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Introduzione
Il presente lavoro si compone di due macro-sezioni, che affrontano da prospettive diverse il
tema del debito pubblico italiano. L’argomento è sempre d’attualità; l’Italia ha il secondo
rapporto debito/PIL più alto d’Europa, dietro solamente alla Grecia. Inoltre il debito italiano
è l’unico rimasto al di sopra del 60% per ben 111 anni, e attorno al 100% per quasi 60 anni
di storia unitaria. Il primo capitolo si ispira al libro “Il conto degli errori: Stato e debito
pubblico in Italia” (2015) di Leonida Tedoldi, che affronta la storia del debito italiano dagli
anni ’70 ai primi anni del nuovo millennio. Da un lato, si analizzano le variabili prettamente
numeriche, economiche, alla base della formazione del debito, viste nella loro successione
temporale. Dall’altro, si ripercorrono anche le vicende politiche e sociali del periodo storico
preso in considerazione; in particolare, si vaglia il ruolo avuto dalle istituzioni politiche, e
più in generale dal rapporto tra Stato e società, nella genesi della montagna del debito
pubblico. Si vedrà che effettivamente ci sono state responsabilità politiche evidenti, in parte
connesse alle caratteristiche intrinseche del sistema politico dell’epoca, di tipo “bloccato”.
In ogni caso più che di incapacità della classe politica della cosiddetta prima repubblica, ciò
che emerge è che il debito politico è in parte frutto di scelte politiche ben precise. In questo
primo capitolo, i tre paragrafi sono dedicati rispettivamente agli anni ’70, agli anni ’80, e al
periodo tra gli anni ’90 e i primi anni 2000. La ratio di questa suddivisione non è però
solamente cronologica: ognuno di questi periodi ha avuto peculiarità politiche, economiche,
e sociali, che lo differenziano dagli altri.
Nella seconda parte dell’elaborato si sposta l’attenzione sul debito ai giorni nostri. Si tenta
innanzitutto di spiegare perché un debito elevato possa costituire un elemento di criticità per
uno Stato. Successivamente si analizzano due strade percorribili per ridurre l’indebitamento
pubblico, soprattutto considerandolo in relazione al PIL. Infatti, pur essendo un indicatore
forse in parte superato e alquanto grossolano
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, il rapporto debito/PIL permette di confrontare
un debito con la capacità del debitore di rimborsarlo. Si prendono in considerazione due
possibili approcci che rispondono a logiche di intervento differenti. Il primo, quello delle
privatizzazioni, si basa sulla logica dello stock, nella fattispecie sull’abbattimento dello stock
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Florio (2013) e Tedoldi (2015)
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di debito per conseguire risparmi sugli oneri per interessi. Lo strumento delle privatizzazioni
sarà trattato prendendo in considerazione dapprima la discussione recente sul suo utilizzo e
l’attuale piano di privatizzazioni in Italia. In seguito si analizzeranno i possibili benefici,
raccogliendo i risultati della letteratura sulle privatizzazioni degli anni ’90, e il costo
opportunità delle privatizzazioni. Infine si simulerà il possibile impatto di una massiccia
dismissione di asset pubblici su debito e spesa per interessi.
Il secondo approccio di riduzione del rapporto debito/PIL si basa invece sulla strategia dei
flussi, e quindi sugli interventi volti a contenere il deficit e a stimolare l’economia, in modo
tale che il debito cresca meno velocemente del PIL e il rapporto decresca. Dal momento che
sul versante della spesa pubblica i margini per una compressione consistente risultano esigui
(a differenza di quelli per una sua riqualificazione complessiva), ci si sofferma sulla
tassazione. In particolare, visto che le tasse in Italia sono già elevate e non è possibile
procedere ad un ulteriore innalzamento del prelievo, si prendono in considerazione le
opportunità derivanti da un parziale ma robusto recupero dell’evasione fiscale, dopo avere
passato in rassegna i fattori che possono incentivarla. I dati di questa sezione sono ricavati
dal recente rapporto del Centro Studi Confindustria sul tema. A conclusione del lavoro si
tratta anche l’argomento della ripartizione del carico fiscale in Italia. La proposta è di
spostarlo dai fattori produttivi, in particolare dal lavoro, ai patrimoni, soprattutto quelli
finanziari, che in Italia sono molto corposi. Così facendo a parità di gettito si potrebbe
incentivare la crescita economica, oltre che redistribuire la ricchezza.
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Capitolo 1 Cause ed evoluzione del debito pubblico italiano
1.1 Anni ‘70
Nel decennio precedente (1960 – 69) l’espansione della spesa pubblica in rapporto al PIL
era stata relativamente moderata; anche l’andamento dell’economia era stato ampiamente
positivo, con un PIL che crebbe mediamente del 5.6%
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. Inoltre il debito pubblico era ancora
ad un livello accettabile, attorno al 40% nel 1969 dopo aver toccato il minimo storico dal
dopoguerra nel 1963 (32.6%). Di conseguenza, anche la spesa per interessi aveva un peso
ancora trascurabile, attestandosi a meno del 2% del PIL
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.
Gli anni ’70 segnarono un punto di rottura rispetto al recente passato; essi furono
caratterizzati dalle crisi petrolifere (1973 e 1979), dall’elevata inflazione, dalla svalutazione
della lira, e dal generale rallentamento della crescita del PIL
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. In generale nella decade si
assistette ad instabilità economica e conflitti sociali, sulla scia di quelli di fine anni ’60.
A livello di politica economica, in questo periodo la spesa in deficit divenne quasi una prassi;
ciò si riflesse in un disavanzo che nel 1975 raggiunse l’11%, mentre il debito, negli anni tra
il 1970 e il 1975, crebbe di circa il 20%. Questo ripudio della politica dei bilanci in pareggio
è da addebitarsi probabilmente alla concezione, da parte delle forze parlamentari,
dell’espansione della spesa come strumento finalizzato al consenso in una fase, come già
detto, di aspri conflitti sociali. Segnatamente, lo schieramento di stampo laico-socialista non
era disponibile ad impegnarsi per ridurre il disavanzo, mentre la componente centrista era
restia ad intervenire sul lato delle entrate. Di fatto, si scelse di privilegiare la generazione
corrente, a scapito di quelle successive.
Nell’ambito della gestione dell’indebitamento, costituì un’importante cambiamento la
decisione della Banca d’Italia di partecipare direttamente alle aste dei titoli di Stato, ponendo
fine alla politica monetaria restrittiva del periodo precedente. Nel 1971, in seguito a questa
scelta, la banca centrale acquistò circa un quarto dei titoli posti sul mercato. In un’ottica più
generale, bisogna notare come fino ai primi anni del decennio solo un terzo circa del debito
era finanziato con emissione di titoli, mentre la restante parte era coperta da creazione di
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Occorre sottolineare che, in caso di crescita economica sostenuta, un aumento della spesa pur contenuto in
termini percentuali implica un incremento reale notevole (Cerniglia 2005, p. 15).
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Avrebbe raggiunto il 5% circa già nel 1978 (Cerniglia 2005, p. 17).
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Esso crebbe ad un tasso medio 3.6%, circa due punti in meno del decennio precedente. (Travaglini 2008, p.5).
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base monetaria; questo ovviamente limitò l’impatto dei disavanzi sul debito stesso, ma
aggravò il processo inflazionistico (Bartoletto, Chiarini, Marzano, 2013). Inoltre, circa il
90% del debito pubblico era in mano a soggetti italiani.
Nel 1971 la copertura tributaria della spesa pubblica scese al di sotto del 50%, un primo
campanello d’allarme sottolineato anche dall’allora governatore della banca centrale, Guido
Carli; parallelamente suscitava una crescente attenzione la questione dell’evasione fiscale.
Il tema del debito non era ancora presente nel dibattito politico; in questo senso, era in
controtendenza un intervento nel 1972 dell’esponente comunista Raffaelli, il quale segnalava
il sempre maggiore utilizzo distorsivo della spesa
5
. Per quanto riguarda l’esecutivo, mentre
il governo Rumor si era occupato solo marginalmente di questioni economiche, il governo
Colombo si rese protagonista di un notevole decisionismo in quest’ambito, che spaziò
dall’aggiustamento del sistema tributario al risanamento di enti mutualistici, passando per
l’elaborazione di piani di programmazione economica
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. Nonostante ciò, le crescenti esigenze
di spesa, cui non ci si oppose grazie anche all’elevata inflazione, che consentiva allo Stato
di indebitarsi a costi reali bassi, se non negativi, spinsero il debito pubblico ad un livello di
poco inferiore al 50% del PIL già nel 1972.
Nel 1973, in pieno shock petrolifero, il governo Andreotti II decretò l’uscita dell’Italia dal
cosiddetto serpente monetario
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. Si rafforzava così un modello di politica economica
caratterizzato da svalutazione della moneta, basso costo del denaro, e quindi alta inflazione
e indicizzazione dei salari ad essa. Inoltre si confermava l’impegno, assai rilevante, della
Banca d’Italia all’acquisto dei titoli di Stato rimasti invenduti alle aste. In quegli anni si
assistette a trasformazioni sociali, e alle crescenti aspettative dei cittadini nei confronti dello
Stato, soprattutto per quanto concerneva la condizione lavorativa. Queste trasformazioni
incisero profondamente sul rapporto tra Stato e società, soprattutto nel senso di una
predisposizione delle forze politiche a soddisfare le richieste sociali per ottenere il consenso.
Tutto ciò si rifletteva nei processi decisionali dei legislatori, contraddistinti da
corporativismo, spontaneismo e frammentarismo, e cioè in una produzione legislativa
composta da interventi micro settoriali e non da disegni organici, di carattere generale.
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Lo Stato aveva concesso, indebitandosi, aiuti economici a imprese petrolifere in difficoltà, a tassi poco
vantaggiosi.
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Molte misure erano contenute nel cosiddetto “decretone”, elaborato dal ministro Antonio Giolitti.
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Per “Serpente Monetario” si intende l’accordo, concluso nel 1972, che istituiva i margini di oscillazione delle
monete europee fra di loro; precede di qualche anno lo SME. (Borsaitaliana.it).