7
INTRODUZIONE
Con la legge 18 giugno 2009, n. 69, contenente Disposizioni per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo
civile, in vigore dal 4 luglio 2009, il tradizionale impianto processualcivilistico
dell’ordinamento giuridico italiano ha conosciuto non poche innovazioni, assai
eterogenee nei loro presupposti nonché nella relativa regolamentazione, ma
rispondenti tutte ad un medesimo obiettivo di politica legislativa: rimuovere il
principale nemico della giustizia
1
, unanimemente identificato nell’eccessiva durata
dei processi.
Tale è dunque il filo conduttore della riforma
2
del processo civile. La novella mostra
di recepire, quantomeno nelle intenzioni, la diffusa preoccupazione che la tanto
criticata lunghezza dei tempi della giustizia italiana possa minare l’effettività della
tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost., oltre che porsi in evidente contrasto con
il principio di ragionevole durata del processo, consacrato dall’art. 111, secondo
comma, Cost., così come riformato dalla legge cost. 23 novembre 1999, quale valore
fondamentale del nostro tessuto costituzionale.
Prima e ancor più che in relazione al processo penale, ciò è innanzitutto vero per
quanto riguarda il processo civile, nel quale per eccellenza vengono in gioco gli
1
In questi termini si espresse l’allora guardasigilli Angelino Alfano nella nota lettera aperta che il
ministro stesso indirizzò al direttore del Corriere della sera, il 4 luglio 2009.
2
Sulla critica avverso la riconducibilità della novella del 2009 ad una vera e propria riforma del
diritto processuale civile v. soprattutto G. BALENA, secondo il quale la millantata riforma si riduce in
realtà ‘a una serie di interventi del tutto eterogenei, i quali […] hanno ben poche chances d’incidere
positivamente, nel complesso, sulla durata media dei giudizi, ed in qualche caso hanno addirittura
un sapore deprecabilmente demagogico’ (G. BALENA, La nuova pseudo riforma della giustizia civile
(un primo commento della legge 18 giugno 2009, n. 69), in www.judicium.it.
Introduzione
8
interessi squisitamente privati delle parti e può apparire pertanto maggiormente
frustrante una risoluzione ritardata delle controversie
3
.
Senza volersi addentrare nell’argomento, basti qui accennare che la giurisdizione
civile, dal punto di vista funzionale, si prefigge come obiettivo la tutela quanto più
effettiva dei cittadini, lesi nei loro diritti o interessi, i quali ultimi a loro volta non
potrebbero definirsi tali se venisse a mancare in essi proprio la caratteristica della
tutelabilità, che altro non è se non la possibilità, da parte del titolare del diritto o
dell’interesse medesimo, di ricorrere all’autorità giudiziaria per reagire alla
violazione dello stesso
4
. Quanto affermato si ricava dal combinato disposto del
summenzionato art. 24, primo comma, Cost. (Tutti possono agire in giudizio per la
tutela dei propri diritti e interessi legittimi) e dell’art. 2907, primo comma, c.c. (
Alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di
parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o
d’ufficio); ne consegue che l’attività giurisdizionale si configura come strumentale
rispetto alla tutela dei diritti, la quale tutela costituisce, dal canto suo, il presupposto
stesso affinché una data situazione soggettiva possa assurgere al rango di diritto (o
interesse legittimo).
A ciò si aggiunga che al processo civile è estraneo, o del tutto secondario, il fine di
perseguire astratti interessi pubblici
5
, che invece connota la giurisdizione penale.
Pertanto, poiché funzione della giurisdizione è tutelare i diritti dei cittadini, dai quali
tendenzialmente scaturisce l’azione (come si evince del resto dall’inciso di cui
all’art. 2907, primo comma, c.c. – su domanda di parte e, quando la legge lo
dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio – che stabilisce
inequivocabilmente un rapporto di regola-eccezione nell’adire l’autorità giudiziaria),
e poiché il processo civile è svincolato dalle esigenze di accertamento che, nel
3
L’ex – ministro Alfano, nella lettera cit., osserva che ‘alla giustizia civile i cittadini affidano i loro
affari privati e personali, per dirimere le controversie e ristabilire il diritto nel quotidiano, lontano
dai clamori e dall’umanità sofferente che affolla le aule penali, ma più vicino al vissuto quotidiano
dell’uomo comune. Per questo è apparso naturale iniziare da questa riforma per dar attuazione al
principio della ragionevole durata del processo, riconosciuto come diritto di ogni cittadino dalla
Costituzione’.
4
V. C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, XX ed., Torino, Giappichelli, 2009, Vol. I, p. 11 e ss.
5
Così G. MONTELEONE, Intorno al concetto di verità ‘materiale’ o ‘oggettiva’ nel processo civile, in
Riv. dir. proc., 2009, 1, pp. 1-13.
Introduzione
9
processo penale, richiedono un continuo contemperamento con il rispetto delle
svariate situazioni soggettive che di volta in volta rilevano, ben si comprende come
la richiesta di una maggior celerità da parte della giustizia si ponga anche e a fortiori
con riferimento al giudizio civile.
Solo tenendo ben presente tali premesse è possibile procedere ad un’analisi della
materia che in questa sede interessa, la modifica dell’art. 115 c.p.c., che sia coerente
con il tenore del testo riformato, con la ratio unitaria della novella e che possa altresì
conciliarsi con i principi che governano l’intero sistema processuale italiano, senza
intaccarne le fondamenta.
Il previgente art. 115 c.p.c., rubricato Disponibilità delle prove, disponeva che Salvi
i casi previsti dalla legge il giudice deve porre a fondamento della decisione le
prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero. – Può tuttavia, senza bisogno di
prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella
comune esperienza. Nella sua precedente formulazione la disposizione in esame si
limitava a enunciare una fondamentale regola in tema di istruzione probatoria: il
principio di disponibilità delle prove (il quale però – è bene anticiparlo – nonostante
l’ambigua dizione, non va confuso con il principio dispositivo, nella sua particolare
accezione di disponibilità dell’oggetto del processo
6
). Tale principio opera come una
sorta di vincolo tecnico che il giudice deve osservare in fase di costruzione del
proprio convincimento in vista della decisione finale, la quale dovrà dimostrare di
fondarsi sulle prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, salvo eccezioni.
6
Come si avrà modo di approfondire nel corso della trattazione, la confusione, terminologia ma
ancor più concettuale, deriverebbe dall’eredità dell’insegnamento latino secondo cui judex secundum
alligata et probata judicare debet, che accorpa in un unico enunciato due differenti principi: la
disponibilità dell’oggetto del processo (alligata) da un lato, la disponibilità delle prove (probata)
dall’altro lato. Da qui, la tendenza di parte della dottrina ad insistere con il suddetto accorpamento
avvalendosi dell’espressione ‘principio dispositivo’ per indicare indifferentemente entrambi i
principi; tale commistione è tuttavia da sconfessare, in quanto foriera di equivoci. Trattasi in
entrambi i casi di fenomeni che vincolano il giudice nell’esercizio dell’attività giurisdizionale, ma
che differiscono esattamente nel modo in cui opera tale vincolo: mentre la regola della disponibilità
dell’oggetto del processo comporta che il giudice debba giudicare su tutti i fatti allegati nella pretesa
attorea – salvo gli allargamenti imposti dal principio di parità delle parti – e solo su quelli, il
principio della disponibilità delle prove vincola il giudice a servirsi degli strumenti tecnici di
convincimento – le prove, appunto – non certo arbitrariamente bensì seguendo le puntuali
indicazioni di volta in volta dettate dal legislatore, in primis quella contenuta nell’art. 115 c.p.c.,
secondo cui il giudice è vincolato alle offerte di prova provenienti dalle parti, potendo derogarvi solo
eccezionalmente (v. C. MANDRIOLI, Op. cit., Vol. I, p. 117 e ss.).
Introduzione
10
Infatti, specularmente a quanto disposto dall’art. 2907 c.c. con riguardo all’insorgere
della tutela giurisdizionale, anche l’art. 115 c.p.c. configura una regola (la
disponibilità delle prove esclusivamente in capo alle parti del processo), mitigata,
già nella stessa disposizione che la enuncia, da alcune eccezioni: da un lato, l’inciso
iniziale salvi i casi previsti dalla legge non esclude che valutazioni di opportunità
compiute caso per caso dal legislatore concedano al giudice un più ampio potere di
iniziativa probatoria; dall’altro lato, il secondo comma dell’articolo consente al
giudice di avvalersi delle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza,
dovendo intendersi per tali tutti quegli accadimenti storicamente e spazialmente
determinati, così radicati nella coscienza collettiva da apparire indubitabili e
incontestabili
7
.
7
In questi termini si esprimono costantemente i giudici di legittimità. Si veda in particolare la
sentenza Cass. civ., Sez. II, 19 novembre 2007, n. 23978, la quale mette in risalto l’esigenza precipua
che l’ambito del notorio, ‘comportando una deroga al principio dispositivo e al contraddittorio e
dando luogo a prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati’,
venga definito in termini rigorosi. Tale preoccupazione è condivisa da gran parte della dottrina la
quale, pur nella difficoltà di elaborare una nozione esaustiva di un concetto di per sé indeterminato
quale il notorio (in tal senso A. NERI, Fatti notori e informazioni pervenute da internet, nota a Trib.
Mantova, 16 maggio 2006, Giur. merito 2007, 10, 2570, in www.dejure.it.), si è pur sempre sforzata
in tal senso. Brevemente può dirsi che, per diffusa opinione, l’espressione nozioni di fatto che
rientrano nella comune esperienza comprende non solo i fatti notori ma anche le regole o massime
di esperienza. Riguardo ai primi vale richiamare il commento di A. GRAZIOSI a Cass. civ., Sez. Un.,
14 ottobre 1998, n. 10153, (A. GRAZIOSI, Atto notorio, dichiarazione sostitutiva dell’atto di
notorietà e autocertificazione davanti al giudice civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, pp. 307-
308, v. richiamo nota 8) nel quale l’A. passa in rassegna i diversi orientamenti nel tempo succedutisi
in ordine all’esatta qualificazione da attribuirsi al fatto notorio, segnalando come le diverse opinioni
richiamate evochino tutte l’idea di una ‘conoscenza condivisa da una certa comunità nazionale o
territoriale (identificata nel tempo e nello spazio) al punto da poter essere considerata acquisita al
suo comune patrimonio culturale e scientifico’, e rimarcando altresì che il fatto notorio è tale (e
dunque esente dalla regola generale dell’onere della prova) proprio in virtù della sua notorietà, la
quale si configura dunque come un attributo intrinseco del fatto. Quest’ultimo rilievo porta a
respingere la tesi di taluna giurisprudenza di merito (Trib. Mantova, 16 maggio 2006, con commento
di A. NERI, Op. citata), secondo cui le notizie apprese da internet, per il fatto stesso di essere desunte
da questo particolare mezzo di informazione, non possono mai costituire fatti notori ‘in quanto privi
del carattere della incontestabilità’, poiché una tale opinione confonde il concetto di notorietà (che,
in quanto qualità intrinseca del fatto, prescinde dal modo in cui si forma) con quello di fonte di
notorietà (internet, nel caso di specie). Per quanto concerne poi le regole o massime di esperienza è
tale ogni generalizzazione tratta dall’esperienza, che abbia per oggetto fatti e che guidi il giudice
nella valutazione delle prove soggette al suo libero apprezzamento e, in definitiva, nella formazione
del suo convincimento (F. CARPI – M. TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile,
VI ed., Padova, Cedam, 2009, p. 155 e ss.); ma vi è di più: non tanto di uno strumento di ausilio di
cui il giudice può scegliere se usufruire o meno si tratta, quanto di una vera e propria necessità per il
giudice. A tal proposito, commentando una sentenza della Cassazione ove si legge che il giudice ha
la facoltà, non l’obbligo di ricorrere alle massime di esperienza, Carnelutti osserva che una simile
affermazione ‘val quanto esonerare il giudice dall’obbligo della valutazione critica delle prove. […]
Introduzione
11
In tale contesto si colloca l’intervento riformatore della legge n. 69/2009, il cui art.
45, quattordicesimo comma, si occupa di ampliare le potenzialità del principio della
disponibilità delle prove, autorizzando espressamente il giudice a fondare la propria
decisione, oltre che sulle prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero come
avveniva in precedenza, anche su i fatti non specificatamente contestati dalla parte
costituita
8
.
La più immediata conseguenza della riforma di cui si tratta consiste nel rendere
pleonastico, quando non sterile, ogni ulteriore contributo al dibattito che per anni ha
acceso gli animi in dottrina e in giurisprudenza circa la possibilità di configurare
nell’ordinamento processualcivilistico italiano un principio generale di non
contestazione.
L’esistenza di un tale principio è oggi self-evident: non già di astratta configurabilità
può parlarsi ma di espressa configurazione per volontà del legislatore il quale,
conscio del terreno scivoloso su cui andava muovendosi, ha inteso restituire piena
vita ad un principio che, fino a quel momento, germogliava nelle aule di giustizia e
nelle pagine di qualche Autore.
Ciò premesso, e precisato altresì che sarebbe opportuno, come da taluno
correttamente rilevato
9
, abbandonare la classica formula negativa di ‘principio di
non contestazione’ (tanto cara alla dottrina quanto non perfettamente idonea a
cogliere nel segno della problematica connessa al nuovo art. 115 c.p.c.) per
abbracciare quella di ‘onere di contestazione’, si tratta ora di approfondire alcuni
aspetti di questa nuova regola fatta propria dal codice di rito.
Può esimersi il giudice dal ragionare e può il ragionamento fare a meno del sillogismo? E in che
consiste la premessa maggiore del sillogismo probatorio se non in una massima di esperienza?’ (F.
CARNELUTTI, Massime di esperienza e fatti notori, in Riv. dir. proc., 1959, 639). La dottrina si è
sempre dimostrata molto attenta nel mantenere distinte le due categorie, fatti e regole, e a non
alimentare la confusione spesso esistente in giurisprudenza (si veda, tra tutti, F. CARNELUTTI, Op.
citata): mentre i fatti rilevano nella loro determinatezza, le regole derivano da quei fatti che,
ripetendosi in maniera uniforme, sono in grado di esprimere una regola generale valevole per una
pluralità di casi.
8
Nonostante la tecnica adottata dal legislatore del 2009 sia quella dell’integrale riscrittura
dell’articolo 115 c.p.c., la portata innovativa della riforma, per quanto riguarda il tema che qui rileva
e con riferimento esclusivo al dato letterale, si limita all’inciso di chiusura del primo comma ‘nonché
i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita’ e all’aggiunta delle parole ‘il giudice’ in
apertura del secondo.
9
Il riferimento va a B. SASSANI, L’onere della contestazione, in www.judicium.it.
Introduzione
12
In via di prima approssimazione può dirsi che il principio di non contestazione si
concreta nell’onere della parte, rectius della parte costituita, di contestare i fatti
allegati dalla controparte; in mancanza, la parte che quei fatti ha originariamente
allegato nel processo deve ritenersi sollevata dall’incombenza di fornire la prova dei
medesimi: si tratta della c.d. relevatio ab onere probandi cui fa eco, dal punto di
vista del soggetto chiamato a convincersi in merito alla fondatezza dei fatti di causa,
ossia del giudice, la possibilità di porre quei fatti, qualora non contestati, a
fondamento della propria decisione.
Il ricorso al meccanismo della non contestazione è noto come un espediente di
tecnica legislativa dei più antichi, volto a ridurre i tempi necessari per il corretto
espletamento della fase di istruzione probatoria, dal momento che i fatti non
contestati, proprio in quanto tali, si presumono non più bisognosi di essere
corroborati dalle prove, in quanto divenuti ormai ‘pacifici’ per effetto della non
contestazione della parte che avrebbe avuto interesse a contestarli.
Ebbene, la riconduzione dei fatti non contestati nell’alveo dei fatti considerati
pacifici costituisce nient’altro che una fictio juris, grazie alla quale un fatto (il fatto
non contestato) riceve un determinato trattamento giuridico (la c.d. relevatio ab
onere probandi) in maniera del tutto indipendente dalla realtà empirica sottostante:
in altre parole, quel determinato fatto si considera pacifico a prescindere dalla
circostanza che lo sia realmente. L’unico aggancio fattuale a cui può ancorarsi un
meccanismo suddetto è, tutt’al più, una presunzione di verità: l’id quod plerumque
accidit insegna che se una parte, di fronte a un fatto allegato dalla controparte,
omette di contestarlo, è perché ne riconosce l’esistenza
10
, ma si comprende come si
tratti di cosa ben diversa dall’appurarne l’esistenza attraverso una verifica
scrupolosa.
È proprio questo il punto ove più vivacemente si scontrano i diversi inquadramenti
dogmatici della non contestazione, sia per i risvolti pratici che il tema implica, sia
per le premesse teoriche dalle quali trae spunto e origine, tanto radicate da involgere
persino lo stesso scopo del processo civile odierno, che tenta di comporre la tutela
10
Così C. M. CEA, La tecnica della non contestazione nel processo civile, in Giusto proc. civ., 2006,
2., p. 202, p. 173 ss.
Introduzione
13
dei diritti, che propriamente gli compete, con la tensione verso una decisione giusta,
per chi ritiene che la verità dei fatti posti a fondamento della decisione costituisca un
presupposto irrinunciabile per la bontà della stessa
11
.
Ciò posto, è chiaro che per aver accesso nell’ordinamento giuridico tale fictio deve
essere dotata di adeguata giustificazione; da questo punto di vista la non
contestazione trae origine da un duplice fondamento
12
: il più immediato si rinviene
in ragioni di convenienza legate a una rapida soluzione delle controversie (principio
di economia processuale), cui fa eco il crescente rilievo che la collaborazione tra
tutte le parti del processo va assumendo ai fini dell’attuazione del giusto processo
(principio di auto – responsabilità delle parti).
È agevole osservare come entrambi i principi siano dotati di una solida copertura
costituzionale: il secondo comma dell’art. 111 Cost. (La legge [ne] assicura la
ragionevole durata del processo) abbraccia sicuramente il primo, con il quale anzi vi
è una sostanziale identità; ma altrettanto sicuramente può riconoscersi che
all’interno della disposizione costituzionale trovi accoglienza anche il secondo
principio, ponendosi nel solco della continuità sul cammino verso il giusto processo
regolato dalla legge. Il giudice infatti non potrebbe garantire da solo la ragionevole
durata del giudizio, mentre le parti capziosamente fanno valere le proprie ragioni.
Al contrario, solo il leale rispetto delle regole del gioco da parte di tutti i soggetti
coinvolti nella dinamica processuale può contribuire a rendere il processo non solo
celere ma anche ontologicamente giusto.
Prendendo le mosse da tali condivisibili premesse, pare opportuno inquadrare la
tematica della non contestazione ripercorrendone, innanzitutto, le principali linee
evolutive che si pongono quali antecedenti logici e cronologici all’espresso
riconoscimento legislativo del principio in esame avvenuto, come visto, solo di
recente con l’emanazione della legge 18 giugno 2009, n. 69; alla luce delle
travagliate vicende che, come si vedrà, ne hanno accompagnato la genesi all’interno
del codice di rito si potranno pertanto ricomporre i fili di una disciplina che il
11
In tal senso v., tra tutti, M. TARUFFO, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari,
Laterza, 2009.
12
V. A. CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, Giuffrè, 1995.
Introduzione
14
legislatore, con il nuovo art. 115 c.p.c., pare avere più abbozzato che compiutamente
predisposto. In particolare, le nervature lasciate scoperte dalla riforma del 2009
riguardano la circostanza che il legislatore, nell’introdurre un onere destinato a
gravare in misura non trascurabile in capo alle parti del procedimento, non vi abbia
tuttavia associato né eventuali preclusioni cui soggiace l’esercizio del medesimo, né
puntuali conseguenze processuali scaturenti a seguito della sua inosservanza. Molto
discusse sono infatti le problematiche connesse alle pretese irreversibilità, da un
lato, e vincolatività, dall’altro, della non contestazione: con tali locuzioni si allude,
nel primo caso, alla asserita impossibilità della parte di contestare successivamente
(ma successivamente rispetto a quale termine? V. cap. II, § 3.1.) i fatti provenienti ex
adverso in relazione ai quali inizialmente non si era espressa e, nel secondo caso,
alla assai dibattuta inammissibilità, per il giudice, di fondare il proprio
convincimento disattendendo gli esiti risultanti dalla non contestazione laddove, ad
esempio, egli non sia intimamente convinto della fondatezza dei fatti allegati da una
parte, seppur non contestati dall’altra.
A tal proposito si osserva che, qualora si negasse al giudice la possibilità di opinare
diversamente e fondare di conseguenza il proprio convincimento, che non si
dimentichi, il nostro ordinamento processualcivilistico consacra come libero all’art.
116 c.p.c.
13
, in maniera indipendente e, se del caso, anche in contrasto rispetto a
quanto risulta a seguito di non contestazione, l’effetto che irrimediabilmente ne
scaturirebbe, da più parti denunciato, sarebbe quello di ‘legare le mani al giudice’,
precludendo a costui la possibilità di mettere in discussione gli esiti di un
accertamento soltanto ‘fittizio’, quale quello basato sulla non contestazione.
13
A ben vedere la disposizione richiamata si limita a sancire il principio di ordine generale per il
quale il giudice valuta le prove secondo il proprio prudente apprezzamento; ciononostante, nessuno
dubita che dietro tale formulazione – più blanda rispetto a quella adottata da altri ordinamenti
europei (il § 286 ZPO espressamente menziona il libero convincimento del giudice) – il legislatore
del codice di rito abbia voluto consacrare la piena discrezionalità del giudice nel valutare il materiale
probatorio raccolto nel corso dell’istruttoria del procedimento, potendo vincolarlo, da questo punto
di vista, solo in quei limitati e tassativi casi ove la valutazione di un dato elemento di prova viene
sottratta al prudente apprezzamento del giudice poiché predeterminata, a monte, dal legislatore
stesso, al punto che si parla di prove c.d. legali. Ciò non è privo di rilevanza con riferimento al tema
della non contestazione, dal momento che essa, come il presente lavoro si prefigge di dimostrare,
assume rilevanza sul piano prettamente istruttorio.
Introduzione
15
Il tutto può apparire ancor più drastico ove si rifletta sul fatto che l’onere di
contestazione, che dev’essere necessariamente assolto per non incappare nelle
conseguenze sfavorevoli ora delineate, non riguarda il contumace, nonostante
entrambi gli istituti (non contestazione e contumacia) appartengano al più ampio
genus di inattività processuale. Nel qual caso si insinuerebbe, tra le fila del discorso,
il dubbio di illegittimità costituzionale della disciplina delineata dal codice di
procedura civile, dal momento che fa corrispondere all’inattività meno grave (la non
contestazione) la più rigida efficacia vincolante nei confronti del giudice. E se ciò
per un verso potrebbe trovare la sua giustificazione ideale nell’assunto per cui
dinanzi al magistrato non si va per tacere ma bensì per parlare
14
, per altro verso
presta il fianco ad accuse di irragionevolezza.
Il presente lavoro si prefigge di analizzare se e fino a che punto le ragioni
giustificative sottese all’espediente della non contestazione cui si è poc’anzi
accennato – ragioni che, per un verso, si è visto essere attinenti ad ineludibili
esigenze di economia processuale e che, per l’altro verso, rispondono al tentativo di
richiamare le parti sulla propria condotta processuale, in un’ottica possibilmente
collaborativa – ne autorizzino non solo e non tanto l’adozione nella sede e attraverso
le modalità prescelte dal legislatore del 2009, ma ne rendano altresì auspicabile
un’eventuale estensione, anche ad ambiti non coperti dall’attuale normativa
codicistica. Il riferimento va, in particolare, alle parti contumaciali, che appaiono,
prima facie, irragionevolmente escluse dall’esercizio dell’onere di specifica
contestazione di cui all’art. 115 c.p.c.
L’analisi assumerà come costante punto di confronto e riferimento la
Zivilprozessordnung tedesca, che conosce un utilizzo alquanto esteso del
meccanismo di ficta confessio in cui si concreta il ricorso al principio della non
contestazione (per cui i fatti non contestati si danno, attraverso quella fictio cui si è
fatto sopra riferimento, per avvenuti, quasi che la parte, mediante il proprio silenzio
sul punto, abbia voluto tacitamente confessarli): come avrà modo di osservarsi, il
sistema processualcivilistico tedesco riconosce valore confessorio non solo al
14
L. MORTARA