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conoscenza o osservazione può essere considerata slegata dall‟occhio di chi guarda. I
fatti sono per l‟appunto “fatti” ovvero costruiti e considerati tali in base ad una certa
prospettiva e ad una specifica modalità di osservazione.
Per la fenomenologia la coscienza è intenzionale ovvero è la direzione che
l‟intenzionalità di un soggetto manifesta verso un oggetto o che viene richiamata
dall‟oggetto stesso. Il fenomeno osservato è per l‟appunto il crocevia, il punto di
incontro e il risultato fra un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto. La
fenomenologia ambisce all‟osservazione “pura”, non perché neutrale ma perché com-
presa all‟interno della sua inscindibile caratteristica di soggettività. In quanto soggetto,
esso non può essere tale senza e slegarsi dalla sua componente di soggettività.
Ma la coscienza è spesso anche e soprattutto coscienza di noi stessi, di ciò che siamo,
ovvero di ciò che pensiamo di essere secondo il modo in cui ci pensiamo e ci
apprestiamo, in quel momento, in quella situazione e anche in quella particolare
disposizione d‟animo, ad osservare noi stessi. Per questo motivo, essendo
potenzialmente infinite le prospettive che possiamo adottare, e potendo il nostro
pensiero, per sua stessa costituzione, essere capace di spingersi ogni volta un po‟ più in
là di dove è, e derivando la nostra immagine di noi anche dalle conferme o disconferme
che riceviamo dall‟ambiente esterno e dagli altri, ne deriva che quello che noi siamo e
possiamo essere può essere di volta in volta diverso, sempre nuovo eppure sempre se
stesso.
Se pensiamo dunque al fenomeno clinico delle personalità multiple secondo
quest‟ottica, anch‟esso può essere approcciato da diversi punti di vista e non risulta mai
lo stesso. Una molteplicità nello studio della molteplicità. E le stesse personalità
multiple, allora, possono davvero essere considerate un fenomeno patologico, se
pensiamo al fatto che noi stessi, le stesse persone normali, in fondo non sono mai le
stesse, e se ci accorgiamo che anche la personalità, e la stessa normalità, cambiano, e
non sono che, spesso, il risultato di una certa teoria, di un certo sguardo che già a priori
si è assunto, e che influenza ciò che guardiamo? Sguardo che a sua volta cambia esso
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stesso portandoci a vedere altro. Come inquadrare, se di inquadrare si tratta, le
personalità multiple, quando la stessa personalità non è che il risultato di un punto di
osservazione, ed è essa stessa, per sua natura, non solo un costrutto principalmente, ma
essa pure molteplice e quindi multipla?
In questo lavoro verrà ripercorso a grandi linee il percorso della coscienza come oggetto
di studio nella psicologia, come essa viene considerata dai principali approcci, e le
difficoltà che si incontrano ogni volta che si tenta di definirla.
Nella seconda parte, verranno trattati più approfonditamente i principi che costituiscono
l‟ambito di studi della fenomenologia, la sua storia e i principali autori che hanno
contribuito a questa particolare forma di pensiero, nonché come essa si allaccia al
problema e alla considerazione dell‟uomo e dell‟esistenza.
Nella terza ed ultima parte, partendo dal presupposto che la personalità fa capo ad un
individuo e che ogni individuo è nel mondo con una sua certa Weltamschauung, o
visione del mondo, e con un suo peculiare modo di essere-nel-mondo, che lo portano di
fatto a configurarsi un mondo diverso (tipici esempi in clinica sono il mondo maniacale,
schizofrenico, e malinconico), si tratterà della molteplicità dell‟esistenza, dei casi di
personalità multipla trattati in letteratura, e di come essi possano essere letti se
interpretiamo la vita e la stessa immagine di noi stessi come un qualcosa che noi
comunemente ci raffiguriamo e strutturiamo come un racconto, facendone un racconto,
ovvero secondo una modalità narrativa. Si parlerà della “differenza” fra Doppio e
Multipli e si tratterà della molteplicità dell‟esistenza attraverso un‟analisi della figura e
dell‟opera letteraria di Fernando Pessoa, mediante le categorie fenomenologiche di
analisi dell‟esistenza delineate da Binswanger: spazio, tempo, uomo, corpo e mondo.
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PARTE 1: COSCIENZA
CAP 1. COS‟E‟ LA COSCIENZA: TRA DEFINIZIONI E INCERTEZZE
La cosa più difficile da capire non è forse capire come la capiamo?
La cosa più sconcertante non è forse rendersi conto che è la coscienza a rendere possibili e perfino inevitabili le
nostre domande sulla coscienza? A.Damasio, Emozione e coscienza.
Dov‟è Io? Cosa percepisco quando percepisco?
E il mondo, è dentro o al di fuori dal mio sguardo?
Siamo consapevoli di noi e del mondo grazie al fatto che siamo coscienti. Ma che cos‟è
la coscienza? Facoltà, funzione, entità, esperienza, processo, prima di tutto è
quell‟indefinibile esperienza che mi permette di dire dove sono, che sono e che cosa
sono, e che c‟è qualcos‟altro intorno a me. Quel qualcos‟altro è l‟Io, il Mondo e
soprattutto l‟Essere nel Mondo, l‟Esserci di quell‟Io, (concetti primari, per la
fenomenologia) in quel Mondo.
Coscienza è dunque ciò che mi dice che c‟è ciò che c‟è.
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Lo studio della coscienza
L‟interesse per la coscienza, come per molti altri argomenti in ambito psicologico,
filosofico o scientifico, attraversa e ha attraversato, nel corso del tempo, fasi alterne di
studio e approfondimento ad altre di abbandono o trascuratezza, in cui diventava
questione di second‟ordine rispetto ad altre tematiche più gettonate.
Secondo Alberto Gaston i fattori legati a queste oscillazioni di interesse, sebbene non
siano stati particolarmente studiati, soprattutto da un punto di vista scientifico,
potrebbero essere legati a cambiamenti di mentalità nella popolazione, o a fattori extra
storici. “Sicuramente accanto o dietro a tutti i fenomeni che hanno a che fare con lo
studio della coscienza, vi sono aspetti che da un punto di vista culturale o psicologico o
simbolico, colpiscono la fantasia comune”(Ducci, Gaston, in Cotugno, Intreccialagli,
1995).
Inizialmente indagata dalla psicologia sperimentale le cui basi vennero gettate da
William James, la coscienza finì col perdere gradualmente il primato di focus dei
principali studi e ricerche nel corso del Novecento, probabilmente a causa delle enormi
difficoltà che essa presentava quando si trattava di doverla definire e spiegare. Ad essa
veniva generalmente tributato un omaggio altisonante in dizionari ed enciclopedie, ma
sempre meno spazio di fatto le venne riservato nei manuali e nei trattati che sorgevano a
testimoniare dei nuovi progressi teorici, clinici e di ricerca nell‟ambito delle scienze
psichiatriche e psicologiche.
“La coscienza è un fenomeno interessante e al tempo stesso elusivo: impossibile
specificare che cosa sia, che cosa faccia, e perché si evolse” (Sutherland, International
Dictionary of Psychology, 1989, cit. in Damasio, 2007).
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Se alla nascita della psicologia sperimentale le ricerche sulla coscienza erano
considerate del tutto legittime, nel periodo in cui i paradigmi di psicoanalisi e
comportamentismo dominarono nella prima metà del Novecento, da versanti opposti, la
ricerca psicologica, sembrarono invece venire a mancare sempre più i motivi per
occuparsi a fondo dell‟elusivo problema della coscienza, delle sue alterazioni e dei suoi
disturbi funzionali. Considerata dalla psicoanalisi come la piccola punta di iceberg
dell‟attività psichica, di cui la maggiore e più interessante parte restava comunque
sommersa nel mondo dell‟inconscio, e dal comportamentismo come realtà psichica
impossibile da definire e da isolare per poterla studiare sperimentalmente, e perciò
epifenomeno ininfluente della condotta osservabile, bandite di fatto dalla psicologia
sperimentale le ricerche sulla coscienza e sulla mente, da qualunque angolatura ci si
avvicinasse all‟edificio in costruzione delle moderne scienze della mente, la coscienza
appariva sempre più come una sorta di moderna Cenerentola, relegata in un angusto
angolino. L‟unica eccezione fu forse rappresentata negli anni Cinquanta dal “new look”,
un approccio che affrontò direttamente il problema della coscienza nella percezione e
nell‟apprendimento, ma che ebbe breve durata e fu accantonato a causa di gravi e
apparentemente insormontabili problemi metodologici. Nonostante tali difficoltà
valsero al “new look” un diffuso discredito, esso però lasciò una traccia che è possibile
individuare nei precursori della moderna psicologia e neuropsicologia cognitiviste.
A partire dagli anni Sessanta, il panorama cominciò a cambiare. Con la rivoluzione
cognitivista che si impose con forza nel panorama psicologico, il cognitivismo si diffuse
come nuovo paradigma psicologico aprendo nuovi ambiti di studi e scalzando il
comportamentismo dal podio di predominante paradigma di ricerca. Parallelamente,
l‟emergente neuropsicologia andava identificando procedure e metodi sempre più
efficaci per indagare i fondamenti dell‟attività cosciente. L‟epistemologia
evoluzionistica e l‟etologia, inoltre, cominciando ad indagare in che modo e con quali
funzioni si fosse sviluppata la coscienza nel corso dell‟evoluzione della vita animale,
fornirono una preziosa cornice concettuale generale alle nuove ricerche
neuropsicologiche e cognitiviste sull‟argomento, e la combinata visione della mente
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offerta dall‟epistemologia evoluzionistica, dal cognitivismo teorico e sperimentale e
dalla neurobiologia aprì nuove prospettive alla già millenaria indagine filosofica
occidentale sulla coscienza.
Questi fattori, unitamente alla ricerca sperimentale legata a metodi più vicini a quelli
della clinica e al recupero dell‟ipnosi come metodo di ricerca oltre che di intervento
terapeutico negli anni Settanta e, negli anni Ottanta, l‟attenzione della nosografia
psichiatrica, pressata dalla sempre più frequente osservazione di casi di personalità
multipla nell‟America Settentrionale, verso le patologie contrassegnate da disturbi della
facoltà integratrice della coscienza, suggerirono nuove angolature da cui guardare ai
rapporti tra attività mentali consce ed inconsce, e contribuirono a un riaccendersi
dell‟interesse nei confronti della coscienza a cui si assiste ormai da qualche decennio
(Cotugno, Intreccialagli, 1995).
Proprio negli anni Ottanta, infatti, vennero descritte numerose sindromi
neuropsicologiche per l‟interpretazione delle quali non si poteva prescindere dai
concetti di coscienza e inconscio.
Per una definizione di coscienza
Ma che cos‟è la coscienza, e cosa si intende comunemente con questo termine?
Afferma William James nei suoi “Principles of Psychology” che la coscienza “è
qualcosa che crediamo di conoscere fino a che qualcuno non ci chiede di definirla (W.
James, Principle of Psychology, cit. in ibidem).
Runes, nel suo Dizionario di filosofia a pagina 126, scrive: “ „Coscienza‟ è in genere
considerato un termine non definibile (…). Noi stessi possiamo essere pienamente
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consapevoli, ma non possiamo, senza confusione, trasmettere ad altri una definizione di
ciò che noi stessi apprendiamo chiaramente. Il motivo è chiaro: la coscienza sta alla
radice di tutta la conoscenza” (Runes, Dizionario di filosofia, 1972, p. 126).
La coscienza, dunque, sembra costituirsi come processo intrinsecamente non definibile.
Essa partecipa dell‟inquietante natura del “non-finito”, di ciò che il linguaggio e il
pensiero umano non riescono a circoscrivere nei limiti di una definizione.
“La prima accezione in senso moderno del termine venne introdotta da G.W.Leibniz,
che distingueva delle petite perceptions, cioè somme di stimoli subliminali, da
l‟aperception, una sorta di consapevolezza della propria sensibilità attraverso cui le
percezioni giungerebbero a livello cosciente. Questa distinzione conteneva l‟ipotesi di
una soglia sensitiva suscettibile di sperimentazione psicofisica, e la separazione tra
contenuti psichici avvertiti coscientemente e contenuti preconsci. Nel concetto di
aperception è implicita una consapevolezza della propria sensibilità che Wernicke
localizzava come un “organo” nella corteccia cerebrale. Wilhelm Wundt si espresse
contro questa impostazione, che faceva della coscienza un‟entità a sé, affermando che se
la coscienza consisteva nel constatare in sé certi stati o fenomeni, non era possibile in
alcun modo separarla da questi stessi processi interiori, e che essendo per definizione la
coscienza premessa di ogni esperienza interiore, essa non poteva riconoscere
immediatamente l‟esistenza di se stessa” (Galimberti, 2003, p.234).
Il concetto di coscienza si è evoluto parallelamente allo sviluppo della filosofia, della
psicologia e della neurofisiologia e presenta diversi risvolti a seconda che lo si approcci
secondo un‟ottica filosofica, psicologica, o neurofisiologica. A seconda dell‟approccio
prescelto, di volta in volta vengono messi in evidenza gli aspetti soggettivi,
comportamentali, o fisiologici, da cui risulta che le varie discipline che si accostano al
problema della coscienza non possono che farlo da prospettive diverse e parziali.
Nell‟idea di coscienza prevalente nel mondo occidentale contemporaneo è implicita la
nozione di “stato” (più che di processo), assolutamente privato, una “cosa che avviene
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nella testa”. Per ogni individuo la sua coscienza è un dato, mentre quella degli altri
implica un‟estrapolazione induttiva (ibidem).
Se possiamo considerare la coscienza come facente parte di quell‟ancora più ampio
mistero che è la mente, possiamo anche dire che non c‟è dubbio sul fatto che la maggior
parte delle persone sentano la loro mente come più importante del proprio corpo. Le
persone possono aver paura di perdere un arto in un incidente, ma lo preferirebbero
comunque rispetto alla perdita della coscienza. Una persona in coma irreversibile è
considerata tecnicamente morta anche se il suo corpo è ancora vivo. Non si fa molto
caso al trapianto di un organo, perfino del cuore; ma ci si oppone al trapianto di
cervello: la maggior parte delle persone interpreterebbe un trapianto di cuore su di sé
come “qualcuno mi sta donando il suo cuore”; ma interpreterebbe un trapianto di
cervello come “sto dando il mio corpo a qualcun altro”. La mente sembra essere molto
più importante del corpo. Riusciamo a immaginarci un futuro in cui la mente esisterà
senza il corpo, ma non un futuro in cui saremmo contenti di essere corpi senza menti. È
più facile identificarci con le nostre menti che non con i nostri corpi, fino al punto che
noi dichiariamo "morto" qualcuno il cui corpo è vivo, ma la cui mente non lo è. C‟è
stato un veloce progresso verso la rivoluzione di questo assunto: la mente ha lentamente
superato il corpo e adesso noi pensiamo a un individuo come la sua mente (mentre
invece noi continuiamo a pensare a un cane come al suo corpo senza occuparci del fatto
che abbia una mente o meno). Eppure, noi possiamo sapere di “avere” una mente o di
“essere” la nostra mente proprio grazie al fatto che ne siamo coscienti. Senza la
coscienza non sapremmo minimamente chi siamo, cosa siamo e neppure che siamo.
Senza la coscienza non saremmo consapevoli nemmeno del mondo che ci circonda e
senza questa capacità non sapremmo muoverci nel mondo, agire, vivere. La coscienza,
allora, sembrerebbe il presupposto affinchè ci possa essere un qualche flatus vitale in
noi stessi, affinchè possiamo esistere nel mondo, e in esso vivere. Senza uno sguardo,
infatti, una capacità d‟ascolto, senza il riconoscimento di qualcosa che si muove in noi e
attorno a noi come potrebbe l‟uomo vivere?
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L‟altra domanda a cui risulta difficile rispondere è: dov‟è la coscienza? Dov‟è situata? È
davvero dentro la testa? Corrisponde ad un organo nella corteccia come sosteneva
Wernicke e la neurobiologia deve allora prefissarsi di “scovarla” con indagini sempre
più sofisticate? È al contrario un sentimento, ma allora da cosa risulta? Un incidente di
percorso evoluzionistico? O forse scaturisce dalla relazione dell‟uomo col suo mondo?
Liotti ritiene che la coscienza non sia della persona o nella persona, ma riguardi la
persona, che sia in altre parole un‟entità intrinsecamente relazionale: non è una
proprietà del cervello o dell‟individuo isolato né di un qualsiasi sistema di
autoconoscenza chiuso in se stesso (Liotti, 2000).
Metafore comuni della coscienza la rappresentano come un campo o uno spazio,
mutevole come la volta celeste e come questa illuminato più o meno chiaramente da cui
entrano ed escono vari contenuti mentali, percezioni, ricordi, emozioni. Se non si bada
alla natura metaforica di tali immagini, però, come indica Ryle, il rischio che si corre è
di identificare con la propria volta cranica la “volta celeste” che contiene la mutevole
“luce” della coscienza. (cit. in Liotti, ibidem). Uno degli argomenti con cui Ryle critica
la metafora della coscienza come “cosa che avviene nella testa” è l‟ipotesi di Jaynes
(ibidem), sull‟origine storica del concetto di coscienza interiorizzata. “Nel mondo
antico, sosteneva Jaynes, all‟idea contemporanea di „cose che avvengono nella testa‟, si
sostituiva, ad ogni mutamento importante dello stato di coscienza, l‟esperienza (che
oggi chiameremmo allucinatoria ma che tale non era allora, rispetto alla concezione
della coscienza come realtà non interiorizzata), di incontri fra l‟uomo ed entità spirituali
concepite come esistenti al di fuori di lui. Solo ad un certo punto della storia umana
si è affermato il concetto che alcune esperienze, chiamate appunto allucinatorie, si
verificano „nella testa‟ e che i concomitanti mutamenti nello stato di coscienza
siano mutamenti che hanno luogo „nella testa‟ anziché nella relazione fra
l‟individuo e il mondo” (Liotti, 2000).
Classica è la distinzione fra “stati” e “contenuti” di coscienza, per cui la coscienza
sarebbe un processo (flusso della coscienza, stream of consciousness) che nel suo
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divenire temporale passa alternativamente da uno stato all‟altro, e in questi suoi stati ha
dei contenuti di volta in volta diversi. Intuitivamente e apparentemente, il flusso della
coscienza si presenta come un processo continuo. Le informazioni sul mondo esterno di
cui siamo coscienti, e che i nostri organi di senso registrano continuamente ci si
presentano infatti come un quadro unitario e completo, vengono continuamente poste in
relazione, o integrate, con la percezione del nostro stesso corpo, con i nostri ricordi, con
i sentimenti che proviamo, con i pensieri che formuliamo, con le decisioni che
prendiamo. La coscienza tende a unificare in uno svolgimento temporale ininterrotto i
frammenti di esperienza di cui sono composte le nostre vite, e questo rivela la stretta
connessione della coscienza con la memoria (Liotti, 2000).
Approcci psicologici al problema della coscienza
Antonio Damasio paragona la coscienza al momento di apertura di un palcoscenico,
quando il sipario si alza e il pubblico si trova di fronte l‟artista, e l‟artista dinnanzi alle
luci e alla presenza del pubblico. Questo momento di passaggio segnerebbe l‟inizio
verso la nascita di un qualcosa, attraverso “una soglia che separa un rifugio protetto ma
limitante, dalla possibilità di un mondo che sta oltre” (Damasio, 2007, p. 15). La
coscienza sarebbe dunque come un‟entrare nella luce, e metafora “della mente che
conosce, del comparire, semplice eppur grave, del senso del sé e del mondo materiale
(…), la transizione da uno stato di candore e ignoranza allo stato in cui si è capaci di
conoscere e si ha un senso di sé (…)”(ibidem).
La coscienza sarebbe “la prima autorizzazione a conoscere tutto della fame, della sete,
del sesso, delle lacrime, delle risa, del flusso di immagini che chiamiamo pensiero, dei
sentimenti, delle parole, delle credenze, della felicità, dell‟estasi. Al livello più semplice
e fondamentale, la coscienza, ci fa riconoscere la spinta irresistibile a rimanere in vita e
a prendersi cura di sé stessi. Al livello più complesso ed elaborato, ci aiuta a sviluppare
un interesse per altri sé e a perfezionare l‟arte della vita” (ibidem, p. 17).