Il principio Responsabilità di Hans Jonas. Il confronto di H.J. con la scienza
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che ci accoglie ossia del presupposto, della condizione necessaria affinché sia
garantita la vita nella sua continuazione futura.
Oggetto della seguente tesi è l'analisi del principio responsabilità di Hans Jonas.
Il principio, secondo l'autore, costituisce l'unica possibile alternativa
all'utopia del principio speranza di Ernst Bloch, nel dibattito morale
contemporaneo. Ma, in questa sede, non si prenderà ad oggetto il confronto
tra i due principi, a cui occorrerebbe dedicare uno studio a parte. L'analisi dei
testi più importanti, scritti da Jonas nell'ultima fase del suo pensiero, metterà
in evidenza come l'elaborazione del principio è stata frutto di molte
riflessioni, per cui, la natura del principio, la sua fondazione, e la sua
definizione, sfuggono alla logica degli interventi occasionali ed estemporanei
che si succedono, oggi, nel corso del dibattito. Il principio responsabilità si
pone, nel momento attuale, come il tentativo serio e concreto di rispondere
al bisogno di un'etica per la civiltà tecnologica. Il bisogno di questa etica
nasce dalle contraddizioni che sorgono dal nostro rapporto con la
tecnologia, dalla fiducia che l'uomo ripone in questa, e dall'idea di progresso
che costituisce il motore immobile dell'avanzamento scientifico -
tecnologico. Ma, soprattutto, il vero pericolo che minaccia il futuro
dell'uomo proviene dal sapere scientifico, o meglio dallo scetticismo a cui
essa conduce. Il vero tallone d'Achille dell'uomo contemporaneo è senza
dubbio il suo credo incrollabile nella scienza, la fede indiscussa nel metodo e
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nell'indagine razionale. Alla fiducia nelle possibilità della scienza che portano
ad applicazioni sempre più meravigliose e utili, Jonas contrappone il ritorno
alla frugalità nell'economia della terra, e ancora di più il rispetto per la natura,
in cui Jonas riconosce la presenza degli scopi. Che dalla natura provenga il
"dover essere" dell'uomo è l'idea principale della fondazione del principio
responsabilità, e a suffragio di questa idea Jonas porta numerosissime e
originali idee. Da questo nucleo principale si sviluppa l'etica della
responsabilità che ha l'obiettivo di ristabilire il giusto rapporto tra l'uomo e
sé stesso, tra l'uomo e la natura, rapporto che il punto di vista della scienza
ha interpretato in maniera univoca. Soprattutto nella discussione della
bioetica l'uomo è chiamato a fare delle scelte importanti, da cui dipenderà il
suo futuro, e il principio responsabilità, qui, vale soprattutto come appello
per gli scienziati, affinché tengano presente nel loro lavoro anche la dignità
degli uomini che verranno. È nella concezione scientifica della natura che si
vuole individuare una delle ragioni più importanti dello squilibrio della
nostra epoca, e di seguito si cercherà nella posizione, nel pensiero di Jonas,
un antagonista valido che possa riportare l'equilibrio nel rapporto dell'uomo
con sé stesso e con la natura.
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Cap. I
Dell'etica per la civiltà tecnologica
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1.1 La techne e il ruolo del sapere nell'etica del passato
Nell'antichità, la "techne" non era suscettibile di giudizio etico come ogni
abilità manuale o arte in genere, eccetto la medicina. Essa nell'antica Grecia
si accompagnava spesso ad "episteme" e queste due parole designavano il
conoscere in senso ampio, l'intendersene di qualcosa
1
. Ma la "techne" in
quanto agire umano sta a significare anche "produzione" di un oggetto che
prima non esisteva. Questa produzione non intaccava la natura, e non ne
sovvertiva le leggi. Conseguentemente, non sorgevano questioni sulla
possibile minaccia all'integrità dell'ordine naturale. La tecnica era un
misurato tributo alla necessità. La "techne", riassumendo, si esplicava nei
momenti dell'invenzione, della fabbricazione, e dell'uso, come del ricorrente
perfezionamento degli strumenti e dei prodotti e del loro inserimento
nell'arsenale esistente. L'ideazione e poi la produzione degli oggetti era
teleologicamente proiettata al conseguimento di un fine ben preciso, ossia il
rapporto mezzo-scopo era lineare, immediato e congruo.
Se nel passato l'etica non riguardava la "techne" in questo senso, è vero che
essa ineriva ad ogni agire che mette in relazione l'uomo con il proprio simile
oppure con se stesso. L'etica era antropocentrica. Il fine di ogni agire buono
o malvagio si manifestava immediatamente nella prassi e non era oggetto di
1
M.HEIDEGGER, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, tr. It a cura Di
G.Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 10.
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pianificazione a distanza. L'etica aveva a che fare con il "qui" e con l' "ora".
Il raggio d'azione era ristretto, e comprendeva le tipiche situazioni che
ricorrevano nella vita privata e pubblica
2
, e il tempo per la previsione, per
stabilire i fini o per attribuire responsabilità, era breve. Il sapere che era
necessario per compiere un'azione morale non era un sapere esoterico,
esclusivo.
Era un sapere a cui ogni uomo poteva accedere. Aristotele nell'Etica
Nicomachea dice " mentre per il possesso delle virtù il sapere vale poco o
nulla, le altre condizioni non poco ma tutto possono, se è vero che è dal
compiere spesso azioni giuste e temperate che deriva il possesso delle virtù
corrispondenti"
3
. In altre parole, il sapere necessario per l'agire morale è un
sapere pragmatico e ateoretico, il quale implica un concetto generale del
bene umano, riferito a una teoria di quelle che sono le presunte costanti della
natura e della condizione umana. Di conseguenza, il bene e il male
dell'azione è completamente stabilito all'interno di questo breve termine. La
conoscenza della virtù (del dove, del come, in rapporto a chi, del quando)
resta ancorata all'immediatezza nel cui ambito comincia e finisce l'azione. La
paternità è indiscutibile e nessuno viene ritenuto responsabile per gli effetti
2
H. JONAS, Il principio responsabilità, tr. It. Di P.Rinaudo, Einaudi, Torino 1990, p. 8.
3
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Rusconi libri, Milano 1993,
4-5 1105b 5.
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non desiderati della sua azione ponderata e ben eseguita
4
.
1.2 Gli effetti della tecnica moderna
La tecnica moderna richiede un discorso a parte. Essa, infatti, nell'ottica del
progresso dell'umanità viene rinvigorita continuamente da nuove categorie,
nuovi oggetti e nuove azioni, al fine di garantire all'uomo una vita sempre
migliore. Gli effetti e le dimensioni di queste nuove azioni non rientrano più
nell'ordine di idee dell'etica come da sempre la si è intesa. L'esempio più
clamoroso di questa non adesione è la vulnerabilità critica della natura verso
l'intervento tecnologico dell'uomo
5
.
I caratteri della prossimità e della contemporaneità di ogni agire umano sono
stati messi da parte dalla "irreversibilità" degli effetti della prassi tecnica.
Pensiamo in particolare a equilibri naturali che si sono mantenuti intatti per
millenni e che ora l'uomo mette a rischio. Addirittura, adesso è l'intera
biosfera uno dei nuovi oggetti di cui dobbiamo essere responsabili, un
oggetto, per la sua vastità, che era impensato potesse subire gli effetti del
fare dell'uomo. Questa straordinaria novità impone delle riflessioni di natura
etica. L'uomo con l'ausilio della tecnologia moderna ha concretizzato la
possibilità di un dominio incontrastato sulla natura e adesso è la natura
stessa nella sua condizione di precarietà che ci richiama all'obbligo morale
4
H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., p. 9.
5
Ivi, p. 10.
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della sua salvaguardia. Un nuovo fattore è costituito poi dal carattere
"cumulativo": ossia dall'addizionarsi degli effetti risulta che le azioni e le
decisioni dei soggetti che vengono dopo sono condizionate dal progressivo
deterioramento dell'ambiente circostante. In questo contesto il ruolo del
sapere e dell'esperienza vengono meno.
L'insegnamento della morale si è sempre avvalso di esempi o modelli tipici e
parabole per indirizzare la condotta umana verso la virtù, ma sempre nella
consapevolezza che le condizioni iniziali dell'azione si ripeteranno. Invece
l'autoriproduzione cumulativa del cambiamento tecnologico del mondo
6
porta l'uomo davanti a situazioni mai prima vissute. La capacità di arrecare
danni consistenti alla natura è ormai cosa accertata e ha portato all'emergere
dei movimenti ambientalisti, sottraendo la scienza ecologica dalla nicchia
nella quale era stata relegata dalla biologia ottocentesca. Ma siamo
responsabili per la natura ? Ai fini di una teoria etica è indispensabile pensare
alla natura e alla altre creature non umane in quanto soggetti da tutelare e
che hanno il diritto di non essere messi a rischio da un agire scriteriato
dell'uomo ? Se fosse affermativa la risposta, prendere sul serio questa
alternativa richiederebbe una riformulazione dell'etica, non più in vista del
bene umano solamente ma in vista anche del bene delle cose extraumane.
Sino ad ora è stata la religione ad insegnarci la cultura di un bene non
6
Ivi, p. 11.
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esclusivamente umano e il riconoscimento dei "fini in sé " anche nel mondo
naturale. Al contrario, la visione scientifica dominante, informata dal
principio baconiano, depaupera la natura non rispettandola e privandola
della dignità teleologica.
Sul problema di questa presunta dignità della natura, la posizione di Jonas
non è certo scontata: prendiamo, per esempio, l'indirizzo di pensiero
dell'empirismo logico, che ebbe molta importanza soprattutto nella prima
metà del secolo. Questo empirismo trova in Hume il suo precedente storico,
e soprattutto nella distinzione che il filosofo di Edimburgo stabilì tra i
giudizi sintetici e i giudizi analitici. I pensatori "neoempiristi", preso atto del
rinnovato assetto concettuale della matematica e della fisica alla luce della
teoria della relatività di Einstein, concordano su una revisione del modello
meccanicistico ottocentesco di interpretazione della natura. Essi intendono
la filosofia come analisi del linguaggio e hanno l'obiettivo di portare a una
chiarificazione del linguaggio che elimini gli equivoci creati dalla fallacia della
metafisica. Su questa strada Rudolph Carnap
7
intendeva dimostrare che si
può ricostruire il mondo interiore e il mondo fisico senza rifarsi ai concetti
di sostanza e di causa della metafisica tradizionale. L'unico presupposto della
conoscenza sta nelle esperienze vissute elementari e nelle relazioni
fondamentali che si formano tra queste esperienze. L'essenza di un oggetto
7
R. CARNAP, La costruzione logica del mondo, tr. It. Di E. Severino, Milano 1966.
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equivale per Carnap all'indicazione del significato del segno dell'oggetto; ma
poiché il segno acquista senso solo in una proposizione, l'essenza consiste
nell'indicazione dei criteri di verità delle proposizioni nelle quali il simbolo
dell'oggetto può ricorrere.
In altri luoghi
8
Carnap spiega come la metafisica si poggi sulla costruzione di
proposizioni insensate: proposizioni in cui compaiono termini di cui si
ammette per sbaglio che abbiano un significato, oppure proposizioni
composte di termini dotati di senso messe insieme senza tenere conto della
sintassi e quindi formanti frasi prive di senso.
Il neo empirismo si pone come un pensiero che erige la "scientificità" e
l'esattezza a massimi valori intellettuali. In questa concezione scientifica del
mondo, la filosofia viene intesa come un'attività e non una scienza:
precisamente un'attività, secondo le parole di Schlick, che si svolge in modo
intrinseco all'esercizio della ricerca della scienza. Il forte nominalismo che
sottende la concezione del linguaggio (anche se questa concezione non è
uniforme in tutti i pensatori neo empiristi) conferisce ai segni e ai criteri di
stabilire la verità delle proposizioni linguistiche la dignità di modello di
spiegazione della realtà. La filosofia svolge in questo assetto la funzione di
ancella dell'attività scientifica e i problemi filosofici o sono risolvibili con i
8
R. CARNAP, L'eliminazione della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio,
in "Erkenntnis", 1931.
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metodi scientifici, oppure devono essere dichiarati privi di senso. Pensiamo
al problema dell'esistenza del mondo esterno, ossia se il mondo esterno sia
una realtà trascendente al di là della natura empiricamente data: l'esistenza di
questo mondo, per i neo empiristi, non fa nessuna differenza nei confronti
dell'esperienza effettiva; essa non è verificabile empiricamente e come tale
quindi è priva di senso. Così anche il problema della presenza degli scopi in
natura è per i neo empiristi non verificabile in base all'esperienza e quindi
come tale privo di senso. Non solo, ma il neo empirismo ha quasi
unanimemente negato all'etica, come scienza della morale, il carattere di una
disciplina razionale. In definitiva il dominio della morale è riportato a quello
delle emozioni, per cui rimanendo nel linguaggio di Carnap le proposizioni
dell'etica sono pseudoproposizioni. Nell'ambito della filosofia analitica, che
corrisponde ad un altro indirizzo di pensiero nel seno del neo empirismo,
parallelo a quello del positivismo logico, l'unico che si è distaccato da questo
orientamento è stato R.M.Hare che ha insistito sulla possibilità che al
discorso morale spetti la stessa validità del discorso scientifico.
9
9
Non è questa la sede per una trattazione sul pensiero di Hare, per cui rimandiamo alle
tesi di R.M.HARE,Libertà e ragione, 1963 in cui Hare insiste sulla universalizzabilità
che i giudizi morali condividono con quelli descrittivi, e sulla possibilità di metterli alla
prova attraverso il tentativo di confutarli.
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1.3 Dall'imperativo di kant ad un imperativo nell'ottica
dell'etica del futuro
La concezione morale Kantiana prende le mosse dalla mancanza di sintonia
tra volontà e ragione nell'uomo in quanto essere di natura finita. La legge
della ragione si impone come costrizione del dovere, come imperativo
morale. La moralità è ugualmente lontana dalla sensibilità quanto dalla
razionalità. Se l'uomo fosse esclusivamente sensibilità oppure interamente
ragione, allora, nel primo caso il suo agire sarebbe comandato dagli impulsi
sensibili, nel secondo invece sarebbe la razionalità a determinare ogni sua
azione. Eppure l'uomo è entrambe le cose e proprio in funzione di ciò e
della libertà di poter seguire la sua ragione oppure la sua sensibilità è un
essere morale. L'uomo desidera la felicità in quanto la considera un bene
supremo, ma questa non può costituire il fondamento di un imperativo
morale.
La legge morale è un imperativo categorico che non ha altro scopo, altra
determinazione, se non che l'azione si compia nel rispetto della legge. Esso è
un imperativo formale che obbliga la volontà ad agire conformemente alla
legge della ragione, non a particolari azioni: " agisci in modo che tu possa
volere che la tua massima diventi una legge universale ". Questo sta a
significare che il principio che ispira l'azione individuale deve essere trovato
nell'accordo coatto tra la ragione e la volontà. Jonas argomenta che questo
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principio nella sua formulazione originaria presuppone una comunità di
soggetti liberi che interagiscono, ma che questo presupposto venga meno
non è una contraddizione in sé
10
. La non interruzione della serie non è
garantita dal rispetto di nessun imperativo categorico che non tenga conto
del diritto delle generazioni future, ed è esattamente di questo argomento,
ossia della possibilità di fondare un simile diritto, che ci occuperemo di
seguito. L'imperativo di cui qui si va in cerca può essere fondato, secondo
Jonas, solo grazie alla metafisica, ma su questo torneremo più tardi. Rispetto
alle sue caratteristiche positive, si può immediatamente ipotizzare che debba
essere un imperativo che obblighi a una presa di coscienza più profonda
delle conseguenze catastrofiche dell'agire umano, e che da questa
consapevolezza tragga in primo luogo la necessità di salvaguardare la
continuazione della vita, un imperativo che sancisca, dunque, che non si può
mettere a rischio la vita dell'umanità intera: non compromettere le
condizioni per la continuazione futura dell'umanità sulla terra; nelle tue
scelte di adesso includi nella sua interezza il futuro dell'uomo tra gli oggetti
della tua volontà
11
. In quanto tale, è un imperativo che si appella più all'agire
politico che al comportamento individuale e che implica una coerenza
diversa: non l'accordo della ragione con la volontà, non la coerenza dell'atto
10
H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., p. 16.
11
Ibidem.
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con sé stesso, bensì l'accordo degli effetti eventuali dell'agire con la
continuazione della vita su questo pianeta. Il concetto di
"universalizzazione", ossia di conformità della massima individuale ad una
legge che sia valida per tutti (se tutti facessero così…), è un concetto
plausibile ed ipotetico. Il nuovo imperativo, invece, si rivolge alle azioni della
società in quanto comunità di persone, le quali possono diventare universali
nello stesso tempo in cui conseguono uno scopo compatibile con la
permanenza della vita. È ovvio che il sapere viene ad avere un ruolo nuovo
in questo contesto, in quanto "sapere predittivo " che deve saper suggerire i
principi e le soluzioni dei problemi pratici e morali, e guardare al futuro reale
calcolabile per indicare i limiti delle azioni umane collettive i cui effetti si
sono dimostrati disastrosi.
1.4 La questione della tecnica, l'intervento tecnologico
sull'uomo e il bisogno di bioetica
L'intervento della tecnica sull'uomo costituisce un ambito di particolare
rilievo nel nostro discorso e ha delle forti ripercussioni filosofiche ed etiche.
La natura dell'uomo ha creato la tecnica e il suo destino appare oggi proprio
minacciato da una superfetazione tecnologica. La questione della tecnica è
una questione antropologica, come sosteneva Gehlen.