4
sono sempre compatibili con quel principio (perché esso non può escludere che l’attività
tributaria possa essere impiegata a fini extrafiscali).
Analoghe considerazioni possono farsi, con riferimento al principio di uguaglianza
davanti alla legge. E’ noto, che la dottrina e la giurisprudenza prevalenti ritengono che
tale principio obblighi il legislatore ordinario a disciplinare in modo eguale le situazioni
eguali; ma, i problemi più delicati sollevati da tale interpretazione riguardano il
sindacato costituzionale. Infatti, se da un lato si mira a legittimare il controllo
sull’effettiva eguaglianza delle situazioni che sono regolate in modo eguale o diverso,
dall’altro si intende evitare che ciò possa implicare un sindacato sull’opportunità delle
valutazioni legali e, quindi, consentire valutazioni di merito da parte dei giudici
costituzionali.
* * *
Si evidenzia l’interessante passaggio da un’esclusiva posizione formale dell’eguale
posizione di tutti i cittadini davanti alla legge ad un’aggiuntiva concezione sostanziale;
ed è proprio sotto quest’ultima ottica, che la legge tributaria si pone quale strumento
particolarmente idoneo a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che,
limitando di fatto l’eguaglianza e la libertà dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e la loro effettiva partecipazione alla vita politica, economica e
sociale del Paese.
L’evoluzione del principio di eguaglianza verticale ha evidenziato, nell’imposizione
progressiva, la natura di strumento valido di redistribuzione dei redditi, tale da conferire
un contenuto specifico al concetto di capacità contributiva. Tale principio è coniugato
con l’altro di eguaglianza orizzontale, che rifiuta discriminazioni fiscali in base al sesso,
alla razza, alla lingua, alla religione, alle opinioni politiche ed alle condizioni personali
e sociali.
* * *
L’intreccio di normative nazionali protezionistiche, in assenza di convenzioni
internazionali, ha ostacolato lo sviluppo dei rapporti commerciali e creato distorsioni
nei flussi di scambio tra i singoli Paesi, impedendo la libertà di circolazione delle
persone e di iniziativa economica internazionale. Tuttavia, già dal XV secolo, il
processo di integrazione dei mercati e lo sviluppo di attività economiche svolte
coevemente da più Stati avevano alimentato l’esigenza di stipulare trattati internazionali
5
diretti a garantire la rimozione da parte di ogni Stato contraente di forme di trattamento
più sfavorevoli nei confronti di cittadini e di beni provenienti da altro Stato contraente.
Un ruolo primario era svolto, in questo senso, dalla cosiddetta clausola della nazione più
favorita contenuta negli accordi commerciali.
In seguito alla prima guerra mondiale, hanno ricevuto, però, nuovo impulso il processo
di disintegrazione del sistema degli scambi internazionali, la vocazione protezionistica
dei singoli Stati e conseguentemente la politica di discriminazione fiscale che su di essa
si fondava. Le misure di natura tributaria adottate dagli Stati nei confronti delle
posizioni degli stranieri e dei beni importati si traducevano in trattamenti più
sfavorevoli.
IL ristabilimento della libertà commerciale e dell’eguaglianza di disciplina costitutiva
uno degli obiettivi fondamentali da perseguire.
Sulla base di tale evoluzione, il principio di eguaglianza, nella sua ampiezza acquisita a
livello tributario nazionale, si attesta anche nella configurazione di non discriminazione
fiscale proiettandosi nel processo di internazionalizzazione, al fine di favorire
progressivamente la crescita del flusso degli affari internazionali e degli investimenti
all’estero nonché la libertà di circolazione di beni e persone.
Il principio di non discriminazione assume, pertanto, singolare rilievo nell’ambito dei
rapporti economici e commerciali tra le Nazioni ed incide decisamente sul contenuto
degli ordinamenti giuridici tributari nazionali.
* * *
In definitiva ciò che emerge da questa analisi è un divieto di discriminazione fiscale che
risulta di carattere relativo ed in fase di continua evoluzione e che si fonda, nell’ambito
comunitario, sulle norme costituzionali e convenzionali, ma, prevalentemente, sul
Trattato istitutivo della CE. Dal Trattato conseguono le condizioni del completo
adattamento ad esso da parte dei singoli ordinamenti tributari nazionali, in un contesto
internazionale di progressiva espansione dei flussi economici fondati sull’effettiva
parità di trattamento dell’attività svolta da persone fisiche e giuridiche a qualsiasi Stato
esse appartengano.
6
Capitolo 1
L’eguaglianza giuridica tributaria
1.1 Eguaglianza e giustizia tributaria: il rapporto tra gli articoli 3 e 53 della
Costituzione
Il problema della tutela della parità di trattamento, nel campo del diritto tributario, è
generalmente impostato con riferimento all’art. 53, 1°c., della Costituzione. Tale
articolo sancisce il principio della capacità contributiva, ovvero il dovere che tutti hanno
di concorrere alle spese pubbliche in proporzione alla loro capacità economica.
La capacità contributiva avrebbe la funzione di garantire la parità di trattamento di
quanti si trovano in eguali situazioni di fatto, e nello stesso tempo di assicurare
l’uniformità dei criteri di tassazione dei soggetti che si trovano in diverse condizioni. In
questo senso, il principio di capacità contributiva non sarebbe che una applicazione al
campo dei rapporti tributari del principio generale di uguaglianza
1
.
Questa interpretazione sembra però sia stata ormai definitivamente superata. La dottrina
più recente tende, infatti, a ravvisare nel principio della capacità contributiva qualcosa
di più che una mera specificazione del principio di uguaglianza, sostenendo che esso
1
Cfr. Zingali, Lezioni di scienza delle finanze, pag. 266; D’Albergo, Proporzionalità e progressività nelle
carte costituzionali italiane, in Studi in memoria di G. De Francisci Gerbino, pag. 26; Steve, Lezioni di
scienza delle finanze, pag. 260; Pergolesi, Diritto costituzionale, pag. 314; Rastello, Sulla legittimità
costituzionale delle leggi che derogano al principio della uguaglianza e della generalità dell’imposizione
tributaria, pag. 18.
Questa interpretazione era sostenuta anche dalla prevalente dottrina tedesca, al tempo della Costituzione
di Weimar (cfr. Aldag, Die Gleichheit vor dem Gesetze in der Reichverfassung, pag. 84 ss.). La sola
distinzione che si ravvisava tra le due norme riguardava la sfera degli organi tenuti alla loro osservanza,
in quanto, mentre da alcuni si riteneva che il principio generale di uguaglianza vincolasse solo gli organi
giurisdizionali ed amministrativi, era per tutti pacifico che il principio di capacità contributiva vincolasse
anche il legislatore. Proprio come conseguenza di questa impostazione, nella attuale costituzione tedesca
non è stata riprodotta alcuna norma corrispondente all’art. 34 della Costituzione di Weimar, e si è ritenuto
possibile impostare il problema dell’uniformità dell’imposizione con riferimento al solo principio
generale di eguaglianza.
7
limita maggiormente la libertà del legislatore, esigendo il ricorso a determinati criteri
d’imposizione e, in particolare, alla progressività del sistema tributario
2
.
Vediamo però anche come la capacità contributiva non sia univocamente definita dalla
Costituzione, ma sia il risultato di valutazioni legislative largamente discrezionali:
sostenere che tutti debbono contribuire in ragione di quella che è la loro capacità
contributiva equivale dire che tutti debbono contribuire secondo quanto stabilisce la
legge. In questo modo il principio di giustizia distributiva viene ridotto ad un principio
di legalità, insufficiente di per sé a garantire un eguale trattamento.
D’altra parte se si assumesse che la capacità contributiva è il frutto di valutazioni
rigorosamente vincolate a criteri che la Costituzione medesima predetermina, ed ai quali
il legislatore deve attenersi nell’emanazione delle singole norme impositive, si
perverrebbe ad un irrigidimento del sistema tributario e dovrebbero ritenersi
costituzionalmente illegittime quelle discriminazioni del trattamento di categorie
omogenee di situazioni di fatto che sono uno strumento fondamentale della moderna
politica economica
3
. Tale soluzione è palesemente insostenibile, ed è così che si è
arrivati a ravvisare nell’articolo 53 della Costituzione uno strumento, più che di tutela
dell’eguaglianza tributaria, di semplice collegamento dell’imposizione alla capacità
economica dei contribuenti
4
.
In ordine ad una distinzione concettuale tra principi di eguaglianza e di capacità
contributiva, bisogna evidenziare come essi sul piano del diritto positivo abbiano
funzioni profondamente diverse
5
. I principi di eguaglianza si pongono in funzione della
2
Cfr. Micheli, Profili critici in tema di potestà di imposizione, in Studi in onore di G. Zingali, pagg. 451-
452; Lombardi, Problemi costituzionali in materia tributaria, in Temi trib., pag. 334 ss.; Adonnino,
Appunti in tema di illegittimità costituzionale della legge 10 dicembre 1961, n. 1436, in Giur. Cost.,
1963, pag. 1557; Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale
italiano, pag. 14 ss..
3
Cfr. Falsitta, Il principio costituzionale di uguaglianza in materia tributaria e l’illegittimità dell’art.2
della legge n.1346/1961, in Giur. it., 1964, I, 1, pag. 676, il quale ritiene che se si identificasse la capacità
contributiva con i redditi tassati, dovrebbe sostenersi l’illegittimità di tutte le esenzioni e riduzioni delle
imposte che tali redditi colpiscono. A questa soluzione perviene infatti il Rastello ( Sulla legittimità cost.
cit., pag. 15 ss.), il quale ritiene che l’art.53 lasci al legislatore ordinario una certa libertà
nell’apprezzamento della capacità contributiva espressa dalle singole situazioni di fatto, ma esiga che
queste, una volta assunte a presupposto di fatto dei tributi, siano egualmente colpite presso tutti i soggetti
passivi.
4
Nelle indagini sulla rilevanza del principio di capacità contributiva condotte nel tempo dalla dottrina
appare estraneo ogni riferimento alla parità di trattamento fiscale; v. Giardina, Le basi teoriche del
principio della capacità contributiva, pag. 53 ss.; Berliri, Principi di diritto tributario, vol. II, tomo 1,
pag. 222 ss..
5
Cfr. La Rosa, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, pag. 18.
8
formale parità di trattamento e mirano soltanto ad escludere che determinate situazioni
di fatto possano essere distinte sul piano normativo. I principi di giustizia distributiva
mirano, invece, ad ispirare ad un medesimo criterio la disciplina giuridica di situazioni
di fatto molto simili, imponendo l’osservanza di una costante proporzione tra una data
realtà e la misura dei benefici e dei sacrifici che vengono distribuiti.
Prendiamo come esempio l’eguaglianza della remunerazione del lavoro maschile e
femminile, garantita sia dall’art. 36, sia dall’art. 37 della Costituzione.
La prima norma esige che la retribuzione dei lavoratori sia proporzionata alla quantità e
qualità del lavoro svolto, e quindi determina un criterio vincolante di remunerazione la
cui osservanza necessariamente conduce alla parità di trattamento del lavoro maschile e
femminile. Questa parità di trattamento è frutto dell’applicazione di una stessa regola a
situazioni diverse, ed è caratterizzata da una nota fondamentale: la limitazione della
libertà del legislatore nella scelta del criterio da seguire nella remunerazione.
L’articolo 37, 1° comma, si limita invece ad esigere che sia remunerato in modo eguale
il lavoro degli uomini e delle donne. Esso lascia alla discrezionalità del legislatore la
determinazione del criterio da seguire nella retribuzione, ma esige che esso sia uguale
per il lavoro maschile e femminile. Questo ci mostra come laddove principi di
eguaglianza e di giustizia distributiva coesistono, i principi di giustizia distributiva
svuotano di ogni rilevanza i principi di eguaglianza; in altre parole, presupposto della
contemporanea rilevanza dei due tipi di norme è la diversità della loro sfera di
applicazione. In questo esempio, il principio dell’eguaglianza della remunerazione del
lavoro maschile e femminile può avere un significato solo se il principio
dell’adeguamento della remunerazione alla quantità e qualità del lavoro svolto si
riferisce al solo lavoro maschile
6
, ma non se si sostiene che entrambe le norme regolano
i due tipi di lavoro.
Accertare la rilevanza del principio di capacità contributiva vuol dire stabilire se, ed in
quale misura, esso garantisca l’uniformità dell’imposizione; si ponga cioè, come
strumento di tutela di esigenze di ordine e di regolarità. A tal fine, va osservato che tali
esigenze vengono inevitabilmente sacrificate ove si riconosca all’ente pubblico la
facoltà di strumentalizzare l’attività tributaria in relazione alle scelte politiche che, di
6
…e questa rilevanza consisterebbe nell’estensione, al lavoro femminile, del criterio che la Costituzione
prevede per il solo lavoro maschile.
9
volta in volta, esso persegue. Per questo motivo è stato osservato che “l’uniformità
dell’imposizione, nel nostro ordinamento, non può essere tutelata che in misura
relativamente modesta”
7
.
Una profonda modificazione dell’impostazione del problema della giustizia tributaria si
ha sul finire del 1800. La possibilità di una utilizzazione dell’imposizione in funzione di
fini extrafiscali era da tempo già nota alla dottrina e alla prassi finanziaria.
8
Ma mentre
prima questi fini avevano carattere eccezionale, ora essi cominciano a giocare un ruolo
sempre più importante nell’imposizione. Il riconoscimento della legittimità di questi
procedimenti avrebbe dovuto implicare una rinunzia all’identificazione della giustizia
tributaria con l’uniformità dell’imposizione; ma la dottrina non perviene a questa
conclusione. Essa infatti sostiene che le mutate concezioni dei compiti dello stato
comportano soltanto una modificazione del criterio dell’imposizione, e non della
concezione della giustizia tributaria come giustizia distributiva. Sostanzialmente si
muove dall’affermazione della relatività della giustizia tributaria. La giustizia tributaria
sarebbe strettamente collegata alle condizioni di tempo e di luogo ed alla società in cui
il sistema tributario opera. Il significato dei principi della generalità e dell’eguaglianza
tributaria non è univoco, ma dipende dalla posizione che gli studiosi ed i governanti
assumono nei confronti dell’esistente ripartizione del reddito e del patrimonio. Chi
ritiene che il sistema economico preferibile sia costituito dall’economia liberale,
approva la distribuzione delle ricchezze che dipende dal libero svolgimento delle forze
economiche, e vuole che essa non sia alterata dall’imposizione. In questa visione, la
generalità dell’imposizione viene identificata con la tassazione di tutti gli individui,
indipendentemente dall’entità delle loro forze economiche, e l’eguaglianza tributaria
viene intesa nel senso della rigorosa proporzionalità tra la ricchezza prelevata e quella
imponibile. Chi invece riconosce che l’esistente situazione economico sociale non è
quella migliore – e ritiene che l’imposta non costituisce soltanto il modo per sopperire
al fabbisogno finanziario, ma è pure uno strumento per agire, correggendo, sulla
distribuzione del patrimonio e del reddito che è prodotta dalla libera concorrenza – dà
un diverso significato alla generalità ed all’eguaglianza dell’imposizione. Sotto questo
7
La Rosa, op. cit., pag. 20 ss..
8
Si ricordano, ad es., già nel periodo dei Comuni, casi di esenzioni concesse per attrarre nell’orbita della
comunità terre confinanti, per popolare zone fortificate o di particolare importanza strategica (Cfr. Pertile,
Storia del diritto italiano, pag. 477; Barbadoro, Le finanze della repubblica fiorentina, pag. 429; Wagner,
La scienza delle finanze, in Biblioteca dell’economista, pag. 885 ss.).
10
aspetto, dovrebbe infatti sostenersi che il principio della generalità richiede la tassazione
di quei soli individui la cui ricchezza supera ciò che è necessario per l’esistenza; e che il
principio di uguaglianza esige imposizioni progressive, l’istituzione di imposte
particolari sugli appartenenti alle classi più agiate (imposte sul lusso, sul patrimonio
etc.), e la discriminazione del trattamento fiscale dei redditi di lavoro e di capitale. Si
riteneva che questa seconda concezione della giustizia tributaria fosse quella più
consona ai compiti dello Stato moderno.
L’esigenza di giustificare l’impiego dell’attività tributaria in funzione di fini
extrafiscali, è stata in seguito avvertita in misura sempre maggiore dalla dottrina
finanziaria. Essa ha trovato pieno riconoscimento nel quadro della moderna teoria della
cd. finanza funzionale, secondo la quale il ricorso all’imposizione dovrebbe essere
giustificato, non tanto dall’ esigenza di coprire la spesa pubblica (potendo a tale scopo
l’ente pubblico ricorrere anche al debito pubblico o alla carta moneta), quanto dai fini
extrafiscali che, di volta in volta, l’ente pubblico si propone
9
. Questa impostazione nega
totalmente ogni rilevanza ai principi di giustizia distributiva, come conseguenza dell’
assunzione dell’attività tributaria ad essenziale strumento di perseguimento della
massima occupazione dei fattori della produzione, del controllo dell’inflazione, della
redistribuzione delle ricchezze, ecc..
Questi orientamenti hanno indotto la dottrina a rivolgere tutta l’attenzione non più sulla
giustizia tributaria, bensì sui fini che l’attività tributaria può proporsi e sui mezzi
attraverso i quali essi possono essere realizzati. In conclusione, la parità di trattamento
oggi non si identifica più con la giustizia tributaria, ed il suo studio impone, anzitutto,
l’identificazione dei limiti in cui essa è ancora assunta a valore fondamentale (pur se
non più unico) del diritto tributario
10
.
Esaminando il rapporto intercorrente tra l’attività tributaria extrafiscale ed il principio di
capacità contributiva, vediamo prima di tutto come la tesi secondo la quale l’articolo 53
della Costituzione vieterebbe l’attività tributaria extrafiscale, sia stata seguita da pochi
9
Cfr. Amato, La Finanza funzionale, pag. 221; Tramontana, Principi e limiti della finanza funzionale , in
Studi economici, pag. 266 ss..
10
Nel campo dei rapporti fiscali trovano quindi piena conferma quegli orientamenti che pongono in
evidenza come gli ordinamenti giuridici non si fondino solo su un criterio di giustizia, ma
contemporaneamente su più criteri, variamente collegati (cfr. Bobbio, Sulla nozione di giustizia, in Arch.
Giur., pag. 27 ss.; Gavazzi, Delle antinomie, pag.161ss.).
11
autori. Infatti, attribuire al principio della capacità contributiva un’efficacia preclusiva
dell’impiego dello strumento fiscale a fini extrafiscali significa sostenere una
concezione dell’attività tributaria palesemente inadeguata alle attuali funzioni degli enti
pubblici. Di ciò è cosciente la dottrina prevalente,la quale oggi esclude che l’art. 53
della Costituzione importi un divieto dell’attività tributaria extrafiscale
11
, e cerca di
conciliare in diversi modi questa soluzione con l’assunto secondo il quale quell’articolo
tutelerebbe l’eguaglianza tributaria.
Si è sostenuto, anzitutto, che l’attività tributaria extrafiscale rimane estranea a quella
regolata dall’art. 53 della Costituzione
12
.
Questa impostazione non appare accettabile, non solo perché gli aspetti fiscali ed
extrafiscali dei singoli tributi non sono mai chiaramente distinguibili, ma anche perché
tradisce il significato della formulazione, all’interno della nostra Costituzione, di un
principio di giustizia distributiva tributaria. Questo è stato creato nell’intento di tutelare
l’interesse dei contribuenti ad un’imposizione uniforme; e tale tutela risulterebbe
totalmente inesistente se le norme comunque ispirate a fini extrafiscali vi fossero
estranee. Occorre piuttosto sottolineare come, nei limiti in cui l’articolo 53 tutela
l’uniformità dell’imposizione, la distinzione tra l’attività tributaria con fini fiscali ed
extrafiscali sia del tutto irrilevante, nel senso che possono violarlo norme sia dell’uno
che dell’altro tipo.
Parimenti insoddisfacenti appaiono quegli orientamenti che cercano di giustificare la
conformità delle norme extrafiscali all’art. 53 della Costituzione sostenendo che la
capacità contributiva è frutto di valutazioni del legislatore ordinario, fondate su criteri di
volta in volta liberamente scelti. Le diversità di trattamento derivanti dal perseguimento
di fini extrafiscali sarebbero costituzionalmente legittime in quanto dovute all’adozione
di diversi criteri di valutazione (e quindi all’attribuzione di diversa capacità
contributiva) nei confronti di situazioni economiche uguali
13
.Ma sostenere che la
11
Cfr. Micheli, Profili critici, cit., pagg. 452-453; Manzoni, Il principio, cit., p.99 ss.; De Mita, La
definizione giuridica dell’imposta di famiglia, Napoli, 1965, pag.132, nota 177.
12
Questa tesi è stata sostenuta dal Forte (Note sulle norme tributarie costituzionali italiane, pag. 388).
13
Cfr. Vanoni, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, in Opere giuridiche, vol. 1, pag. 96;
Forte, Note, cit., pag. 418; Manzoni, Il principio, cit., pagg. 84 ss. e 99 ss..
12
capacità contributiva è frutto di libere valutazioni da parte del legislatore, significa
escludere che vi sia una tutela a livello costituzionale dell’uniformità dell’imposizione.
Altri hanno ritenuto contrastanti col principio della capacità contributiva le disparità di
trattamento dovute all’incidenza dei fini extrafiscali (specialmente con riferimento alle
esenzioni), ad eccezione dei casi in cui esse sono giustificate da altre norme
costituzionali.
14
Questa impostazione, però, può valere solo per i casi in cui possa
affermarsi che la Costituzione esige il perseguimento di un certo fine attraverso lo
strumento fiscale; e ciò può dirsi solo di poche norme costituzionali.
Secondo La Rosa
15
l’importanza oggi riconosciuta ai fini extrafiscali dell’attività
tributaria non ha del tutto annullato ogni tutela dell’eguaglianza tributaria, ma ha
semplicemente spostato quella tutela dall’ambito dei singoli tributi ad una sfera più
generica, che riguarda gli effetti complessivi del sistema tributario sulle singole
economie. In sostanza si ritiene che l’art. 53, 1° comma, Cost. non vieti del tutto
l’attività tributaria extrafiscale, né si disinteressi ad essa, ma ne condizioni la legittimità
ad una uniforme distribuzione degli oneri fiscali complessivi. Esso, cioè, fa riferimento
all’incidenza del sistema tributario complessivo, e non dei singoli tributi, sui
contribuenti. Ed è questo a comportare che all’interno del nostro ordinamento la parità
di trattamento fiscale garantita dall’art. 53 della Costituzione abbia una rilevanza
limitata. Proprio perché tale parità è concepita e voluta soltanto in riferimento ad una
valutazione globale degli oneri fiscali che gravano sui singoli individui, viene lasciata
ampia libertà al legislatore di operare discriminazioni nel quadro della disciplina dei
singoli tributi. Ed è in questo campo che la parità di trattamento fiscale viene garantita
dal principio di uguaglianza.
La dottrina tributaristica fa poi, frequentemente, riferimento ad altre norme
costituzionali ai fini di una migliore valutazione dell’effettivo significato dell’art. 53
della Costituzione. In particolare, si sono posti in evidenza i collegamenti esistenti tra
l’art. 53 e l’art. 3, 2° comma (il quale sancisce l’impegno della Repubblica di operare
14
Cfr. Barile, Il soggetto privato nella Costituzione italiana, pag.154, nota 209; Micheli, Profili critici
cit., pagg.454-455; Forte, Il sistema tributario, cit., pagg. 75 ss.; Manzoni, Il principio, cit., pagg. 37, 92
ss..
15
Cfr. op.cit., pag. 34 ss..
13
per una effettiva eguaglianza sociale degli uomini) e l’art. 2 (per la parte in cui questo
richiede l’adempimento “dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale”)
16
.
Per una attenta analisi, occorre tenere presente che l’art. 53 della Costituzione adempie
a due diverse funzioni: da un lato, sancisce il dovere di “tutti” di contribuire alle spese
pubbliche; dall’altro, afferma un criterio di distribuzione degli oneri fiscali complessivi,
volto a garantire una certa regolarità e uniformità nell’imposizione. Ora, un
collegamento con le citate norme costituzionali si può costruire soltanto con riferimento
al primo aspetto del principio della capacità contributiva; ma non al secondo. Si
cadrebbe in errore se si sostenesse che il principio della capacità contributiva esiga che
nel campo tributario vengano perseguiti i valori tutelati da quelle norme. Da questo
secondo punto di vista, il principio della capacità contributiva è un principio di giustizia
distributiva, e non ha nulla a che fare con i principi dell’eguaglianza di fatto, o della
solidarietà. Questi principi sono espressione di concezioni di giustizia sociale che hanno
esercitato la loro influenza nel campo fiscale limitandone sempre più la rilevanza.
Pertanto, non si può negare che lo strumento fiscale possa essere usato in funzione della
redistribuzione della ricchezza, anche perché questa consegue sempre alla progressività
dell’imposizione. Ma ciò non vuol dire che la redistribuzione sia voluta dall’art. 53.
Questo esige la progressività solo in funzione della perequazione dei sacrifici tributari, e
nei limiti in cui essa è necessaria. In particolare il collegamento con l’art. 3, 2° comma,
mostra come la nostra Costituzione faccia dell’attività tributaria uno degli strumenti di
attenuazione delle sperequazioni sociali. Ma questa funzione rimane estranea al criterio
impositivo che può desumersi dall’art.53
17
.
Adesso è importante esaminare le conseguenze che dal principio di capacità
contributiva discendono in ordine alla validità della singole norme tributarie.
A questo proposito, devono evitarsi due posizioni estreme. Da un lato, c’è quella
sostenuta dal De Valles
18
, secondo la quale un giudizio di conformità o contrasto con
l’art. 53 Cost. potrebbe formularsi solo con riferimento al sistema tributario
complessivo, e non anche alle singole norme: in realtà, di illegittimità costituzionale
16
Cfr. Esposito, Eguaglianza e giustizia nell’art, 3 della Costituzione, in La Costituzione italiana, pag.
65; Micheli, Profili critici, cit., pag. 453; Barile, Corso di diritto costituzionale, pag. 258.
17
Cfr. Esposito, Eguaglianza, cit., pag. 65; Micheli, Profili critici, cit., p. 453 e p. 456, nota 79.
18
Cfr. De Valles, Limiti costituzionali alle leggi tributarie, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1958, I, pag. 11.
14
non può parlarsi che con riguardo alle singole norme ordinarie; ma non si può censurare
alcuna norma ordinaria in contrasto col principio di capacità contributiva, sinché si
sostiene che questo riguarda solo il sistema, e non anche il contenuto delle singole
norme.
Dall’altro, c’è la posizione sostenuta dal Manzoni, secondo il quale in ciascuna norma
dovrebbero ricorrere quelle caratteristiche che l’art. 53 richiede nel sistema tributario
complessivo
19
. Egli osserva, infatti, che “il principio costituzionale di capacità
contributiva è destinato ad operare anzitutto nell’ambito dell’intero sistema
tributario…” e che “non è possibile pervenire all’attuazione del principio di capacità
contributiva sul piano generale del sistema, se non adeguando al principio stesso
ciascuna delle singole fattispecie che tale sistema compongono”. È tuttavia da ritenere
che questi rilievi riguardino solo la necessità che l’imposizione sia sempre collegata (sia
nel sistema che nelle singole norme impositive) alla forza economica dei contribuenti.
Con riferimento al 2° comma dell’art. 53, il Manzoni chiaramente esclude che
l’esigenza della progressività, voluta nell’ambito del sistema, debba essere osservata
nella disciplina di ciascun tributo
20
.
Occorre individuare, quindi, le implicazioni di quel principio, di per sé riguardante solo
il sistema, sul piano delle singole norme impositive; enucleare, cioè, da quel principio
delle norme, anche esse costituzionali, alla stregua delle quali valutare il contenuto di
quelle ordinarie. Per condurre questa analisi, è necessario concentrare l’attenzione
proprio sul rapporto tra la capacità contributiva globale dei contribuenti ed il carico
fiscale complessivo che li grava; è dalla corretta impostazione di questo rapporto che
discende, infatti, l’uniformità dell’imposizione.
Il carico fiscale complessivo, al quale fa riferimento il principio di capacità contributiva,
è essenzialmente costituito dalla somma delle imposte che gravano i redditi, i patrimoni
ed i trasferimenti di ricchezza. Sembra, però, che possa ulteriormente limitarsi il campo
di operatività dell’art. 53 Cost. alle sole imposte sui redditi: quelle che gravano il
patrimonio ed i trasferimenti di ricchezza, in quanto strumenti di accentuazione della
progressività delle imposte sui redditi, di per se stesse incidono in modo eguale e
crescente sulle diverse categorie di redditieri, e non possono in alcun modo compensare
19
Il principio, cit., pag. 112.
20
Op. cit., pagg. 186 ss..
15
le eventuali inosservanze del principio di giustizia distributiva compiute nella tassazione
diretta dei redditi di soggetti appartenenti ad una medesima categoria. Dal punto di vista
quantitativo vi è da chiedersi se, in ordine alla capacità contributiva degli individui, i
proventi delle attività produttive debbano essere considerati al netto delle passività
inerenti alla loro produzione. Infatti, se il reddito minimo deve essere esentato,
dovrebbe anche ritenersi vietato all’ente pubblico colpire quanti fruiscono di entrate
superiori al minimo per l’esistenza così da impedire ad essi di disporre di quanto
occorre allo svolgimento della loro funzione sociale, al normale esercizio delle loro
attività produttive
21
. Questo tanto varia da caso a caso, in dipendenza della situazione
economica generale e delle attività svolte dai contribuenti, ed è costituito dalle spese che
normalmente richiede lo svolgimento delle loro attività, e dai consumi che sono
necessari per un tenore di vita adeguato alla loro posizione sociale. Non tutte le
passività, quindi, concorrono a limitare la capacità contributiva.
Concentrandoci adesso sul problema della conformità delle norme impositive all’art. 53,
può affermarsi che il contrasto delle norme tributarie con l’art. 53 ricorre in un numero
molto più limitato di casi di quanto comunemente si ritenga. In realtà, nella pratica si fa
troppo spesso riferimento all’art. 53; e ciò, sia come conseguenza del mutato
atteggiamento della dottrina (passata dall’iniziale disinteresse ad una spesso discutibile
dilatazione del significato di questa norma); sia della genericità dei termini nei quali il
suo significato appare definito nelle sentenze costituzionali. E’ inutile impostare
problemi di giustizia distributiva guardando soltanto alle norme impositive. Se pure,
infatti, si riconosce che le nostre leggi fiscali sembrano muovere in molti casi da una
“presunzione di evasione”
22
certamente deplorevole, occorre comunque tener presente
che può pensarsi ad un intervento dei giudici costituzionali solo in quanto i valori
tutelati dall’art. 53 risultino effettivamente lesi, e non soltanto misconosciuti, dalle leggi
tributarie.
21
Cfr. Micheli, Profili critici, cit., pag. 448; D’Amati, Schema costituzionale dell’attività impositiva, in
Dir. Prat. Trib., I, pag. 485;Lombardi, Problemi costituzionali, cit., pag.618, nota 56. La dottrina ha
cercato di precisare il concetto di minimo esente anche sulla base di altre norme costituzionali. Il D’Amati
ha fatto a tal fine riferimento agli artt. 30 e 31 (posti a tutela della famiglia,dell’educazione e
dell’istruzione dei figli), e all’art. 36, per la parte in cui esso garantisce al lavoratore (e alla sua famiglia)
una retribuzione sufficiente ad assicurargli un’esistenza libera e dignitosa. Il Lombardi guarda anche agli
artt. 41 e ss., per la tutela che essi offrono alla proprietà e all’iniziativa economica privata. In virtù di
queste norme la misura del minimo esente deve essere diversamente determinata in relazione alla
situazione sociale del contribuente.
22
Cfr. La Rosa, Eguaglianza tributaria,cit., pagg. 53-54.
16
Occorre prendere inoltre in considerazione il fatto che il legislatore, nell’emanare le
norme impositive, non può tener conto che di quanto avviene nella normalità dei casi, e
che , di conseguenza, può essere censurata una norma tributaria di contrasto con l’art.53
Cost. solo in quanto essa leda l’uniformità dell’imposizione con riferimento alla
maggior parte dei contribuenti ai quali deve essere applicata. Solo a queste condizioni
può sostenersi che ricorra una inadeguata valutazione legale delle condizioni soggettive
dei contribuenti, e non sperequazioni derivanti da particolari circostanze di fatto,
irrilevanti in una visione globale della distribuzione degli oneri fiscali
23
.
Infine, il controllo della conformità delle norme tributarie all’art. 53 Cost. presuppone
l’identificazione della quota di ricchezza dei soggetti colpiti che non esprime capacità
contributiva, e del giusto onere fiscale che su di essi dovrebbe gravare. Quanto al primo
punto, non è da escludere che si possa determinare approssimativamente l’ammontare
complessivo delle somme necessarie ad una dignitosa esistenza ed allo svolgimento
della personalità dei singoli individui, e stabilire se esso sia intaccato dai prelievi fiscali;
valutazioni di questo genere non esorbitano dalla competenza dei giudici costituzionali.
Non sembra, viceversa, che la Costituzione offra elementi atti a definire la misura del
giusto onere fiscale complessivo per le singole categorie di contribuenti. Essa si limita
ad esigere il ricorso a criteri di progressività, senza in alcun modo stabilire la scala di
aliquote dalla quale questa progressività dovrebbe discendere.
Prendendo poi in esame tutte le norme tributarie istitutive di esenzioni, è da affermare
l’infondatezza, sia della tesi la quale (movendo dall’assunto che l’art.53 Cost. esige
soltanto che i prelievi siano adeguati alla capacità contributiva, e non anche che essi
siano realmente effettuati quando questa esiste) esclude che le esenzioni possano violare
questa norma
24
; sia di quella secondo la quale esse la violerebbero sempre, per il fatto
che essa, ponendosi come specificazione del principio generale dell’eguaglianza davanti
alla legge, lascerebbe al legislatore una certa libertà nella definizione dei presupposti di
fatto dei tributi, ma esigerebbe la loro eguale tassazione presso tutti i contribuenti.
25
23
Cfr. Giardina, Le Basi ,cit., pag. 439 ss..
24
Cfr.Lombardi, Problemi, cit., pagg.109 ss., nota 60.
25
Cfr. Rastello, Sulla legittimità costituzionale, cit.
17
In realtà, se si distingue il significato dei due principi, e si sostiene che il principio della
capacità contributiva esige soltanto una distribuzione uniforme degli oneri fiscali
complessivi, può affermarsi che le esenzioni sono di regola con esso compatibili; ma
che lo violano nei casi in cui si estendono ad un numero di tributi tale da far dubitare
che l’onere risultante dagli altri prelievi sia adeguato alla capacità contributiva globale
dell’individuo
26
.
Va inoltre osservato che possono essere censurate di contrasto con l’art. 53 solo le
esenzioni vere e proprie, e non anche le cd. esclusioni d’imposta. Esse potrebbero essere
impugnate solo se si ritenesse che possa violare la Costituzione il fatto che siano
lasciate giuridicamente irrilevanti certe situazioni di fatto. D’altra parte, non può in
questi casi invalidarsi tutta la norma impositiva, poiché questa, per quanto riguarda la
sua sfera di applicazione, può essere perfettamente conforme alla Costituzione
27
.
Alcuni
28
hanno sostenuto che il principio di capacità contributiva avrebbe un’efficacia
limitativa maggiore nei confronti delle cosiddette esenzioni soggettive. Le esenzioni
soggettive sono il risultato di una tutela di interessi soggettivi estranei alla disciplina
della fattispecie tributaria: in sostanza si tratta di stabilire se l’art. 53 consenta a che la
capacità giuridica tributaria possa subire dei limiti per motivi diversi da quello della
forza economica (nel qual caso si parla di esenzioni oggettive). A tale quesito può
senz’altro darsi risposta affermativa
29
. Per quel che riguarda la capacità giuridica, l’art.
53 costituisce una specificazione del principio di uguaglianza: e, come questo non
esclude che la capacità giuridica, pur essendo riconosciuta a tutti gli individui, possa
subire dei limiti, l’art. 53 di per sé non vieta che la stessa cosa possa avvenire alla
capacità giuridica tributaria. Il problema della costituzionalità delle esenzioni soggettive
deve essere impostato, quindi, in un quadro più generale; è necessario distinguere i
limiti alla capacità giuridica dai privilegi veri e propri, i quali importano la negazione
della fondamentale eguaglianza della capacità giuridica degli individui.
26
In questo senso La Rosa, Eguaglianza tributaria, cit., p.56.
27
Ciò non vuol dire che le disparità di trattamento derivanti dalle disposizioni di esclusione siano sempre
legittime. Nei loro confronti opera, nei modi che più avanti preciseremo, il principio generale di
eguaglianza, il quale vieta che sia arbitrariamente definito l’ambito di applicazione delle norme
giuridiche.
28
Cfr, Barile, Il soggetto, cit., pag. 154, nota 209; Manzoni, Il principio, cit., pag. 35 ss..
29
Cfr. La Rosa, op.cit., pag. 59.