4
Introduzione
L‟obiettivo principale di questo lavoro di tesi consiste nell‟analisi
approfondita della cosiddetta politica regionale comunitaria mediante
la prospettiva della multilevel level governance, in base alla quale le
modalità organizzative dell‟esercizio del potere si fondano sulla valo-
rizzazione delle esigenze partenariali e del principio di leale coopera-
zione, allo scopo di un maggiore coordinamento tra i diversi soggetti
istituzionali coinvolti.
In particolare, il trasferimento di poteri all‟Unione Europea ha
comportato, inevitabilmente, all‟individuazione di modelli organizza-
tivi e procedurali strumentali al perseguimento delle finalità di coesio-
ne. In tale scenario, assume notevole rilevanza il principio del partena-
riato , inteso come corollario applicativo del principio di sussidiarietà.
Esso tende ad inquadrare l‟esercizio del potere secondo una logica di
compartecipazione, cooperazione e integrazione dei diversi livelli isti-
tuzionali (sovrastatali, statali e infra-statuali), piuttosto che in termini
di separazione tra gli stessi.
Per altro verso, la necessaria complementarietà in senso orizzontale
quanto verticale delle politiche – delineate all‟interno di procedimenti
coinvolgenti l‟Unione Europea, lo Stato e le Regioni – ha posto come
inesorabile il riadeguamento del governo dell‟economia alle finalità di
riequilibrio territoriale dello sviluppo economico. In questo senso, il
corpus normativo comunitario prevede una stretta relazione tra il per-
seguimento della coesione e una strategia diretta a definire una politi-
ca regionale europea unitaria, all‟interno della quale la complementa-
rietà verticale tra le politiche europee e quelle nazionali appare dove-
5
rosa per ridurre efficacemente i divari di sviluppo socioeconomico tra
i diversi territori europei.
Siffatte tematiche verranno analizzate attraverso quattro differenti
punti di vista.
Nel primo capitolo affronteremo la questione riguardante il rapporto
tra le Regioni e l‟Unione Europea da un‟ottica prevalentemente inter-
na. Più dettagliatamente, evidenzieremo come sia accresciuta la parte-
cipazione delle autonomie regionali ai processi decisionali comunitari,
a seguito delle riforme costituzionali e legislative susseguitesi nel cor-
so degli anni.
Nel secondo capitolo presenteremo un quadro analitico
dell‟evoluzione della politica regionale europea, sottolineando il fatto
che dall‟Atto Unico (1986) in poi, la formulazione di una politica re-
gionale basata sul mandato di riforma dei Fondi Strutturali (1988) ha
modificato significativamente il rapporto tra i livelli istituzionali a fa-
vore del livello sub-nazionale. Di conseguenza, la nuova politica eu-
ropea di sviluppo imboccata alla fine degli anni ottanta ha avuto un ef-
fetto di stimolo esterno nella riconfigurazione dei rapporti Stato - Re-
gioni - Enti locali (in maniera diversa all‟interno di ciascun Paese).
Pertanto, il cambiamento dei rapporti istituzionali con il livello euro-
peo si è riflesso sulle relazioni istituzionali all‟interno di ogni Stato,
dirigendoli verso un più marcato decentramento.
Nel terzo capitolo ci occuperemo, invece, delle innovazioni intro-
dotte dai regolamenti in materia di Fondi Strutturali per il periodo
2007-2013. Sottolineeremo, innanzitutto, il rafforzamento delle go-
vernance per tutti i livelli istituzionali e l‟individuazione, da parte del
legislatore comunitario, dell‟obiettivo Cooperazione territoriale diret-
to ad intensificare la cooperazione – transfrontaliera e transnazionale –
6
attraverso la realizzazione di reti di cooperazione e di scambio di e-
sperienze sull‟intero territorio europeo. Queste modifiche sono recepi-
te all‟interno del Quadro Strategico Nazionale per il periodo 2007-
2013, nel quale si manifesta la necessità di potenziare il coordinamen-
to e l‟integrazione tra i differenti strumenti di intervento. In altre paro-
le, il documento strategico nazionale prevede un sistema di program-
mazione e attuazione fondato, da un lato, sulla reciprocità dei principi
di leale cooperazione e di mutuo vantaggio, dall‟altro, su requisiti e
criteri idonei a rendere i Programmi Operativi più efficaci, coerenti,
integrati nella programmazione complessiva e aperti alla partecipazio-
ne effettiva di una pluralità di interlocutori istituzionali.
In conclusione, nel quarto capitolo descriveremo le principali pro-
poste attinenti alla riforma della politica di coesione per il periodo
2014-2020, focalizzandoci sulle loro implicazioni per il territorio ita-
liano. Il peso ed il ruolo che assumerà la politica di coesione nel pros-
simo periodo di programmazione sarà di grande importanza per il no-
stro Paese, soprattutto nel momento in cui: a) la mancata realizzazione
di una politica regionale unitaria e, con essa, di una forte politica na-
zionale finanziata dal FAS è ormai chiara; b) la controversa attuazione
del federalismo fiscale rende la questione del supporto alle Regioni in
ritardo di sviluppo di maggiore attualità.
7
Capitolo Primo
LE REGIONI E L’UNIONE EUROPEA: LA PROSPETTIVA
INTERNA
1.1 La complessità della questione
L‟impronta internazionalistica con cui nasce l‟organizzazione co-
munitaria ha impedito il riconoscimento delle autonomie regionali
all‟interno dei Trattati istitutivi. Se, infatti, per alcuni aspetti l‟Unione
Europea ha acquisito una connotazione sui generis in riferimento al
ruolo delle Regioni nello scenario europeo, le istituzioni europee fati-
cano ancora a riconoscere una soggettività autonoma agli enti sub-
statali
1
.
Queste motivazioni hanno spinto molti studiosi ad avviare, agli al-
bori del XXI secolo, una più accurata riflessione sul ruolo delle auto-
nomie territoriali nell‟ordinamento europeo. La questione è di notevo-
le rilevanza per almeno tre aspetti
2
.
Il primo fa riferimento alla legittimazione democratica delle deci-
sioni sovranazionali, poiché nel momento in cui il baricentro del pote-
re pubblico si sposta verso l‟alto, ossia verso le istituzioni
dell‟Unione, la distanza tra il cittadino e le sedi istituzionali aumenta.
Di conseguenza, diminuisce la percezione degli individui di essere
parte attiva di una comunità de facto. Il coinvolgimento delle Regioni
e delle autonomie locali nei processi decisionali ultrastatali costitui-
sce, dunque, uno dei rimedi principali. La stessa Commissione ne ha
1
A tal proposito si rimanda a L. TORCHIA, “Regioni e Unione Europea: temi e problemi”, in
Le Regioni, n. 3-4, 2000, pp. 495-500.
2
M. SAVINO, “Regioni e Unione Europea: il mancato “aggiramento” dello Stato”, in Le Re-
gioni, n. 3-4, 2007, pp. 434-435.
8
evidenziato l‟importanza proponendo il rafforzamento della partecipa-
zione degli enti sub-nazionali al decision making europeo, in quanto
istituzioni politiche più vicine ai cittadini
3
.
Il secondo motivo attiene ad un aspetto di ordine efficientistico o
funzionale. Regioni ed enti locali rappresentano, infatti, i principali
terminali di esecuzione dell‟ordinamento europeo. La loro consulta-
zione nella c.d. fase ascendente permetterebbe di anticipare la solu-
zione di problematiche attuative che altrimenti devono essere fronteg-
giate, nella c.d. fase discendente, da enti territoriali con differente gra-
do di capacità operativa. Tale aspetto attiene, quindi, sia all‟efficacia
(in termini di capacità di problem-solving), quanto all‟effettività del
processo decisionale comunitario.
Il terzo motivo, infine, è di natura costituzionale. Alcuni Stati euro-
pei sono caratterizzati da ordinamenti federali (Germania, Belgio, Au-
stria) o regionali (Italia, Spagna, Regno Unito), nei quali le competen-
ze legislative e governative sono distribuite tra i diversi livelli territo-
riali. Il trasferimento di alcune competenze a livello europeo non solo
comprime gli spazi di autonomia regionale ma, in mancanza di neces-
sari strumenti di partecipazione al processo decisionale europeo, fini-
sce altresì per alterare la distribuzione dei poteri sul piano interno.
Queste motivazioni, disapprovate dal Comitato delle Regioni e dal
Parlamento Europeo, convergono sul c.d. pluralistic deficit mostrato
dall‟ordinamento comunitario. L‟Unione europea professa, da una
parte, la sua adesione al principio pluralistico, dall‟altra, invece, si di-
mostra incapace – o avversa l‟idea – di assegnare al livello territoriale
un peso concreto nei suoi processi decisionali. Ciò proviene
3
Sulla questione si rimanda a F. MORATA, “Come migliorare la governance democratica eu-
ropea con le Regioni”, in Le istituzioni del federalismo, n. 1, 2004, pp. 23-41.
9
dall‟impostazione stato-centrica, tipicamente internazionalistica, la
quale condiziona ancora la struttura istituzionale europea.
Ai tre argomenti citati, favorevoli a una integrazione più intensa
delle autonomie territoriali dell‟Unione, si possono contrapporre delle
motivazioni speculari
4
. Per quanto concerne il profilo democratico, la
partecipazione diretta degli enti sub-statali al decision making europeo
potrebbe affievolire la parallela promozione degli interessi unitari da
parte delle Stato e, quindi, compromettere la qualità della rappresen-
tanza democratica sul versante sopranazionale. In merito al profilo ef-
ficientistico, l‟attuazione decentrata del diritto europeo risulta molte
volte tardiva e disfunzionale a seguito dei ricorrenti conflitti di compe-
tenza tra Stato e Regioni, nonché della superflua moltiplicazione di at-
ti esecutivi regionali e locali. Sotto il profilo costituzionale, infine, la
struttura bi-dimensionale europea non discende da un‟antica imposta-
zione culturale, bensì proviene dal delicato equilibrio istituzionale
sancito nei Trattati.
L‟argomento del regionalismo in Europa è - come già si deduce da
questi primi cenni - molto complesso. L‟analisi seguente è, dunque,
diretta ad osservare le dinamiche del regionalismo europeo in una du-
plice prospettiva: prima comunitaria e poi statale.
1.2 Dal regionalismo funzionale a quello istituzionale
L‟Unione Europea presenta, sin dalle sue origini, una peculiare
commistione di elementi intergovernativi e sovranazionali, la quale
impedisce la precisa collocazione tra le organizzazioni internazionali o
4
M. SAVINO, “Regioni e Unione Europea …”, op. cit., p. 436.
10
tra gli stati federali
5
. Nei Trattati istitutivi poteva annoverarsi, fra gli
elementi di natura intergovernativa, l‟esclusione della dimensione isti-
tuzionale regionale. Le Regioni non facevano parte dei c.d. “interlocu-
tori privilegiati” delle istituzioni europee, né erano titolari di diritti e
di doveri “speciali”. Esse venivano, piuttosto, contemplate in quanto
aree di possibili squilibri socio-economici, i quali andavano attenuati
per consentire l‟unità delle economie degli Stati membri. In questo
contesto, la partecipazione al processo decisionale sovranazionale ve-
niva considerata esclusivo appannaggio degli esecutivi statali, poiché
la maggior parte degli Stati membri presentava una struttura centrali-
stica, ad eccezione della Repubblica Federale Tedesca e dell‟Italia,
con un regionalismo ancora “parziale”, ossia contraddistinto dalla sola
presenza delle Regioni a Statuto speciale
6
.
L‟indifferenza della Comunità europea nei confronti
dell‟articolazione territoriale interna degli Stati rimase immutata, so-
stanzialmente, fino alla metà degli anni ‟80 del XX secolo. Diversi
fattori – la maturazione del processo federale in alcuni ordinamenti (Il
Belgio), l‟adesione di nuovi Stati con struttura autonomista (la Spa-
gna) e, in ultimo, l‟espansione delle competenze comunitarie (Atto
Unico del 1986) – contribuirono ad accrescere l‟insoddisfazione verso
la Landesblindheit o “cecità federale” dell‟ordinamento comunitario
nei riguardi delle Regioni
7
.
Una differente impostazione cominciava ad affermarsi nel diritto
europeo a seguito dell‟approvazione del regolamento n. 2088/85 del
Consiglio, riguardante i c.d. Programmi mediterranei integrati. In tali
5
G. IURATO, “L‟Ue e la rappresentanza territoriale regionale”, in Le Regioni, n. 4, 2006, p.
681.
6
A. D’ATENA, “Il doppio intreccio federale: le Regioni nell‟Unione Europea”, in Le Regioni,
n. 6, 1998, p. 1402.
7
H. P. IPSEN cit. in A. D‟ATENA, op. cit., in Le Regioni, n.6, 1998, p. 1401.
11
programmi si prevedeva un coinvolgimento effettivo delle istituzioni
territoriali nella fase di elaborazione ed attuazione delle decisioni co-
munitarie. Più dettagliatamente, alle Regioni o alle altre autonomie
territoriali previste da ciascun ordinamento nazionale veniva assegnata
una pluralità di compiti, tra i quali quello di elaborare il programma
(art. 5, II comma), di stipulare contratti di programma con la Commis-
sione, lo Stato membro e le altri parti interessate (art. 9 e Allegato IV),
di presentare all‟esecutivo comunitario le domande di pagamento dei
contributi concessi (art. 16, I comma).
Nello stesso verso si muoveva il successivo regolamento n. 2052/88
del Consiglio, relativo alla disciplina dei fondi strutturali. Il principio
innovativo sancito in questo provvedimento normativo è quello della
partnership, il quale implica una “stretta concertazione tra la Commis-
sione, lo Stato membro interessato e le competenti autorità designate
da questo ultimo a livello nazionale, regionale, locale o altro, i quali
agiscono in qualità di partner che perseguono un obiettivo comune
[…]. La partnership è operante in fatto di preparazione, finanziamen-
to, misure di accompagnamento e valutazione della azioni”
8
. Il relati-
vo regolamento di attuazione
9
prevedeva le attribuzioni specifiche de-
gli enti sub-nazionali, stabilendo che in base al principio di sussidia-
rietà, i piani dovevano essere elaborati “al livello geografico ritenuto
più appropriato […] dalle autorità competenti designate dallo Stato
membro a livello nazionale, regionale o altro” (art. 5, I comma); do-
vevano essere predisposte, non solo sul versante nazionale, ma anche
su quello regionale e locale “le strutture amministrative adeguate per
garantire l‟attuazione integrata del programma” (art. 13, I comma, let-
8
Cfr. art. 4, I comma, regolamento n. 2052/1988.
9
Regolamento del Consiglio n. 4253/88, del 19 dicembre 1988, recante disposizioni di appli-
cazione del regolamento n. 2052/88.
12
tera c) ); si delineava la partecipazione degli enti regionali e locali
all‟attuazione dei programmi anche in termini finanziari, in una pro-
spettiva di complementarietà (art. 17, II comma). Gli stessi principi di
sussidiarietà, partenariato e complementarietà, finalizzati a una mag-
giore valorizzazione del ruolo delle Regioni, vengono rafforzati ulte-
riormente, anche nei successivi regolamenti del 1999 e del 2006, i
quali danno impulso alla cooperazione transfrontaliera interregiona-
le
10
.
Lo spostamento verso un‟integrazione di tipo istituzionale avvenne
all‟inizio degli anni ‟90 a seguito dell‟approvazione del Trattato di
Maastricht. Le principali innovazioni introdotte dal seguente trattato
consistevano nell‟istituzione del Comitato delle Regioni (artt. 263-265
Tr. CE) e nella possibilità di includere esponenti territoriali nelle dele-
gazioni che rappresentano lo Stato membro in Consiglio (art. 203 Tr.
CE).
Il Comitato delle Regioni
11
rappresenta l‟organo nel cui ambito le
Regioni possono partecipare alla fase centrale dell‟iter decisionale
tramite la formulazione di pareri. Tali pareri assumono una rilevanza
ridotta poiché non sono mai vincolanti per i destinatari e, soprattutto,
la loro mancata emissione non pregiudica la continuazione del proces-
so decisionale europeo e il loro non mancato accoglimento non neces-
sita una giustificazione. Il Comitato ritiene insufficienti, inoltre, i set-
tori in cui ha il diritto di essere sentito, anche dopo l‟ampliamento av-
10
Per un approfondimento di tali aspetti, si rimanda ai successivi capitoli in cui verrà analizza-
ta l‟evoluzione della politica di coesione economica, sociale e territoriale.
11
Per una visione più completa dell‟argomento si rimanda a A. M. CECERE, “La dimensione
regionale della Comunità Europea. Il Comitato delle Regioni”, in L. CHIEFFI (a cura di), Regioni
e dinamiche di integrazione europea, Torino, 2003, pp. 175-209.
13
venuto con il Trattato di Amsterdam
12
. Ciascun Paese ha un numero di
seggi nel Comitato che non rispecchia la sua articolazione territoriale
interna e ha la possibilità di decidere liberamente le modalità di sele-
zione dei rappresentanti e la distribuzione degli stessi tra enti regionali
e locali. Il Comitato delle Regioni è, in altri termini, un organo dotato
di scarsa coesione interna, in cui si riscontra un ampia eterogeneità
delle rappresentanze locali e regionali. Un ulteriore debolezza di tale
organo è stata eliminata, invece, con il Trattato di Nizza, in cui è stato
previsto che i componenti del Comitato devono essere membri di un
ente regionale o locale oppure devono essere politicamente responsa-
bili dinanzi ad un‟assemblea democraticamente eletta.
In riferimento, poi, alla facoltà di accesso al Consiglio prevista
dall‟art. 203 Tr. CE, non si tratta, a nostro avviso, di un meccanismo
di rappresentanza regionale o locale. Si fa riferimento, in altre parole,
ad un meccanismo di rilievo intra-statale: la composizione della rap-
presentanza nazionale e la definizione della posizione da difendere
devono essere stabiliti in cooperazione con il governo centrale nella
fase preparatoria interna.
Una vera innovazione può essere rappresentata, invece, dal nuovo
inquadramento del principio di sussidiarietà, il quale continua a disci-
plinare l‟esercizio delle competenze tra Unione e Stati membri, tenen-
do conto sia del livello centrale, quanto di quello regionale e locale
12
A seguito del Trattato di Amsterdam, Il Comitato può esprimere un parere verso gli atti della
Commissione, del Consiglio dei Ministri e del Parlamento Europeo solo nelle materie di interesse
regionale prescritte nel Trattato. Le materie sono le seguenti: istruzione (art. 149.4 del TCE), cul-
tura (art.151. 5 del TCE), sanità pubblica (art. 152.5 del TCE), reti transeuropee di infrastrutture
dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell‟energia (art. 156.1 e 156.3 del TCE), politica di coe-
sione economica e sociale (art. 159 ultimo comma, artt. 161-162 del TCE). A queste vanno ag-
giunte trasporti, protezione dell‟ambiente, formazione professionale, l‟applicazione del Fondo so-
ciale europeo, la tutela e la sicurezza del lavoro e la promozione dell‟occupazione. In questo senso
M. BRUNAZZO, “La UE e le regioni: i canali di accesso istituzionali”, in M. BRUNAZZO, Le
regioni italiane e l‟Unione Europea. Accessi istituzionali e di politica pubblica, Roma, 2005, p.
29.
14
(art. 3-ter, TLisb. che sostituisce l‟art. 5 TCE). Questo risalta mag-
giormente nel Protocollo sull‟applicazione dei principi di sussidiarie-
tà e proporzionalità (Prot.), allegato al TLisb. (il quale riforma il me-
desimo protocollo già introdotto dal Trattato di Amsterdam). Con esso
si concretizza un coinvolgimento delle assemblee regionali nella fase
preparatoria degli atti europei: nella previsione di un meccanismo di
controllo politico ex ante degli atti europei (c.d. early warning
system), ai fini di una giusta applicazione dei principi di sussidiarietà e
proporzionalità, i Parlamenti nazionali – titolari del potere di controllo
– possono consultare i Parlamenti regionali dotati di poteri legislativi
(art. 6, Prot.). Al Comitato delle Regioni viene riconosciuta la facoltà
di ricorrere alla Corte di Giustizia avverso gli atti europei lesivi del
principio in esame, anche relativamente a quelli per i quali è prevista
la sua consultazione (art. 8, Prot.). Significativa è la nascita di una “re-
te sulla sussidiarietà”, creata dal Comitato delle Regioni in supporto al
meccanismo dell‟early warning allo scopo di rendere maggiormente
accessibili le informazioni e assicurare, dunque, una partecipazione
regionale più attiva nel sistema di controllo. La valorizzazione del
ruolo del Comitato delle Regioni avviene, inoltre, anche mediante il
riconoscimento, a siffatto organo, di un diritto di ricorso alla Corte di
Giustizia a tutela delle sue prerogative (art. 230, III comma, TLisb.
che modifica l‟art. 230 TCE). Una norma, quest‟ultima, certamente fi-
nalizzata a rendere più incisivo il ruolo del Comitato tanto nella sua
funzione consultiva, quanto nella fase di “monitoraggio” del principio
di sussidiarietà
13
.
13
A. M. RUSSO, “La sussidiarietà tra relazionalità e asimmetria: la quadratura della comples-
sa „elissi europea‟”, in A. M. RUSSO, Pluralismo territoriale e integrazione europea: Asimmetria
e relazionalità nello Stato autonomino spagnolo, Napoli, 2010, pp. 220-243.
15
Attraverso queste modifiche susseguitesi nel corso degli anni si è
realizzata certamente una ristrutturazione dello spazio politico euro-
peo, in cui le Regioni hanno accresciuto la loro rilevanza all‟interno
del decision making europeo. Esse hanno progressivamente esteso il
proprio campo di azione anche nell‟arena europea, partecipando –
seppur debolmente – ai processi decisionali dell‟Unione europea. Ciò
ha dato origine all‟approccio della multi-level governance, in cui si ri-
tiene che gli Stati non detengono più né singolarmente, né collettiva-
mente il monopolio del processo decisionale europeo, risultante
dall‟interazione tra attori provenienti dalle arene sovrastatale, statale e
sub-statale.
1.3 La partecipazione delle Regioni alla formazione e attuazione
degli atti normativi comunitari: la disciplina antecedente alla rifor-
ma del Titolo V
Per quanto riguarda il rapporto tra Regioni e Unione europea è ne-
cessario distinguere due periodi temporali: uno antecedente alla rifor-
ma del Titolo V e un altro relativo all‟entrata in vigore della legge di
revisione costituzionale n. 3 del 2001. La Costituzione del 1948 non
faceva, infatti, alcuna menzione ai rapporti con l‟ordinamento comuni-
tario in quanto, com‟è risaputo, le Comunità europee non esistevano
ancora
14
. Di conseguenza, nello scenario costituzionale originario, co-
sì come delineato dalla Carta fondamentale, non si ritrovava alcuna
disposizione riguardante la partecipazione degli enti regionali
all‟ordinamento comunitario, tanto nella fase ascendente, quanto in
14
In tal senso è opportuno ricordare che il Trattato istitutivo della CECA fu firmato a Parigi nel
1951.
16
quella discendente. D‟altra parte, almeno all‟inizio, lo stesso diritto
comunitario non era considerato in modo sostanzialmente differente
dal diritto internazionale pattizio, poiché essendo pacifica la compe-
tenza dello Stato in materia di rapporti internazionali, neppure si po-
neva allora un vero e proprio problema di partecipazione delle Regioni
ai processi decisionali in seno alla Comunità
15
.
Prima della revisione costituzionale del 2001, peraltro, l‟art. 117
Cost. non faceva neppure riferimento alla politica estera: dal momento
che nel modello di riparto della potestà legislativa precedente alla ri-
forma lo Stato era l‟ente a potestà legislativa generale e residuale, non
sembrava necessario includere il potere estero nell‟elenco delle mate-
rie di cui all‟art. 117, I comma, Cost., dando per scontato la compe-
tenza statale al riguardo. In ambito di rapporti internazionali delle Re-
gioni, quindi, l‟unico riferimento esplicito da individuare era previsto
dagli statuti regionali speciali. La maggior parte degli statuti speciali,
infatti, disponeva che le istituzioni regionali dovessero esercitare la
potestà legislativa in armonia – tra l‟altro – con gli obblighi interna-
zionali dello Stato
16
.
Questa situazione, però, è progressivamente cambiata a seguito del-
la crescente rilevanza assunta dal diritto comunitario e dal rafforza-
mento delle Regioni nei rapporti internazionali. Il punto di svolta, a tal
proposito, è rappresentato dal d.p.r. 616/1977
17
, il quale, nonostante
15
P. BILANCIA, F. G. PIZZETTI, “La partecipazione delle Regioni alla formazione del di-
ritto comunitario” in P. BILANCIA, F. G. PIZZETTI, Aspetti e problemi del costituzionalismo
multilivello, Milano, 2004, p. 187.
16
D. CODUTI, “La partecipazione delle Regioni al processo normativo comunitario, con par-
ticolare riferimento alla c.d. fase discendente”, in G. CARPANI, T. GROPPI, M. OLIVETTI, A.
SINISCALCHI, (a cura di), Le Regioni italiane nei processi normativi comunitari dopo la legge n.
11/2005, Bologna, 2007, p. 75.
17
Si fa riferimento al d.p.r. del 24 luglio 1977, n. 616, recante disposizioni sull‟Attuazione del-
la delega di cui all‟art.1 della legge 22 luglio 1975, n. 382 (Norme sull‟ordinamento regionale e
sull‟organizzazione della pubblica amministrazione).