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alle Regioni. Lo Stato non avrebbe potuto penetrare all’interno di questa
sfera, ma la Regione in nome dell’unità e indivisibilità della Repubblica
avrebbe dovuto rispettare i limiti comunque imposti dalle autorità statali.
Con il passare del tempo si assiste però al superamento di questa
ottica. Si afferma un indirizzo che contesta la possibilità che organi centrali
dello Stato e delle Regioni operino separatamente, ciascuna nel proprio
ambito di competenza.
Si afferma così, il principio di leale collaborazione, che conduce al
consolidamento di un nuovo regionalismo definito “cooperativo” che si
contrappone a quello “garantista”.
Si afferma la convinzione che la Costituzione non intendeva
orientare i rapporti tra Stato e Regione solo nel senso della separazione
delle competenze, ma si proponeva di delineare un modello in cui le
esigenze di garanzia della sfera complessiva delle attribuzioni proprie di
ciascun ente emergessero unitamente ad istanze di leale collaborazione,
dando vita ad un sistema di integrazione delle competenze soprattutto
qualora gli interessi locali si intrecciassero con quelli nazionali.
Il principio di leale collaborazione però non era previsto
espressamente nella Costituzione. Così esso è Stato introdotto dalla
giurisprudenza costituzionale, dalla prassi legislativa ordinaria e dalle leggi
costituzionali.
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L’intervento della giurisprudenza è stato utile soprattutto ad indicare
la via da percorrere tenuto conto del carattere frammentario e discontinuo
del regionalismo “cooperativo” così come delineato dalla Costituzione.
Inizialmente la Corte Costituzionale ha invocato il principio
collaborativo senza specifici richiami a disposizioni particolari, come
principio costituzionale inespresso. Per molti anni le pronunzie della Corte
Costituzionale si sono basate su vaghe indicazioni o sulle pronunzie
precedenti. Solo a partire dalla metà degli anni ’90, la Corte ha indicato il
fondamento concreto cui bisogna riferirsi quando si fa riferimento alla leale
collaborazione, si tratta dell’art. 5 Cost. considerato fondamento diretto del
principio cooperativo. La Repubblica quindi, nella salvaguardia della sua
unità adegua i propri principi e i propri metodi alle esigenze delle
autonomie locali. Il decentramento viene garantito dalla Costituzione e con
esso gli strumenti per promuoverlo, tra cui il principio collaborativo.
Anche il legislatore Statale è intervenuto con un opera di riordino
cercando di superare la forma di regionalismo “organicista” che si stava
delineando. La l. n. 142 del 1990 è la prima legge, che in attuazione
dell’ormai abrogato art. 128 Cost., ha dettato i principi fondamentali in
materia di autonomie locali, regolamentandone per la prima volta, la
potestà statutaria.
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Per la legge 142, allo Stato spetta il compito di definire il carattere
della autonomia e le funzioni di Comuni e Province, mentre le Regioni
organizzano l’esercizio delle proprie competenze amministrative a livello
locale, attraverso le Province e i Comuni, e disciplinano la cooperazione
dei Comuni e delle Province tra loro e con la Regione, al fine di realizzare
un efficiente sistema delle Autonomie Locali. Nonostante i buoni propositi
la l. 142/90 realizza un sostanziale insuccesso. Tale riforma avrebbe dovuto
procedere ad una redistribuzione delle competenze ma ha dato vita al cd.
“centralismo regionale”, che ha rappresentato un ostacolo al processo di
ricomposizione delle competenze a livello regionale e locale.
La l. 142/1990 ha comunque il merito di prospettare una nuova
impostazione dei rapporti tra le Regioni e gli Enti Locali, basata su forme
di cooperazione tra i diversi livelli di governo nell’ambito regionale.
L’assetto dei rapporti tra Stato-Regioni-Enti Locali è stato riformato
ulteriormente e in modo più incisivo dalla legge 15 marzo 1997 n. 59,
prima “legge Bassanini”, e dai decreti legislativi che l’hanno seguita, in
particolare il d.lgs. 112/1998, che introduce una nuova modalità di
allocazione delle competenze: una volta definite le competenze indivisibili
dello Stato e di altri organismi pubblici, quali le autorità indipendenti, la
legge attribuisce alle Regioni e agli Enti Locali le funzioni residue secondo
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nuovi criteri, ispirati ai principi di sussidiarietà, di adeguatezza, di
differenziazione e di completezza.
La riforma ha invertito il rapporto tra lo Stato, le Regioni e gli Enti
Locali nella distribuzione delle funzioni amministrative; da un sistema
ancora incentrato sull’amministrazione statale si è passati ad un sistema che
individua nelle Regioni e nelle Autonomie Locali i destinatari della
attribuzione della maggior parte delle competenze.
Viene così a cessare la coincidenza tra potere legislativo e
amministrativo ispirata al principio del parallelismo; l’attuazione
regolamentare delle leggi statali è normalmente affidata alle Regioni che
conservano solo le funzioni amministrative destinate alla collettività
regionale, mentre la generalità dei compiti e delle funzioni amministrative è
attribuita ai Comuni, alle Province e alle Comunità montane, in base ai
principi indicati all'articolo 4, comma 3, della citata l. 59/1997, secondo le
loro dimensioni territoriali, associative ed organizzative, con esclusione
delle sole funzioni che richiedono l'unitario esercizio a livello regionale.
Il sistema introdotto con la l. 59/1997, il cosiddetto “federalismo
amministrativo”, detta per la prima volta le condizioni per realizzare in
modo effettivo il governo locale.
Il sistema di ripartizione previsto dalla l. 59/1997 è stato attuato con
il d.lgs. 112/1998 che concretizza un forte decentramento a favore di
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Regioni e Enti Locali in quattro grandi settori: sviluppo economico e
attività produttive; territorio, ambiente e infrastrutture; servizi alla persona
ed alla comunità; polizia amministrativa regionale e locale. Il conferimento
di funzioni comprende anche quelle di organizzazione e le attività connesse
e strumentali all’esercizio delle funzioni e dei compiti.
Lo Stato mantiene un potere di intervento sostitutivo qualora la
accertata inattività delle Regioni e degli Enti Locali comporti
inadempimento agli obblighi derivanti dall'appartenenza alla Unione
europea o pericolo di grave pregiudizio agli interessi nazionali.
Dopo la riforma del federalismo, definita “a Costituzione invariata”
si è avvertita la necessità di adeguare ad essa la nostra Carta costituzionale.
Passo, questo, che avrebbe dovuto precedere la riforma normativa. Si
intraprende, così, la riforma della Costituzione in senso federale attraverso
alcune leggi costituzionali, le più importanti di esse sono: la legge Cost. n.
1 del 1999 e la legge Cost. n. 3 del 2001. La legge Cost. n. 1 del 1999 ha
anticipato la riforma costituzionale del 2001 perfezionando l’autonomia
statutaria delle Regioni, modificando il procedimento, il contenuto e i limiti
dello Statuto regionale.
È la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 quella che realizza
la più ampia modifica della Costituzione. La riforma comporta la revisione
degli articoli 114-133 della Costituzione, trasformando in profondità
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l’ordinamento istituzionale della Repubblica. La parte che qui rileva è la
ripartizione della potestà legislativa e amministrativa e quindi in particolare
la revisione degli articoli 117 e 118 Cost. La ripartizione delle competenze
tra i diversi livelli di Governo costituisce l’elemento centrale di una riforma
improntata ai principi del federalismo. Infatti, uno dei criteri classici su cui
fondare la distinzione tra forme di Stato regionale e federale, è
identificabile nella ripartizione delle materie fra centro e periferia.
La Costituzione del 1948 configurava le Regioni quali enti a
competenze enumerate; l’art. 117 Cost. individuava le materie in cui le
Regioni avevano competenza legislativa, e di conseguenza, sulla base del
principio del parallelismo delle funzioni, competenza amministrativa. Con
la l. n. 3/2001 viene meno questo principio e viene invertita la clausola
dell’enumerazione. Per quanto riguarda le funzioni amministrative, viene
introdotto nell’art. 118 Cost. il principio di sussidiarietà, ovvero
l’attribuzione delle competenze in via generale al governo territoriale più
vicino ai cittadini.
La legge n. 131 del 5 giugno 2003 “Disposizioni per l’adeguamento
dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre
2001, n. 3”, individua le disposizioni necessarie per conformare
l’ordinamento vigente alle nuove norme costituzionali immediatamente
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applicative a seguito dell’entrata in vigore della legge costituzionale
3/2001.
Il criterio ispiratore delle modifiche che devono interessare
l’ordinamento è ancora una volta il principio di leale collaborazione tra lo
Stato, le Regioni e gli enti locali.
Per questo la l. 131/2003 ha assegnato alle Conferenze un ruolo
rilevante nel processo di attuazione del titolo V della Costituzione,
riaffermandone il ruolo di sede privilegiata di confronto e dialogo tra gli
enti territoriali della Repubblica.
Il ricorso agli istituti della cooperazione tra Stato e Regioni è stato
graduale e progressivo, anche a causa del ritardo con cui sono state istituite
le Regioni a statuto ordinario. Abbiamo assistito alla evoluzione da forme
di forte competitività tra gli enti territoriali a forme di cooperazione.
L’affermazione progressiva del principio collaborativo ha reso necessaria
l’individuazione di istituti di collaborazione.
Con il D.P.C.M. del 1983 veniva realizzata una delle possibili forme
di raccordo tra istituzioni decentrate e Governo: la Conferenza permanente
per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e
Bolzano. Le caratteristiche più evidenti della Conferenza stavano nella
potenziale pariteticità degli interlocutori che venivano posti intorno allo
stesso tavolo.
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Nel 1996 viene istituita la Conferenza Stato-Città e autonomie locali
e nel 1997 la Conferenza Unificata che riunisce le due precedenti per le
questioni di interesse comune.
In ogni Regione a Statuto ordinario è istituito un “Rappresentante
dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie” (art. 10),
funzionalmente dipendente dalla Presidenza del Consiglio, le cui funzioni,
elencate in dettaglio, sono svolte dal Prefetto del Capoluogo di Regione. In
particolare, questi eserciterà in sede regionale le funzioni statali che erano
proprie del soppresso Commissario di Governo. In particolare, curerà la
realizzazione delle attività connesse all'attuazione del conferimento delle
funzioni amministrative dell'art. 118 della Costituzione.
Nel contesto della forte federalizzazione del nostro sistema
istituzionale attuata dal Titolo V riformato, l’istituzione di una “Camera
delle Regioni” si rivela del tutto necessaria al fine di un raccordo efficace
tra scelte statali, regionali, e sub-regionali. Meno scontata è tuttavia,
quando si scende nel dettaglio, l’effettiva natura dei compiti e della
“missione” da attribuire al nuovo Senato federale.
Il d.d.l. Cost. di riforma dell’intera seconda parte della Costituzione,
che, tra il 2004 ed il 2005, è stato approvato in seconda lettura dai due rami
del Parlamento e bocciato nel referendum popolare dei giorni 25 e 26
giugno 2006 ha tentato di creare il “Senato federale della Repubblica” e ha
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anche previsto all’art. 118 la costituzionalizzazione del sistema delle
Conferenze. Il disegno di legge non ha avuto successo, nonostante avrebbe
colmato la più vistosa lacuna istituzionale contenuta nella l. n. 3 del 2001
che ha mancato di prevedere le sedi strutturali dei raccordi
interistituzionali. La costituzionalizzazione delle Conferenze si sarebbe
rivelata utile soprattutto in assenza di una trasformazione del Senato in
senso federale, ma la funzionalità degli organismi di cooperazione non
dipende necessariamente dal loro riconoscimento costituzionale.
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Capitolo I
LA QUESTIONE REGIONALE: PROFILO STORICO
1.1 Evoluzione del regionalismo italiano
I primi segni del regionalismo italiano sono rintracciabili nel periodo
dell’Unità d’Italia, che vide riunirsi in una sola entità ben sette Stati
preesistenti, composti da popoli diversi tra loro. Furono elaborati diversi
progetti che proponevano o un rigido centralismo che consolidasse la
conseguita unità, o un’articolazione di poteri decentrati. Nonostante vari
tentativi l’Unità d’Italia avvenne attraverso l’assorbimento delle entità
statali pre-unitarie nell’originario Regno di Sardegna e l’estensione
dell’ordinamento piemontese, dando vita ad uno Stato fortemente
centralizzato. Le tendenze federaliste infatti furono sconfitte e il nuovo
ordinamento, fondato sulla legge sabauda 23 ottobre 1859, bandì ogni
ipotesi di federalismo e operò un forte accentramento.
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L’unità debole e precaria non consentì infatti neanche l’introduzione
di un ordinamento decentrato meramente amministrativo. Le paure per una
nuova disgregazione appena ricomposta e la valutazione del notevole
impegno economico che avrebbe caratterizzato una riforma regionalista,
contribuirono all’abbandono di un progetto lungimirante come quello del
decentramento
1
.
Il dibattito sul regionalismo continuò e si protrasse fino all’indomani
della prima guerra mondiale. Nel 1919 Don Luigi Sturzo inserì nel
programma del Partito Popolare un progetto di definizione regionale dello
Stato italiano. Con l’avvento del fascismo ogni progetto di decentramento
perse di valore a causa dell’affermarsi di una concezione dello Stato
totalmente centralistica. Perché si aprissero nuove prospettive si dovette
attendere la caduta del fascismo.
Dopo la caduta del regime dittatoriale si riaprì il dibattito e i partiti
maggiormente favorevoli all’adozione di forti autonomie regionali erano la
Democrazia Cristiana, il Partito d’Azione, il Partito Repubblicano e una
parte del Partito Liberale. Solo in un secondo momento i Partiti Socialista e
Comunista decisero di confluire nello schieramento regionalista
2
.
Infine bisogna attendere il 1948 per giungere alla soluzione
regionale.
1
A. Anzon, I poteri delle Regioni nella transizione dal modello originario al nuovo assetto
costituzionale, Torino, G. Giappichelli Editore, 2003, pag. 61.
2
P. Cavalieri, L’evoluzione dello Stato regionale in Italia, Padova, Cedam, 1997, pag. 15-17
15
1.2 La formazione delle Regioni di diritto speciale
Prima dell’approvazione della Costituzione, per arginare spinte
separatiste furono create le prime Regioni. Nel 1944 il Governo Badoglio
istituì un “Alto Commissario” per la Sicilia e una “Consulta regionale”, con
il compito di elaborare proposte per l’Ordinamento regionale siciliano. La
Consulta elaborò lo Statuto che successivamente fu adottato dal Governo
con il D.lgs. 15 maggio 1946, n. 455.
Tali organi furono il risultato di un forte movimento separatista.
Nello stesso periodo organi simili furono concessi alla Valle d'Aosta, in cui
erano presenti fermenti separatisti collegati alle identità bilingue.
Sempre per preservare gruppi linguistici fu istituita la Regione
Trentino-Alto Adige e le due Province autonome di Trento e Bolzano, il cui
Statuto fu elaborato dal Governo centrale.
La quinta Regione a Statuto speciale, il Friuli-Venezia Giulia, fu
costituita molto più tardi nel 1963, per ragioni politiche legate agli esiti
della seconda guerra mondiale.
A questo punto bisognava decidere se estendere tale forma di
decentramento a tutto il paese.