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Cap.I
LA PARALISI CEREBRALE INFANTILE
Definizione
La Paralisi Cerebrale Infantile (PCI) costituisce un capitolo molto importante
della NeuroPsichiatria Infantile.
I disturbi del movimento sono noti sin dall’epoca dei Sumeri tuttavia le prime
identificazioni e descrizioni risalgono all’epoca Vittoriana.
Il termine “Cerebral Palsy” fu utilizzato per la prima volta da Burgess nel 1888
per definire un disordine del movimento dovuto ad una lesione cerebrale, ma il
primo a descrivere tale patologia fu John Little nel 1862.
Negli anni successivi dello stesso secolo altri autori si sono interessati
dell’argomento: William Osler, Sigmund Freud, Phelps e Ingram che nel 1955
usa il termine “Paralisi Cerebrale Infantile” per descrivere un gruppo di
disordini non progressivi del bambino nei quali una lesione del cervello causa
un disordine della funzionalità motoria.
Infine nel 1964, dopo molte controversie, fu accettata a livello internazionale la
definizione di Bax:
“La Paralisi Cerebrale Infantile è un disordine persistente, ma
non immodificabile, del movimento e della postura, dovuto ad
una lesione non progressiva del cervello immaturo”.
Attualmente si usa definire la Paralisi Cerebrale Infantile come una “Umbrella
Diagnosis” (Mutch, 1992): una serie di quadri clinici a diversa eziologia e con
diverse espressioni somatiche, che hanno in comune un disordine del
movimento e la non progressività della lesione.
I disordini del movimento possono essere l’unica manifestazione clinica, o ad
essi possono essere associati disordini di altre funzioni (cognitive, sensoriali,
neuropsicologiche).
Il problema “definizione” quindi è ormai risolto ma altre questioni ancora oggi
rimangono aperte, a cominciare da quella della classificazione.
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Classificazione
Nella PCI, proprio per l’eterogeneità dei fattori eziologici e la varietà dei quadri
clinici, è stato utilizzato, fin dai primi tentativi di classificazione, il criterio
descrittivo-fenomenologico che raggruppa i casi in base alle caratteristiche e alla
distribuzione dei sintomi.
La classificazione sintomatica più recente e diffusa a livello internazionale è
quella della scuola svedese proposta da Hagberg nel 1975.
Essa ha la finalità di individuare quadri clinici che agevolino gli studi
epidemiologici e quindi risente di una certa semplificazione.
Hagberg differenzia i quadri clinici delle PCI in 3 grandi aree in base al sintomo
prevalente:
• Forme spastiche
• Emiplegia (compromissione di un emisoma in cui il deficit può
prevalere all’arto superiore o all’arto inferiore).
• Diplegia (compromissione prevalente agli arti inferiori rispetto
agli arti superiori).
• Tetraplegia (compromissione della stessa entità ai 4 arti o
maggiore agli arti superiori).
• Forme atassiche
• Diplegia atassica (associata alla spasticità prevalente agli arti
inferiori sono presenti segni atassici specie agli arti superiori).
• Atassia congenita (quadri di atassia semplice senza componente
spastica).
• Forme discinetiche
• Coreoatetosi (caratterizzata da movimenti coreici, atetosici e
coreoatetosici, coinvolgenti gli arti e il volto, con lieve ipotonia
globale).
• Forma distonica (forma più grave dominata da distonie, dalla
persistenza di pattern riflessi primitivi con grave ipotonia di
tronco e distretti bucco-facciali).
Una variante alla classificazione di Hagberg, più dettagliata nella descrizione
della distribuzione dei sintomi, è stata proposta da Michaelis nel 1989.
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Michaelis distingue le forme spastiche in forme monolaterali e in forme
bilaterali in base alla distribuzione prevalente della spasticità.
• Forme bilaterali
• Leg dominated tetraparesis (corrispondente alla diplegia).
• Three limb dominated tetraparesis (corrispondente alla
triplegia).
• Side dominated tetraparesis (spasticità prevalente ad un
emisoma).
• Four limb tetraparesis (corrispondente alla tetraplegia).
• Crossed dominated tetraparesis (spasticità prevalente ad un arto
superiore e all’inferiore controlaterale).
• Forme monolaterali nelle quali sono incluse le forme emiplegiche pure
e le monoparesi (considerate espressione di emiparesi a netta
prevalenza ad un arto).
Inoltre non sono contemplate in questa classificazione le forme di paraparesi,
perché considerate espressioni di patologie midollari, e la forma ipotonica o
aposturale, perché rilevata solamente nei primi due anni di vita, prima che
emergano i segni di tipo distonico o atassico.
Più recentemente, nel 1997, è stato proposto da un gruppo di ricercatori
americani e canadesi (Palesano, Rosenbaum et al.) un approccio diverso alla
classificazione, basandosi sui concetti di disabilità e limitazione funzionale;
permettendo così di determinare i bisogni del bambino e di deciderne gli
interventi terapeutici, nonché di verificare la validità del progetto terapeutico.
Proprio per l’utilità di questa classificazione in campo riabilitativo ne riporto
schematicamente i contenuti:
• Livello I: il bambino cammina senza restrizioni sia in ambiente
familiare che all’esterno. Le limitazioni si evidenziano in abilità
motorie più complesse (corsa, salto, ecc…).
• Livello II: il bambino cammina senza l’uso di ausili in ambiente
familiare, ma presenta limitazioni e necessità di assistenza negli
ambienti esterni. Sale le scale con appoggio e non è in grado di
correre o saltare.
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• Livello III: il bambino cammina con l’aiuto di ausili sia in ambiente
familiare che all’esterno; in ambienti estranei o per lunghi percorsi
deve essere trasportato. È in grado di mantenere la stazione seduta in
autonomia.
• Livello IV: il bambino non è in grado di camminare anche con l’uso di
ausili e deve essere assistito anche nei passaggi da seduto ad eretto.
Mantiene la stazione seduta con sostegno e per gli spostamenti
utilizza la carrozzina.
• Livello V: il bambino presenta gravi limitazioni dell’autonomia motoria
anche con l’uso di ausili. Non è in grado di mantenere la stazione
seduta, né di controllare stabilmente il capo; inoltre deve essere
trasportato e assistito in tutte le posture.
Per ogni livello, inoltre, sono descritte le abilità funzionali e le limitazioni che
caratterizzano le diverse fasce d’età (prima dei 2 anni, dai 2 ai 4 anni, dai 4 ai 6
anni, dai 6 ai 12 anni).
Epidemiologia
L’incidenza della PCI, che nei paesi occidentali risulta ormai stabile, è stimata
intorno ai 2-3 casi ogni 1000 nati vivi.
L’incidenza è significativa nei bambini nati prematuri (in particolare sotto le 32
settimane di età gestazionale) e nei neonati di peso inferiore ai 1500gr.
Queste particolari categorie di bambini hanno, infatti, una maggiore
vulnerabilità ed una maggiore probabilità di andare incontro a fenomeni di
alterazione prolungata del flusso cerebrale, indipendentemente dalle
caratteristiche del parto, a causa dell’immaturità dei loro sistemi di regolazione.
La prevalenza è complessivamente stimata intorno a 1:500 bambini in età
scolare.
Gli studi più significativi, perché condotti regolarmente fino quasi ai giorni
nostri, sono quelli del gruppo svedese di Hagberg. Tale studio mostra tra il 1954
ed il 1970 un decremento dovuto all’introduzione delle nuove routine
(correzione dell’ipoglicemia, aumento della nutrizione, …) che hanno permesso
una diminuzione della mortalità; dal 1970 al 1982 si è verificato invece un
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aumento della prevalenza dovuta all’introduzione delle cure intensive e alla
diminuzione della mortalità perinatale; infine dal 1983 al 1990 si è verificato un
processo di stabilizzazione dovuto al cessato aumento dell’incidenza delle PCI
nei nati pretermine e alla sua diminuzione nei nati a termine.
Nel corso del tempo si è verificata inoltre una modificazione della prevalenza e
delle caratteristiche cliniche delle diverse forme di PCI, che riflette il
cambiamento del livello di assistenza e di prevenzione nelle fasi della vita fetale
e neonatale, e che richiede un continuo adeguamento dell’organizzazione delle
strutture diagnostiche e terapeutiche.
Eziopatogenesi
Negli ultimi decenni si è assistito ad un rapido sviluppo delle tecniche
neuroradiologiche che hanno permesso di definire l’eziologia della maggiorparte
dei bambini con PCI; in particolare per quanto riguarda i bambini nati a termine.
I dati più recenti confermano la prevalenza dei fattori eziologici prenatali dei
bambini nati a termine (51%) e la prevalenza dei fattori eziologici perinatali dei
bambini nati pretermine di EG<32 sett. (79%).
• Fattori prenatali: alcuni studiosi includono in questo gruppo anche i
fattori ereditari (cause di patologie quali la paraplegia spastica, i
tremori congeniti e l’atetosi familiare). Fra le cause prenatali si
colloca al primo posto l’anossia cerebrale indotta da alterazioni della
placenta (distacco precoce, impianto anomalo, infarto della placenta)
oppure da compressione del cordone ombelicale in fase intrauterina o
da vari disturbi materni come l’ipotensione e l’anemia. Vi sono poi le
infezioni virali materne e tra esse in particolar modo la rosolia,
soprattutto se contratta durante il primo trimestre di gravidanza, e la
toxoplasmosi; l’esposizione ai raggi x (soprattutto nei primi 3 mesi di
gravidanza); i disturbi dismetabolici tra cui il diabete. Infine la
prematurità e l’immaturità sono condizioni di particolare vulnerabilità
del bambino, per il quale aumentano i rischi di eventi emorragici
cerebrali e trombosi al momento del parto.
Fattori perinatali: fra tutti l’anossia del neonato è la causa più
considerevole di PCI ed è spesso associata a lesioni vascolari che
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determinano emorragie e necrosi dell’encefalo. L’anossia o l’asfissia
nel periodo perinatale può essere causata da lesioni traumatiche dei
vasi, da torsione del cordone ombelicale, da ostruzioni respiratorie
(inalazione di liquido amniotico) e da alterazioni della pressione
sanguigna. Rientrano in questo gruppo i traumi diretti all’encefalo, in
caso di parto distocico o per l’utilizzo di particolari strumenti come il
forcipe e la ventosa. Sia le lesioni anossiche che traumatiche sono
molto più pericolose se il bambino è immaturo.
• Fattori postatali: questo gruppo di fattori ha una minima incidenza nel
determinare quadri di PCI. Vanno inclusi tutti i processi di tipo
infiammatorio sia delle meningi che dell’encefalo, e perciò tutte le
encefaliti e le encefalopatie; le lesioni cerebrali postatali provocate in
genere da traumi cranici; turbe vascolari e neoplasie. Quest’ultimo
gruppo in particolare porta ad esiti cicatriziali che possono ostacolare
il successivo sviluppo neurologico.
Quadri clinici
L’emiplegia congenita
Secondo le principali casistiche, l’emiplegia congenita costituisce il 70-90% di
tutti i quadri di emiplegia del bambino, delle quali però è difficile determinare
l’eziologia.
L’incidenza è di circa lo 0.5-0.7 per mille e complessivamente rappresentano
circa il 30% di tutte le forme di PCI.
Il quadro di emiplegia è l’espressione più comune di PC nei nati a termine (oltre
il 50%) e il secondo più frequente nei nati pretermine (il 20%).
La diagnosi si facilita se associato all’esame neurologico si osserva il
comportamento spontaneo del bambino. Dal 3°-4° mese, infatti, si rilevano le
prime asimmetrie posturali associate ad una riduzione della motilità
dell’emisoma colpito. L’arto superiore è mantenuto flesso e intraruotato mentre
l’inferiore è esteso ed intraruotato.
Lo sviluppo motorio globale è caratterizzato da alterazioni più qualitative che
quantitative, dovute all’asimmetria del carico e all’uso preferenziale
dell’emisoma sano.
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Il cammino autonomo viene acquisito entro i 2 anni e presenta un pattern con
extrarotazione dell’arto inferiore, appoggio del piede in piatto-valgismo,
importante asimmetria del carico e trascinamento dell’emisoma paretico da parte
dell’emisoma sano che avanza, in seguito emerge in modo più netto la
componente spastica che porta all’instaurarsi, fra l’altro, dell’equinismo del
piede.
Ciò che contraddistingue questo quadro è la funzionalità dell’arto superiore
plegico. La disabilità che ne deriva è varia, prevalentemente distale, con
particolare compromissione dei movimenti intrinseci, manipolatori, delle dita e
del pollice. Spesso la stereognosia è ridotta con assenza del riconoscimento
degli oggetti al tatto.
Nel corso dell’accrescimento vi è la tendenza persistente a privilegiare la
funzione dell’arto sano, più efficiente e rapido, con l’esclusione dell’arto
plegico. Con il passare del tempo si possono instaurare ipotrofie scheletriche e
muscolari e, come esito dell’aumento della spasticità, retrazioni tendinee
particolarmente all’arto superiore (gomito e polso).
Il manifestarsi di epilessia nel bambino emiplegico è un evento abbastanza
frequente; l’incidenza reale si attesta sul 20% dei casi (Uvebrant 1988).
Il rischio di sviluppare l’epilessia si riduce con l’età mentre l’evoluzione delle
crisi nel corso dello sviluppo è variabile: nella maggiorparte sono sporadiche e
ben controllate dai farmaci, mentre in un quarto dei casi sono farmacoresistenti.
Associati al quadro emiplegico si riscontrano anche disordini cognitivi, che
aumentano di frequenza in presenza di epilessia. Generalmente lo sviluppo
cognitivo tende a rallentare con l’età; le abilità linguistiche possono essere quasi
totalmente compensate con limiti per gli aspetti più selettivi; mentre le abilità
visuospaziali sono sempre lievemente inferiori.
Si possono riscontrare in oltre disordini specifici di lettura, disordini ortografici
e dell’area matematica con un graduale scadimento delle prestazioni scolastiche
soprattutto se richieste funzioni metacognitive ed astratte.
In genere i bambini con emiplegia raggiungono una discreta autonomia
funzionale e dimostrano un normale sviluppo cognitivo nella maggiorparte dei
casi.