2
attuazione possano essere realizzati in modo più soddisfacente dalle
istituzioni comunitarie piuttosto che dai singoli Stati membri.
Grazie al Trattato di Maastricht, infatti, il principio di sussidiarietà ha
trovato la sua formale consacrazione acquistando una specifica rilevanza
nell’evoluzione della realtà comunitaria europea fino a diventare
principio fondamentale nel diritto comunitario. Prima di tale Trattato il
principio in questione sebbene fosse considerato alla base dei rapporti tra
Comunità e Stati membri, non rivestiva tuttavia il rilievo attuale e
soprattutto non aveva il valore di parametro generale della legittimità
degli atti comunitari.
Il principio di sussidiarietà, infatti, viene definito una Grundnorm
proprio per sottolineare che è assunto come norma fondamentale
dell’assetto costituzionale della Comunità sopranazionale.
La portata e l’applicazione di tale principio si inquadra sotto due
angolazioni differenti: nei settori in cui il Trattato prevede una
ripartizione della competenza tra Comunità e Stati membri, il principio
di sussidiarietà interviene al fine di garantire tale competenza (limite
dell’esercizio di competenza). Nei settori in cui il Trattato non attribuisce
alcuna competenza, il principio di sussidiarietà non consente alcuna
competenza aggiuntiva (nessuna attribuzione di competenze).
La sussidiarietà si rivela, dunque, un criterio flessibile e dinamico, che
interviene sull’assetto di attribuzione delle competenze nell’ambito in
cui vi è una possibilità di sovrapposizione dell’azione comunitaria e di
quelle statali, al fine di stabilire quale delle due debba intervenire
concretamente. È dinamico perché esso non ha una portata immutabile,
potendo variare a seconda dei mutamenti storici; è flessibile, perché in
3
questo modo diviene possibile tener conto di una serie di fattori giuridici,
politici ed economici, alternando spinte centripete e centrifughe a
seconda delle esigenze che sorgono concretamente.
Nel linguaggio politico tale principio si realizza quando ad una
autorità centrale è conferita una funzione essenzialmente sussidiaria,
essendo ad essa attribuiti quei soli compiti che le autorità locali non
siano in grado i svolgere da sé.
Sul piano giuridico il principio di sussidiarietà contiene una duplice
valenza: esso indica sia un paradigma ordinatore dei rapporti tra Stato,
formazioni sociali, individui (sussidiarietà orizzontale), sia un criterio di
distribuzione delle competenze tra Stato ed autonomie locali
(sussidiarietà verticale).
All’interno dell’art. 5 TCE vi sono inserti di altri due principi
comunitari: il principio di attribuzione (comma 1) e il principio di
proporzionalità (comma 3).
L’idea della sussidiarietà acquista specifica rilevanza nell’evoluzione
della realtà comunitaria. In questo caso il principio di sussidiarietà non
rappresenta una regola interna a un quadro determinato di competenze
comunitarie, indirizzata a stabilire a chi spetti intervenire –se all’Unione
o agli Stati membri – laddove la competenza è concorrente. Esso funge
invece, da criterio politico-costituzionale sulla base del quale
preliminarmente è possibile costituire il quadro stesso delle competenze:
alle istituzioni comunitarie vanno attribuite soltanto le competenze
necessarie per realizzare nel modo più efficace rispetto agli Stati membri
gli obiettivi da raggiungere.
4
Tra i principi base spicca quello della sussidiarietà considerata come
principio presidiato dalla giurisdizione della Corte di Giustizia. Ma
difficilmente potrà essere riconosciuto alla disposizione del Trattato sulla
sussidiarietà il requisito dell’efficacia diretta, indispensabile perché i
privati possano rivolgersi ai giudici nazionali per vedersi riconoscere il
proprio diritto.
5
CAPITOLO I
L’EVOLUZIONE DELLA NOZIONE DI SUSSIDIARIETÁ
NELLA STORIA E NELLA COMUNITA’ EUROPEA.
1) Definizione ed origine storica.
Il termine “sussidiarietà”, nella sua accezione attuale, compare solo
nel XIX secolo, ma l’idea di sussidiarietà, fin dall’antica Grecia, esprime
un determinato modo di concepire la politica.
L’idea di autorità sussidiaria si manifesta nella società descritta da
Aristotele, secondo il quale gli uomini, per raggiungere il fine supremo
della felicità, hanno bisogno dell’aiuto dei livelli via via più articolati
della convivenza (famiglia, villaggi, città
1
), ciascuno dei quali possiede
delle finalità proprie e provvede ai relativi bisogni: la famiglia provvede
ai bisogni della vita quotidiana, il villaggio a quelli di un gruppo sociale
allargato, l’attività politica, infine, è propria soltanto della città, organo
politico in grado di raggiungere l’autarchia, immagine della perfezione
2
.
Vi è, dunque, un’ambivalenza nell’individuo e nel gruppo sociale
ristretto che sono nel contempo capaci ed incapaci: capaci di bastare a sé
stessi, quanto alle attività loro proprie, ma incapaci di una totale
sufficienza.
Il pensiero di Aristotele in questa materia, è ripreso, a secoli di
distanza, da San Tommaso D’Aquino il quale vi inserisce i concetti
1
Definita “orizzonte etico dell’uomo greco” da G. Razzano, “Il principio di sussidiarietà nel
progetto di riforma della Costituzione della Commissione bicamerale”, in Diritto e società,
1997, p.531.
6
cristiani “di persona” e di “bene comune”: proprio per trovare una
conciliazione al perseguimento delle due istanze fondamentali del valore
della persona e quello del bene comune, egli concepisce il ricorso
all’autorità superiore solo nei casi di insufficienza delle istanze inferiori
3
.
Se in origine il principio di sussidiarietà era inteso in senso filosofico-
antropologico, qualche secolo più tardi lo stesso principio è stato trasfuso
anche in campo giuridico. In particolare, agli inizi del XVII secolo,
secondo il giureconsulto Althusius, la società si costruisce mediante patti
successivi tra gruppi diversi e rivali che cooperano per un fine comune:
il benessere sociale
4
.
La società di Althusius, pur divisa in gruppi e in ordini sociali, è
caratterizzata da una generale solidarietà; nell’ambito di questa
solidarietà Althusius propone una regolazione pattizia fra i diversi gruppi
secondo la quale, il gruppo o l’istanza sociale inferiore accetta di essere
sostituita da quella superiore solo nello svolgimento dei compiti che
ritiene al di sopra delle proprie possibilità.
Anche Tocqueville a partire dal XIX, analizza l’idea di supplenza che
riguarda ora non più le piccole autorità sociali, ma le relazioni tra le
istanze sociali e lo Stato.
Tocqueville sottolinea come gli elementi decisivi per
l’organizzazione di uno Stato siano individuabili nel decentramento e
nell’autonomia locale. Sulla base di tale postulato il principio di
2
Cfr. Aristotele, “Politica”, I , 2, p.1252 b10 e ss.
3
Cfr. T. D’Aquino, De regno, I, Cap. ( 1,12,13)
Cfr. anche Contra gentiles, III, p.71 dove enuncia: “Così come non sarebbe conforme ad un
governo umano che l’autorità impedisse ai suoi sudditi di svolgere ciascuno il proprio compito, se non
temporaneamente, a motivo di qualche eccezionale necessità, allo stesso modo sarebbe non conforme
con il governo divino che le creature venissero private della facoltà di agire secondo i modi propri
della loro natura”.
4
Cfr. J. Althusius; Politica methodice digesta p.258
7
sussidiarietà si configura come principio di organizzazione delle
strutture: le collettività di livello superiore devono assumere
esclusivamente le competenze che al loro livello possono essere
esercitate meglio e più efficacemente rispetto alle collettività di rango
inferiore
5
.
Tutta la sua tesi, inoltre si fonda sulla convinzione che la felicità di
un popolo dipende dal grado di autonomia, e perfino d’ineguaglianza che
esiste al suo interno piuttosto che dall’essere soggetto ad uno Stato
onnipotente che è capace di garantire una libertà astratta, ottenuta a
prezzo dell’appiattimento sociale ed economico. Nel XIX, secolo, infatti,
il disfacimento dei corpi intermedi naturali della società -(famiglia, la
corporazione, il Comune, la provincia) – fa nascere l’esigenza di creare
associazioni artificialmente costruite col compito di salvaguardare la
stessa democrazia dal rischio dell’accentramento.
Dopo Tocqueville durante i secoli XIX e XX, altre correnti di
pensiero contribuiscono alla elaborazione del concetto di sussidiarietà.
Tra esse ricordiamo la corrente liberale, nella quale l’idea di
sussidiarietà assume un connotato essenzialmente negativo volto a
ridurre l’intervento dello Stato e preservando il principio di non
ingerenza; la sussidiarietà è intesa in stretto collegamento con i problemi
economici ed è considerata un mezzo per salvaguardare l’autonoma
capacità d’iniziativa degli individui.
È paradigmatica in tal senso la posizione di un esponente di tale
corrente liberale il quale in una frase condensa tutto il suo pensiero:
5
Cfr. P. De Pasquale, Il principio di sussidiarietà nella Comunità europea, Napoli 2000, pag.15.
8
“l’uomo considera veramente suo, non quel che possiede ma quello che
fa”
6
.
Una particolare posizione dottrinaria nell’ambito della corrente
liberale si diffonde in Germania con gli scritti di Robert Von Mohl e
Gorge Jellinek
7
; quest’ultimo in particolare ha affermato che lo Stato
può e deve agire “nella misura in cui l’azione individuale e quella
collettiva non possono realizzare il fine da raggiungere” e “nella misura
in cui lo Stato, con i suoi mezzi, può realizzare nella maniera migliore
l’interesse che si vuole raggiungere”.
Anche in Francia l’idea di “supplenza” nell’esercizio delle
competenze statali costituisce l’elemento fondante della filosofia. In
particolare Proudhon presenta il problema politico descrivendo il
conflitto tra autorità e libertà: l’autorità da sola genera l’oppressione e
l’infelicità mentre la libertà genera anarchia. Tale dialettica si supera con
il contratto sociale nel quale i contraenti che sono società organizzate
(regioni, province, cantoni) si rivolgono ad un’ istanza superiore solo
quando non riescono a realizzare i loro scopi a patto che conservino le
libertà. In altri termini la libertà è salva in una società divisa in gruppi
autonomi.
Proudhon adotta l’idea di supplenza nel duplice aspetto positivo e
negativo.
Secondo questa teoria filosofica il contratto sociale riguarda ”quel che
interessa la sicurezza e la prosperità dei Comuni”
8
ed in ciò è indicato
6
Cfr. W. Von Humboldt, Essai sur les limites de l’action de l’Etat, Parigi, 1867, pag.27.
7
G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre, 1913, p.259-263.
8
Cfr. Proudhon, Du principe federatif, 1959, pag. 138-319.
9
il contenuto dell’interesse generale, dunque la sfera d’ingerenza possibile
dello Stato.
L’unico criterio che delimita il confine tra ingerenza e non ingerenza
dello Stato è la capacità o meno dei gruppi sociali di essere
autosufficienti. Lo Stato interviene solo in caso di necessità.
Il pensiero di Proudhon arricchisce la riflessione sulla sussidiarietà
con una ripresa dell’idea contrattualistica come modalità per legittimare
l’intervento sussidiario dell’istanza superiore ed inoltre con una
rivalutazione del federalismo.
Ma è soprattutto nella dottrina sociale cristiana che tale principio ha
trovato la sua più ampia considerazione; protestanti e cattolici ne hanno
sviluppato il senso ed il significato quale criterio di buon funzionamento
delle relazioni tra individuo, società e gruppi sociali.
L’idea della sussidiarietà, vero pilastro della “dottrina sociale della
Chiesa”, è intesa sia in senso negativo, e cioè come non ingerenza,
perché dignità implica libertà sia in senso positivo, come ingerenza
necessaria, perché non sempre la non ingerenza è sufficiente a garantire
la dignità.
È con l’Enciclica “Quadragesimo anno”
9
(in occasione dei
quarant’anni della “Rerum Novarum”
10
di papa Leone XIII), del papa
9
Il testo ufficiale è il seguente: “Fixum tamen immoque manet in philosophia sociali gravissimus
illud principium quod neque mutari potest: sicut quae a singularibus Homnibus propria arte et
propria industria possunt perfeci, nefast est eisdem erigere et communitati demandare,ita quae a
minoribuset inferioribus communitatibus effeci praestarique possunt, ea ad maiorem et altioriem
societatem avocare iniuria est simulque grave damnum ac recti ordinis perturbatio; cum socialis
quaevis opera vi naturaque sua subsidium afferre membris corposi socialis debeat, numquam vero
Eadem destruere et absorbere”. [“Tuttavia rimane fisso e stabile nella filosofia sociale codesto
principio che non può essere né rimosso né cambiato; siccome non è lecito togliere agli individui ciò
che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto
rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare.
Ed è questo un grave danno e uno svolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale
10
Pio XI pubblicata il 15 maggio 1931, che per la prima volta viene
formulato e valorizzato il principio di sussidiarietà. Nell’Enciclica tale
principio indica “la funzione di supplenza che lo Stato è chiamato a
svolgere quando i singoli non riescono a rispondere a fondamenti della
persona umana senza però sostituirsi ai soggetti naturali di tali
compiti.” Il principio di sussidiarietà viene inteso come criterio di
valorizzazione delle capacità della persona e delle formazioni sociali
intermedie contro lo statalismo e dovrebbe così contribuire ad aiutare i
governi nella ricerca di un punto di equilibrio, sempre da definire dal
momento che le società e i bisogni cambiano continuamente.
Il principio di sussidiarietà è stato successivamente riaffermato in
altre successive Encicliche papali.
Emblematica è quella di Giovanni XXIII intitolata “Pacem in terris
11
”
dove l’obiettivo fissato dal pontefice è quello di stabilire i rapporti tra
autorità suprema (il monarca o un autorità), collettività intermedie,
famiglie e cittadini: l’autorità pubblica superiore deve risolvere i
problemi che riguardano la realizzazione di un bene comune in ambito
politico, economico, sociale e culturale; le collettività intermedie hanno
il compito di agire nella loro sfera di competenze e l’autorità superiore
non può occuparsi degli affari di questa collettività, ma deve lasciare
di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del
corpo sociale,non già distruggerle ed assorbirle.”]
10
In precedenza Leone XIII, senza usare ancora il termine “sussidiarietà”, descrive così questo
principio: “Non è giusto….che l’individuo e la famiglia siano assorbiti dallo Stato, ma è giusto
lasciare ad ognuno la facoltà di operare con libertà fin dove sia possibile, senza danno per il bene
comune e senza discapito di nessuno”.(Rerum Novarum n. 26).
11
L’Enciclica Pacem in terris n.48 enuncia:“…I poteri pubblici della comunità mondiale non hanno
lo scopo di limitare la sfera di azione ai poteri pubblici nelle singole comunità politiche e tanto meno
sostituirsi ad esse; hanno invece lo scopo di contribuire alla creazione, su un piano mondiale, di un
ambiente nel quale i poteri pubblici delle singole comunità politiche, i rispettivi cittadini e i corpi
intermedi possano svolgere i loro compiti, adempiere i loro doveri, esercitare i loro diritti con
maggiore sicurezza”.
11
loro esercitare liberamente i rispettivi diritti, i doveri e le funzioni
specifiche.
Un differente aspetto del principio di sussidiarietà e stato messo in
luce nella Enciclica “Mater et Magistra” sempre del papa Giovanni
XXIII; non ostante sia “un elemento di disturbo all’ordine giusto
trasferire alla collettività più grande e più alta le funzioni che possono
essere eseguite e assicurate dalle comunità più piccole e sussidiarie” è
altrettanto vero che “l’intervento di autorità pubbliche con funzione di
promozione, incentivazione, regolamentazione, integrazione e
complemento, trae fondamento dallo stesso principio”
12
.
Riassumendo, dall’Enciclica “Quadragesimo anno” in poi, la
Dottrina sociale della Chiesa ha approfondito il principio di
sussidiarietà, ma è soprattutto con il pontificato di Paolo VI
nell’Enciclica “Octogesima Adveniens” che tale principio è stato
strettamente collegato con quello di solidarietà.
Il principio di solidarietà e il principio di sussidiarietà sono volti ad
assicurare la dignità della persona umana. “……In virtù del primo
l’uomo deve contribuire con i suoi simili al bene comune della società, a
tutti i livelli. Con ciò la dottrina della Chiesa si oppone a tutte le forme
di individualismo sociale o politico. In virtù del secondo, né lo Stato né
alcuna società devono mai sostituirsi all’iniziativa e alla responsabilità
delle persone e delle comunità intermedie in quei settori in cui esse
possono agire, né distruggere lo spazio necessario alla loro libertà.
Con ciò la dottrina sociale della Chiesa si oppone alle forme di
12
Giovanni XXIII, Enciclica Mater et magistra, n. 57 e segg. in I documenti sociali, pag. 653 ss.