
del fenomeno immigrazione.
Il Canada e gli Stati Uniti d’America formano ora il centro di un
nuovo sistema nordamericano, che non attrae migranti dall’Europa,
ma bensì dall’Asia, dall’America Latina e dai paesi dei Carabi (D.S.
Massey, 2002).
All’interno di questo quadro, il continente europeo, da esportatore di
manodopera si scopre sempre più importatore di lavoro, all’interno
di un processo cominciato in Gran Bretagna e Germania subito dopo
la guerra e terminato, negli anni ’70-’80, in Spagna, Italia, Grecia e
Portogallo, sull’onda dei primi provvedimenti legislativi adottati
dagli allora “paesi d’immigrazione”, volti a ridurre i flussi in
ingresso e a favorire i rientri degli immigrati.
Nell’arco di un breve periodo le nazioni europee hanno dato origine
ad un sistema migratorio estremamente articolato, che già nel corso
degli anni ’90, collegava l’Europa occidentale con “paesi di
partenza” dell’Europa orientale, del Medio Oriente, dell’Africa e
dell’Asia (D.S. Massey, 2002).
Durante il periodo post-bellico, le economie europee hanno
conosciuto una rapida espansione sostanzialmente priva di
significative interruzioni e si sottolinea come l’immigrazione abbia
svolto un ruolo fondamentale a sostegno di tale crescita produttiva,
garantendo quella disponibilità di forza lavoro resa necessaria dai
vuoti lasciati dalla guerra e dalla bassa natalità, favorendo in molti
casi, anche la mobilità ascensionale dei lavoratori locali (C.
Bonifazi, 1999).
Negli ultimi venti anni il fenomeno migratorio ha subito profondi
cambiamenti decisamente influenzati dall’ingresso della società
mondiale in una nuova fase evolutiva, che gli studiosi chiamano
17
“post-industriale” o “post-fordista” o “toyotista”
7
, e che, con la
caduta del muro di Berlino e il tracollo dell’allora Unione Sovietica,
ha sancito il superamento dell’equilibrio bipolare stabilito nella
conferenza di Yalta, lasciando il posto ad un “nuovo ordine
mondiale” tuttora in fase di definizione (C. Bonifazi, 1999).
Cambiano le strategie di investimento, ove sono chiaramente
rilevabili tendenze crescenti volte ad esportare capitali dai paesi
sviluppati verso quelli in via di sviluppo, nei quali vengono create le
prime industrie manifatturiere. A ciò si aggiunge l’avvento della
rivoluzione microelettronica, che ha ridotto la necessità di lavoro
manuale nelle industrie; l’erosione delle tradizionali occupazioni
manuali qualificate; l’espansione del terziario, con una domanda
concentrata su lavori ad alta e a bassa qualificazione; la crescita dei
settori informali; la precarizzazione del lavoro, con l’aumento degli
impieghi part-time e dell’insicurezza delle condizioni lavorative ed
infine, la crescente differenziazione delle forze di lavoro lungo linee
di genere, età ed etnia (C. Bonifazi, 1999).
Questo insieme di fattori ha provocato una generale ridefinizione
della geografia delle migrazioni internazionali: nuove destinazioni si
sono aggiunte a quelle tradizionali, nuove aree d’esodo si sono
sovrapposte o, in alcuni casi, hanno sostituito le vecchie, nel quadro
della crescente globalizzazione dell’economia, che ha ridotto le
distanze tra diverse aree territoriali del mondo, rafforzando e
creando ex-novo una strutturata serie di legami economici e
migratori.
Dopo il 1973, la rapida accumulazione di capitale nei paesi del
Medio Oriente, ha prodotto massicci investimenti infrastrutturali,
tali da rendere necessaria l’importazione di ingenti quantità di
manodopera straniera. Nell’arco di pochi anni, gli stati del Golfo
Persico sono divenuti a tutti gli effetti dei paesi d’immigrazione,
costituendo il fulcro di un sistema migratorio internazionale che in
breve tempo ha esteso le proprie direttrici principali ben al di là
delle regioni d’emigrazione mediorientali, fino al subcontinente
7
L’anno che segna il grande cambiamento di atteggiamento dei paesi d’immigrazione nei confronti degli
stranieri è il 1973, indicato solitamente come lo spartiacque tra il periodo di sviluppo industriale
“fordista”, basato sulla grande impresa e la produzione di massa, e la fase “post-fordista” (“post-
industriale” o “toyotista”) delle società industriali (E. Pugliese, 2002).
18