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PREMESSA 
 
 
 
 
La mia ricerca è stata originata da una riflessione intorno al concetto di “nevrosi”, 
definibile come una singolare condizione di afflizione mentale oscillante fra lo stato di salute 
e malattia. La presente tesi costituisce, a tal proposito, il tentativo di delineare il rapporto 
che intercorre tra nevrosi e letteratura, con l’obiettivo di riuscire a trarre delle conclusioni 
costruttive in merito alle motivazioni che inducono a riconoscere prestigio letterario a opere 
nelle quali risulta preponderante il motivo del disturbo nevrotico. A questo scopo l’indagine 
condotta ha preso in considerazione il dialogo sussistente fra scienza medica, psicologica, 
disciplina psicoanalitica e creazione artistica all’interno di un multiforme ventaglio culturale, 
che osserva soprattutto la prospettiva esegetica della stilistica e critica letteraria.  
È stato necessario dedicare, anzitutto, una sezione introduttiva al tema della nevrosi: 
ciò ha consentito di rilevare, tra il XIX e XX secolo, una importante variazione del 
significato ascritto alla patologia psichica in virtù della quale mi sono focalizzata 
specificamente sull’Ottocento, passato alla storia come “il secolo della nevrosi”, e sul 
Novecento, solcato dalla nascita della psicoanalisi. Ho quindi passato in rassegna alcune 
delle più influenti scoperte di Sigmund Freud, dal momento che sono state in grado di 
originare un apparato interpretativo sulle funzioni della psiche influente al punto da avere 
inciso su differenti fronti culturali; tra gli sviluppi inaspettati e rivoluzionari che esse hanno 
portato con sé si annovera anche la genesi del connubio fra psicoanalisi e letteratura, per il 
quale in una conferenza del 1907 è avvenuto il primo tentativo di chiarire l’apporto della
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disciplina psicoanalitica al fatto letterario. Tra gli scritti freudiani analizzati ho reputato 
particolarmente emblematico quest’ultimo intervento, edito nel saggio Il poeta e la fantasia, 
giacché pone in evidenza la naturale inclinazione di letterati e artisti nel proiettare le 
caratteristiche costitutive del proprio Sé (nevrosi incluse) entro le relative produzioni 
culturali; lo studio perseguito in questo senso ha rivelato che non solo lo scrittore, ma anche 
il lettore proietta significativi aspetti psico-emotivi nell’opera letteraria. La focalizzazione 
sulle dinamiche con cui avviene la duplice proiezione ha comportato, oltre all’esame del 
legame vigente fra autore, lettore e opera, anche un graduale mutamento della prospettiva di 
indagine in una visuale di tipo critico-letterario: pur avendo osservato i limiti dell’estensione 
del metodo psicoanalitico al dominio letterario, ho constatato che nella proposta di nuovi 
metodi interpretativi e analitici dei testi le intuizioni di Freud sono ugualmente divenute un 
punto di riferimento importante per numerosi studiosi del Novecento; tra di essi, le riflessioni 
di Otto Rank riportate in Der Doppelgänger risultano pertinenti e applicabili all’analisi del 
tema letterario del doppio. 
È seguito l’effettivo accostamento al tema della nevrosi: la rievocazione dei fatti 
storici, culturali e sociali registrati fra il XIX e XX secolo è stata funzionale all’accertamento 
delle motivazioni che si celano al di là del processo che ha portato al graduale deperimento 
del clima di ottimismo ottocentesco, culminato con la messa in crisi delle certezze e dei 
fondamenti razionali; prendendo come riferimento di analisi gli studi freudiani, ho potuto 
appurare che all’interno dell’ambito letterario l’instabilità identitaria si è tradotta in 
un’alterazione della struttura narrativa tradizionale e della raffigurazione del personaggio. 
L’indagine condotta in questa direzione ha concesso di rilevare che la divergenza tra le attese 
e i risultati della fase postunitaria è identificabile come il principio a causa del quale la 
profonda inquietudine collettiva si è irradiata anche entro la Scapigliatura, portando a 
significativi esiti di sperimentazione letteraria; poiché i temi trattati dagli autori scapigliati
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hanno reso le loro opere assimilabili a referti di un Sé spregiudicato, ma anche turbato, 
smarrito, sensibile a qualunque influsso esterno e suscettibile rispetto ai cambiamenti 
interiori, ho indagato le caratteristiche definitorie del movimento artistico e letterario sorto 
in Italia tra il 1860 e 1880.  
 La mia ricerca si è infine focalizzata sulla figura di Igino Ugo Tarchetti, dal momento 
che la nevrosi è entrata trionfalmente nella letteratura italiana con Fosca (1869). Dopo avere 
ripercorso la biografia e le esperienze culturali dell’autore scapigliato, ho analizzato la trama 
del romanzo da una triplice prospettiva: in chiave psicobiografica, psicoanalitica e letteraria. 
Mi sono dedicata allo studio delle motivazioni al mancato finale dell’opera da parte dello 
scrittore, per poi condurre un esame approfondito del rapporto vigente fra i tre personaggi 
principali allo scopo di porre in evidenza le modalità con cui Tarchetti ha enfatizzato 
l’aspetto della nevrosi; ho così avuto modo di constatare che il motivo letterario del doppio 
è risultato funzionale all’accentuazione dei connotati determinanti la psicologia alterata dei 
personaggi. Da ciò deriva il costante riferimento ai principi di psichiatria e psicoanalisi, 
quindi il frequente riamando a un apparato concettuale che ha potuto esprimersi soltanto 
attraverso il ricorso alla basilare terminologia psicoanalitica: in questo senso le nozioni di 
“inconscio”, “pulsione”, “libido”, “Es”, “Io”, “Super-Io”, “rimozione”, “sublimazione” e 
“complesso edipico” si sono rivelate indispensabili nella descrizione dei processi psichici 
individuati in Fosca. Per mezzo dello studio specificamente incentrato sul tema dell’identità 
sdoppiata entro il romanzo, ho inoltre osservato una rilevante analogia con il genere 
fantastico. 
Proponendo una rilettura della secolare questione inerente alla rispondenza reciproca 
tra genialità e follia, ho dunque cercato di dimostrare che il motivo della nevrosi è andato 
configurandosi in maniera polimorfica dal momento che ha portato con sé numerose
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opportunità a livello narrativo, soprattutto in Tarchetti, nel cui romanzo ho appurato un forte 
avanguardismo in relazione alle successive scoperte di Freud.
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CAPITOLO PRIMO 
 
INTRODUZIONE AL TEMA DELLA NEVROSI 
 
 
 
 
I.1. Excursus sulle origini degli studi sulla psiche 
La matrice che ha consentito una primaria demarcazione del concetto di nevrosi, 
altresì definita “follia minore”,
1
 risiede nella visione globale della patologia da parte dei 
popoli delle epoche più remote. Poiché presso le popolazioni primitive e semi-primitive la 
patologia psichica non veniva ancora pensata in termini medici o psicologici (la sintesi 
intellettuale ricavata dall’osservazione dei sintomi era ancora lontana) il complesso dei 
mezzi terapeutici, la cui natura era mistica e cruenta, si è a lungo basato su fantasticherie 
animistiche e credenze magico-religiose; sebbene la conoscenza relativa alle tecniche 
paramediche delle comunità primordiali risulti frammentaria, gli storici congetturano che 
esse non abbiano presentato cambiamenti sostanziali per molti secoli. 
In età classica l’insieme degli strumenti curativi a disposizione della società ellenica 
risultava saldamente ancorato alla tradizione del misticismo teurgico. Dal momento che la 
comunità asseriva che il malato fosse tale in quanto invasato da una divinità, almeno sino 
alla fine del VI secolo a.C. l’ambito clinico non sarebbe stato in grado di intervenire in modo 
                                                
1
 L’espressione “follia maggiore” definisce invece la psicosi (EDWIGE COMOY FUSARO, La nevrosi tra 
medicina e letteratura. Approccio epistemologico alle malattie nervose nella narrativa italiana (1865-1922), 
Firenze, Polistampa, 2007, pp. 8-9).
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adeguato sul disagio psichico. L’inclinazione più consueta era, a tal proposito, implementare 
quello che si riteneva essere un fenomeno di natura mistico-estatica attraverso la 
somministrazione di sostanze che favorissero la condizione di ipersensibilità del soggetto; i 
sacerdoti attuavano rituali per richiedere l’intercessione del dio guaritore solo 
nell’eventualità in cui il malato fosse solito rendere pubblici comportamenti violenti.  
Dal V secolo a.C. l’ingegno greco ha iniziato ad applicarsi all’osservazione empirica 
dei sintomi. Le valutazioni di studiosi e pensatori come Alcmeone di Crotone, Eraclito, 
Empedocle e Cartesio, oltre ad avere inaugurato le prime riflessioni sul problema attinente 
alla psicofisiologia, hanno indotto a trascendere i trattamenti basati sulle pratiche teurgiche. 
Le intuizioni di Ippocrate di Cos, in particolare, hanno comportato un mutamento radicale 
non esclusivamente circoscritto all’età classica: affermando che la patologia mentale non 
fosse «affatto più divina o sacra di altre malattie»,
2
 giacché «ha una causa naturale, da cui è 
originata, come le altre infermità»,
3
 entro il Morbo sacro egli rende manifesto il proprio 
dissenso nei confronti di coloro che erano soliti attribuire agli dei la responsabilità 
dell’insorgenza di tale condizione; nello specifico, Ippocrate sostiene che i sacerdoti 
«sembrano simili agli stregoni, ai purificatori, ai saltimbanchi e ai ciarlatani, che ostentano 
una grande religiosità e una conoscenza superiore. […] Facendo uso di purificazioni e di 
incantamenti, sembra che rendano la divinità più malvagia e più empia».
4
  
Avendo ipotizzato che la condizione di salute (o malattia) avesse origine dalla stabilità 
(oppure dallo squilibrio) tra i fluidi corporei dell’organismo, Ippocrate ha contribuito allo 
sviluppo delle conoscenze inerenti al settore della fisiologia umana. L’elaborazione della 
“teoria degli umori” rappresenta, in merito a ciò, il tentativo più antico di fornire una 
spiegazione eziologica, anziché magico-religiosa, relativa all’insorgenza della malattia. Nel 
                                                
2
 GREGORY ZILBOORG, GEORGE HENRY, Storia della psichiatria, trad. it. di Marcella Fagioli, Roma, Nuove 
Edizioni Romane, 2002 (New York 1941), p. 37. 
3
 Ibidem. 
4
 Ibidem.
11 
caso della patologia psichica la sua origine è stata individuata in un’affezione dell’encefalo, 
dipesa dall’eccesso, difetto o alterazione di un umore, tale da avere reso il cervello troppo 
freddo, caldo, umido o secco. Gli umori, in particolare, sono stati identificati in bile gialla, 
bile nera, flegma e sangue: la bile gialla è un liquido originato dal fegato, la cui 
predominanza determinerebbe il temperamento collerico; la bile nera è un umore organico 
prodotto dalla milza che si riteneva diventasse nero per cause morbose, il quale eccesso 
porterebbe al temperamento malinconico; la flegma è un fluido freddo associato a una 
secrezione cerebrale, la cui sovrabbondanza genererebbe il temperamento apatico e pigro; 
infine il sangue, predominando sugli altri umori, addurrebbe al temperamento battagliero e 
allegro.
5
 Per merito della sua perspicacia clinica, Ippocrate è divenuto un importante punto 
di riferimento tanto per gli studiosi ellenici, quanto per quelli romani successivi, che hanno 
sempre pressoché seguito la sua stessa direzione di pensiero.  
Nel corso del Medioevo l’espansione dell’oscurantismo ha ripristinato la tendenza 
ad assimilare le cause della malattia mentale a fattori di natura magico-religiosa; pur non 
essendone l’esclusiva responsabile, la fede nel miracoloso della Chiesa ha indubbiamente 
contribuito all’imposizione di un temporaneo atteggiamento acritico che è risultato 
d’ostacolo al progresso. In virtù della reiterata decifrazione del disagio psichico in chiave 
demonologica, a causa della quale si era intensificato il ricorso alle espressioni “malattia del 
diavolo” e “malattia della strega”, hanno cominciato a proliferare gli interventi di natura 
esorcistica in abbinamento alla reclusione coatta del malato. Questi aspetti, definitori del 
Medioevo, si sono mantenuti fino al Seicento; in conformità con quanto riportato entro la 
sezione dedicata alle modalità di manifestazione del maligno entro il Malleus maleficarum, 
tra gli inquisitori si era infatti diffusa la consuetudine di mandare al rogo coloro che 
                                                
5
 ALFREDO CIVITA, DOMENICO COSENZA (a cura di), La cura della malattia mentale. Storia ed epistemologia, 
vol. I, Milano, Mondadori, 1999, p. 54.
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presentavano sintomi di disturbi classificati dalla psichiatria moderna con il nome di 
“isteria”, “schizofrenia”, “epilessia” e “nevrosi ossessiva”. 
Con la conclusione del XVII secolo lo sviluppo delle scienze sperimentali e 
l’ideazione di nuovi strumenti scientifici hanno comportato una significativa variazione 
dell’atteggiamento repulsivo che dapprima veniva usualmente riservato al malato; a questo 
scopo le accorte intuizioni della medicina ellenica, ascrivibili soprattutto a Ippocrate, sono 
state riesumate dopo secoli di esilio culturale. L’influenza dell’Illuminismo, nello specifico, 
ha fatto in modo che gli uomini di cultura tornassero a ritenere che fosse possibile 
individuare una spiegazione razionale alle manifestazioni della vita psichica senza ricorrere 
ad aberrazioni di tipo morale o sacro; iniziando a essere posti in relazione all’anatomia, gli 
studi orientati alla comprensione della malattia mentale hanno così iniziato a essere privati 
di ogni valore religioso. 
Tra XVIII e XIX secolo il dominio della scienza ha cominciato a frazionarsi in 
numerose specializzazioni, tra le quali si annoverano la psichiatria e psicologia. La disciplina 
psichiatrica è andata configurandosi come un settore della medicina incentrato sullo studio 
empirico dei disturbi mentali; il disagio psichico, la cui origine è stata attribuita alla 
fisiologia del sistema nervoso centrale, ha pertanto cominciato a essere considerato come 
una malattia fra le altre. Nonostante ciò, il malato continuava a essere percepito come un 
soggetto pericoloso, deviato rispetto alla normalità ed economicamente improduttivo, 
motivo per cui di prassi veniva relegato in strutture ospedalizzate. A seguito dell’istituzione 
dei primi manicomi queste ultime hanno iniziato a fruire, oltretutto, di approcci rieducativi 
basati per lo più sull’uso prolungato nel tempo di sedativi invasivi. Il processo di 
medicalizzazione del disturbo psichico si è così trasformato, soprattutto per gli strati più 
poveri della popolazione, in una forma di privazione della libertà e controllo sociale di tipo 
carcerario.