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INTRODUZIONE
L’idea da cui nasce il mio elaborato consiste nel provare a rispondere ad una delle
domande che nell’ultimo anno, facile per nessuno, hanno tormentato le mie giornate.
Perché, in un mondo che va nella direzione dell’automatismo, ho scelto di imbarcarmi
in un percorso fatto di carta?
La risposta che ho trovato sta proprio nella funzione che questa carta friabile e
facilmente incendiabile ha nella mia vita. La letteratura è un luogo, uno spazio, un
mondo parallelo, in cui io ho fede. Credo. Credo che sia uno strumento proprio
dell’essere umano per trovare un granello di pace, e credo che più il mondo vada
incontro all’abbrutimento e alla distruzione, più l’essere umano senta la necessità di
trovare un modo per salvarsi. Io ho scelto di provare a salvarmi nella letteratura e
attraverso di essa.
Ho quindi tentato, tramite queste pagine, di dimostrare quanto effettivamente la
letteratura possa avere, per l’uomo, una funzione salvifica.
Lo scrittore per l’infanzia Leo Lionni è autore di un piccolo libro intitolato
Federico. Racconta la storia di cinque topolini, che prima dell’inverno si adoperano,
con una forte determinazione, nel procurarsi le scorte necessarie, grano, bacche, foglie
e quant’altro. Lo fanno tutti tranne Federico, che invece si concentra nel raccogliere
raggi di sole, colori e parole. L’inverno arriva, e le provviste iniziano a finire. I
topolini sono stanchi e demoralizzati, ma Federico ha le sue scorte: «“Chiudete gli
occhi”, disse Federico […] “ecco ora vi mando i raggi del sole. Caldi e vibranti come
oro fuso …” e mentre Federico parlava, i quattro topolini cominciarono a sentirsi più
caldi. Era la voce di Federico? Era magia?»
1
, fa lo stesso con i colori, e raccoglie le
parole in una poesia. I topolini ritrovano la gioia e l’entusiasmo per continuare ad
affrontare le lunghe giornate d’inverno. La favola sottolinea proprio il valore che la
letteratura, l’arte e, più in generale, la bellezza assume nelle vite di tutti. Non una
diretta esigenza per sopravvivere (l’uomo così come i topolini necessitano di cibo,
bacche, acqua), tuttavia una realtà imprescindibile per vivere. «Non voglio applausi,
non merito alloro, ognuno in fondo fa il proprio lavoro»
2
, questa, a chiusura del
1
Leo Lionni, Federico (1967), Babalibri, Milano 2019.
2
Ibidem.
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racconto, ricalca proprio l’idea di un’utilità non primaria ma secondaria, non diretta
ma indiretta, della letteratura per la vita e per la società.
L’elaborato è stato diviso in tre capitoli; tre, come le tre componenti principali
della letteratura: gli autori; i personaggi e il loro mondo; i lettori. Per ognuno di questi
ambiti ho riportato degli esempi, secondo me tra i più rilevanti.
Nel primo capitolo, tento di delineare la figura dell’autore a partire dalle
osservazioni critiche di Roland Barthes, Michel Foucault, Carla Benedetti, e prendo
in esame due autori diversi tra loro ma profondamente legati alla letteratura: Italo
Svevo, che si colloca costantemente sulla soglia tra vita letteraturizzata e vita reale, e
Primo Levi, reduce della deportazione, con il suo tentativo di liberarsi tramite la
scrittura. Nel secondo capitolo, affronto il tema ricorrendo alla vicenda di Shahrazad,
eroina del mondo arabo, profonda conoscitrice di racconti, che si oppone, grazie alla
sua arte di raccontare, alla follia omicida del re e salva così sé stessa, le donne del
regno e l’anima del sovrano. Nel terzo capitolo, infine, mi occupo della figura del
lettore soffermandomi da un lato sul ruolo che questi ricopre, anche secondo la teoria
della ricezione, nella dinamica della comunicazione letteraria; dall’altro, sulla
funzione che la letteratura ha nella vita dei lettori.
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Capitolo primo
SALVARSI ATTRAVERSO LA SCRITTURA
1. La figura dell’autore
Senza autore non c’è opera, e senza opera non ci può essere autore: che questo sia un
pittore, scultore, fotografo, scrittore, musicista, l’autore esiste solo in quanto esiste la sua
personale creazione; il vocabolario Treccani conferma: «autore s. m. (f. -trice) [dal
lat. auctor -oris, der. di augere, «accrescere»; propr. «chi fa crescere»]. – 1. Chi è causa
o origine di una cosa, artefice, promotore»
3
.
Già questa prima definizione mostra alcuni punti problematici: basta creare
un’opera per essere un Autore? Che cos’è in grado di trasformare un “semplice artista”
in un autore?
Immediatamente notiamo come ci siano delle incertezze in quella che appare
essere una frase tanto scontata quanto banale: è vero che ogni opera
4
deve avere per forza
una mano che la compone, ma tale mano può anche non essere conosciuta da noi lettori:
il testo può essere anonimo, ad esempio, perché il tempo ha cancellato il nome del suo
autore ma anche per scelta volontaria di chi l’ha composto: un autore può infatti preferire
di non utilizzare il suo vero nome, usare uno pseudonimo o un prestanome. Tale ipotesi
è stata più volte avanzata, ad esempio, anche nel caso di grandi scrittori come William
Shakespeare, ritenuto da alcuni studiosi solo il capocomico che firmava le opere teatrali
probabilmente redatte da autori appartenenti al ceto della borghesia che non potevano
dedicarsi apertamente all’arte. Nel caso di Shakespeare poco cambia: il fatto che quelle
opere siano state scritte da un capocomico o da qualsiasi altra persona non sembra poter
intaccare il valore letterario attribuitegli. Ma è sempre così?
Un simile interrogativo è posto da Jorge Louis Borges nel suo racconto Pierre
Menard autore del Chisciotte
5
, un’opera in cui un autore francese decide di voler
riscrivere nella sua lingua madre il capolavoro del Seicento, provando a tradurre parola
per parola alcune pagine e ottenendo così un’opera addirittura migliore ma senz’altro
3
Definizione della voce Autore, fornita da Treccani Vocabolario online
https://www.treccani.it/vocabolario/autore/, 30/07/2021.
4
Da qui in poi, per questioni di praticità, intenderò con opera prettamente quelle letterarie.
5
Jorge Louis Borges, Pierre Menard, autore del Don Chisciotte, in Finzioni, a cura di Antonio Melis, trad.
di Franco Lucentini, Adelphi, Milano 2003, pag. 35-45.
6
diversa perché non scritta da Cervantes e non scritta nel Seicento: in questo senso Borges
dimostra come in realtà l’autore sia fondamentale per la comprensione e il senso stesso
dell’opera. Questa osservazione è sicuramente vera, soprattutto quando ci interroghiamo
a proposito dell’intenzionalità autoriale, elemento che anche dal punto di vista critico non
può essere del tutto eliminato: una persona scrive, infatti, perché vuole dire qualcosa.
Tuttavia, non è detto che sappia sin da subito di cosa scrivere, né si può esser certi che
durante l’atto creativo – in questo caso, appunto, la scrittura – quell’idea rimanga
invariata, ma l’intenzione dietro la penna non è certamente trascurabile.
Lungo il tempo, la critica ha però provato a separarsi sempre di più dall’idea
dell’autore come parte integrante e fondamentale della fase di analisi dell’opera. Un testo
è stato scritto, per scriverlo sono state usate quelle parole; chi le abbia fermate su carta
poco conta: conta ciò che riusciamo a trarre dal modo in cui quelle parole sono state dette.
Un processo che nasce con l’idea della scomparsa dell’autore e si sposta sempre di più
sul sottolineare l’importanza del lettore. È avvenuto un progressivo passaggio di
importanza: se in epoca più antica era l’uomo al centro di tutto e quindi contava di più
l’autore sulla sua opera, ad oggi è l’opera a contare di più sul suo autore: non più ciò che
voleva essere detto, ma ciò che effettivamente è detto. Questo progressivo spostamento
d’interesse è per esempio ben visibile nella dinamica delle traduzioni. Ornella Tajani nel
suo saggio Traduttologia
6
, riporta il contributo di Borges presente nella sua opera Le due
maniere di traduttore: qui, riprendendo i concetti utilizzati per la prima volta da John
Dryden di Metafrasi e Perifrasi
7
, l’autore specifica che il primo sta ad indicare la
traduzione tipica dell’età romantica in cui è l’autore e il suo Io poetico ad avere maggior
valenza su tutto, veicolando quindi qualsiasi singola scelta autoriale; mentre con il
termine Perifrasi, Borges intendeva una modalità di traduzione tipica dell’epoca classica,
che a ben guardare non andava a “rispettare” né l’opera né l’autore: egli nota come
nell’antichità l’attenzione, in campo ‒ che definisco anacronisticamente ‒ traduttologico,
era tutta sull’ottenere un testo in lingua d’arrivo
8
perfetto, andando così a sacrificare le
6
Ornella Tajani, Traduttologia, in Letterature Comparate, Francesco de Cristofaro (a cura di), Carocci,
Roma 2020, pag. 289-312.
7
Ibidem pag. 292.
8
Con la locuzione Lingua d’arrivo si intende, nell’ambito delle traduzioni, la lingua in cui un’opera viene
tradotta, mentre con Lingua di partenza, la lingua in cui un’opera è stata composta. «La traduzione è sempre
descritta attraverso metafore che di articolano intorno a due polarità. L’immagine del movimento è alla
base dei binomi usati per indicare i due testi coinvolti nel processo traduttivo: lingua/testo di
partenza/d’arrivo […] evoca poeticamente l’idea della traduzione come percorso verso l’altro […]; per
Berman il movimento proprio della traduzione è “un devenir”» Ibidem.
7
scelte autoriali e contemporaneamente andando ad addomesticare
9
il testo. Oggi a mio
parere è come se il focus si fosse spostando ancora un po’ in avanti: non opera al di sopra
di tutto, non autore al di sopra di tutto, bensì intenzionalità dell’autore e forma dell’opera
posti sullo stesso livello.
Nel suo saggio La morte dell’autore, Roland Barthes sostiene che l’autore, così
come lo intendiamo noi oggi, sia un frutto della società della fine del medioevo, dove
sempre di più si fa strada l’idea del prestigio del singolo, o della persona umana: «è
dunque logico che in Letteratura fosse il positivismo, summa e punto d’arrivo
dell’ideologia capitalistica, ad attribuire la massima importanza alla persona
dell’autore»
10
. Barthes osserva come tutto sia iniziato da Mallarmé che per primo si è reso
conto che, spersonalizzando il linguaggio, quest’ultimo potesse raggiungere il punto in
cui agisce nella propria performance e non in quella dell’autore: «tutta la poetica di
Mallarmé consiste nel sopprimere l’autore a vantaggio della scrittura»
11
. Anche Proust,
secondo Roland Barthes, confonde fino all’estremo il rapporto fra scrittori e personaggi
«facendo del narratore non colui che ha visto o sentito, e neppure colui che scrive, bensì
colui che sta per scrivere»
12
. Arriva poi a parlare del surrealismo, non come corrente
artistica in cui il linguaggio veniva decantato (il linguaggio rimane comunque una forma
di sistema e per il Surrealismo ogni tipologia di sistema era da decostruire) ma come
momento in cui veniva richiesto alla mano di scrivere il più rapidamente possibile ciò che
la mente stessa ignorava, accettando per esempio anche la scrittura corale e andando così
chiaramente a «dissacrare l’immagine dell’autore»
13
.
Dopo il surrealismo è intervenuta anche la linguistica «rivelando come
l’enunciazione nel suo insieme sia un procedimento vuoto, che funziona perfettamente
[…] L’autore non è nient’altro che colui che scrive […] Il linguaggio conosce un soggetto
non una persona»
14
. Barthes sostiene che indagare criticamente la figura e il ruolo
9
«Lawrence Venuti introduce nel discorso traduttologico i concetti di domestication e foreignization: il
primp termine indica un approccio che conformi il testo di partenza ai gusti della cultura ricevente,
neutralizzandone il più possibile il carattere di estraneità; il secondo si riferisce all’approccio opposto, che
miri a conservare tale carattere, anche a costo di sovvertire o spezzare un codice culturale vigente nella
cultura d’arrivo». Ibidem pag. 293.
10
Roland Barthes, La morte dell’autore, in Il brusio della lingua. Saggi critici IV (1988), trad. di Bruno
Bellotto, Einaudi, Torino 2002, pag. 51-56.
https://www.lettere.uniroma1.it/sites/default/files/2581/Barthes_La%20morte%20dell%27autore.pdf
11
Ibidem.
12
Ibidem.
13
Ibidem.
14
Ibidem.