silenzio, la voglia di futuro, la forza della speranza e della ribellione, tutte tappe necessarie alla
ricerca e alla ristrutturazione dell’identità perduta.
Lo scritto, infatti, lungi dall’essere un testo di denuncia è, innanzitutto un tentativo di racconto e di
indagine; Arlindo Barbeitos delega alla poesia il compito della ricerca e dell’espressione
dell’identità del suo paese.
Non parte da troppo lontano: il suo viaggio inizia dall’Angola.
Lo stesso titolo, Angola Angolê Angolema è significativo; non è un gioco di assonanze, non un
semplice gioco di parole, ma una sfida.
Come dire che è impossibile cominciare a raccontare l’Angola senza attraversarla, senza nominarla,
impossibile dirla con altre parole.
Il suffisso –ê nella seconda occorrenza del titolo è assolutamente pertinente dato che, nella lingua
Kimbundu esso racchiude numerosi significati e qui indica il tentativo di dire il paese attraverso gli
occhi degli angolani; inoltre l’Angolê è, più esattamente, l’abitante dell’Angola.
La parola Angolema ha due chiavi di lettura: può essere considerata come l’unione delle parole
Angola e poema, a voler definire l’Angola come un grande poema e l’opera stessa come una piccola
pietra, tra le altre, su cui ricostruire la nazione. Ma della stessa parola possiamo anche considerare il
suffisso –ema che indica una unità linguistica che ha significato proprio (al pari di parole come
lessema, fonema, ecc.); vista in questi termini, la parola Angolema sembra essere proprio la parola
che dice l’Angola e che, nel tentativo di dirla, afferma quasi che il significato di Angola sia
l’Angola stessa.
Questo meccanismo linguistico è fortemente significativo non solo per il suo carattere
autoreferenziale, ma anche per il suo valore esclusivo: non esiste nessun’altra parola che possa
nominare l’Angola senza riferirsi direttamente e solo ad essa.
Ricongiungere il filo spezzato tra nazione e identità è un processo assai delicato, doloroso perché
implica uno sforzo introspettivo ma necessario per ristabilire le coordinate di un’identità collettiva
distrutta.
Questo passaggio deve avvenire attraverso la lingua.
Come anticipato il testo è teso a recuperare quanto del senso di nazione e appartenenza ad essa è
andato perduto e cercare di riaprire la strada alla nascita della nuova identità angolana che a partire
da questo punto potrà ricominciare il suo percorso in continuo divenire; ma come è possibile dire
un’identità a parole? E soprattutto, come può una lingua estranea, evidentemente altra nominare le
cose di Angola? In un clima di giustificabile ostilità e rifiuto nei confronti di tutto quanto
appartenga all’universo portoghese che fu causa prima della distruzione, presenza soffocante e
violenta, com’è concepibile che gli angolani accettino di esprimersi e raccontarsi attraverso la
lingua europea? Sembra quasi un’offesa, una beffa del destino. Condizione a cui, sfortunatamente,
non sembra esistere alternativa.
Viene scelta, allora, l’unica via percorribile, quella che sembra meno dolorosa e che possa
soddisfare il bisogno fisiologico di raccontare: la lingua usata è passata al setaccio; del portoghese
europeo Arlindo lascia intatte le strutture svuotandolo, però, della voce originale cui viene sostituita
la voce Kimbundu.
E’ un duplice atto di rivendicazione del proprio essere e riappropriazione “di ciò che è nostro”, e di
insubordinazione alla norma imposta e subita lungo cinquecento anni: gli angolani si riscattano
creando una nuova lingua che porti, evidenti, le “sombras de uma outra fala, a nossa fala”.
Non è solo perché un angolano parla il portoghese che sarà portoghese a sua volta:
« […] e não è / porque o largato põe ovos / que voarà / nem / porque o feiticeiro grande fala
com jacarés / que subirà as àrvores [...] »
[...] e non è / perchè la lucertola depone uova / che volerà / né / perché lo stregone parla con i
giaguari / che salirà gli alberi […]
L’identità nazionale nei versi di Arlindo si esprime oltre che attraverso la manipolazione della
lingua e l’uso degli angolanismi necessari, anche attraverso la descrizione della natura angolana e
delle scene che sono parte integrante e imprescindibile della quotidianità di Angola:
« à sombra da árvore velha de muitos sobas / só cresceram muxitos / o sussurrar encarcoleante dos
surucucus d’areia / marcava dédalos efémeros / que os quissondes iam devorando / à sombra da
árvore velha de muitos sobas / só cresceram muxitos ».
[all’ombra del vecchio albero di molti sobas / crescevano solo arbusti / il sussurrare vorticoso dei
surucucus / disegnava dedali effimeri / che i quissondes divoravano / all’ombra del vecchio albero
di molti sobas / crescevano solo arbusti]
L’albero di cui si parla, la mulemba, è l’albero dei sobas, os mais velhos, dei saggi, quindi, a voler
simboleggiare la genealogia e l’importanza della scala gerarchica in seno alle tribù africane.
La mulemba, vista in questa ottica, smette di essere solo albero ed è investita di un alone quasi
mistico, diventa il luogo della raccolta, della maka.
Il termine maka è uno di quelli che meglio esemplificano quanta influenza linguistica abbia avuto il
portoghese sui significati e sugli slittamenti di significato delle parole kimbundu anche in epoca
post coloniale: se oggi il portoghese indica con maka una disputa verbale, originariamente la parola
era riferita all’atto del raccontare e, quindi, allo scambio.
Anche il riferimento ad alcune specie animali rende necessario il ricorso al Kinbundu: i surucucus
sono una specie di cobra particolarmente velenosa, e i quissondes grandi formiche il cui morso è
molto doloroso; si tratta di specie faunistiche pertinenti al mondo angolano, per cui il ricorso agli
angolanismi si è rivelato inevitabile.
Nel componimento in questione, quindi, ritrovarsi all’ombra della mulemba, sotto la guida di un
soba e dedicarsi alla maka significa un ritorno ai valori, quei valori che solo all’Angola
appartengono; come esprimerli diversamente se non ricorrendo alle espressioni tipiche della lingua
Kimbundu?
La soluzione sta nel trovare un compromesso e dare al portoghese un sapore, una forma, un suono,
che rimandino a ciò che il Kimbundu vuole dire.
E’ esattamente quello che fa Arlindo: trovare un compromesso, unire nella poesia l’elemento
portoghese e quello angolano riuscendo a creare una sintesi.
Il compromesso barbeitiano non sta solo nella sintesi tra l’identità europea e quella africana, ma è
anche compromesso tra scrittura e oralità: alcuni dei componimenti di Angola Angolê Angolema
rimandano ad una forte musicalità e richiamano alla mente la memoria dei canti dell’infanzia, delle
danze, dell’atmosfera di divertimento.
La notevole impronta dell’oralità e tutta, inevitabilmente tesa a descrivere l’Angola così com’è, con
i suoi paesaggi, la natura e tutto ciò che è parte integrante dell’universo Kimbundu, ed è proprio a
questo punto che il Kimbundu si riappropria della facoltà di dire, di nominare le cose di Angola.
Si crea quasi un relativismo linguistico per cui la lingua riflette la propria visione del mondo
proponendo il suo punto di vista e, per un attimo, gli angolani del Kimbundu si astraggono dalla
propria parte portoghese permettendo alla vera identità di Angola di farsi strada e riaffermarsi.
La natura e la ricostruzione dei paesaggi angolani diventano il punto in cui le alterità si incontrano,
ed è da questo incontro che nasce la poesia.
Ma le poesie di Arlindo Barbeitos non sono solo versi, sono fotografie; durante il suo percorso di
vita lo scrittore venne in contatto con le poesie cinese e giapponese e ne fu più o meno
consapevolmente influenzato. Di questa influenza troviamo evidenti tracce nella sua produzione
poetica: leggendo o guardando, semplicemente le poesie di Arlindo si ha la sensazione d’impatto
che non si tratti solo di parole ma di disegni fatti di parole, ideogrammi.
L’uso di parole brevi e secche, le spaziature tra i versi sono tutte scelte consapevoli e che
determinano l’immagine che sta dietro il componimento, così la poesia barbeitiana non è una poesia
che si legge ma che si vede; una poesia che dice oltre la parola.
Fotografie, appunto, istantanee della vita di Angola che, comunque, non esauriscono il proprio
senso nell’immagine che propongono, diventando allegoria; attraverso la lavorazione della parola in
senso figurativo e l’allegorizzazione del linguaggio, il gioco verbale vuole rappresentare una
riflessione interiore, un percorso individuale seppure collettivizzante.
Il modo in cui si esprime questo tipo di poesia prevede, spesso, un cambiamento delle strutture
formali, tematiche e, quindi, l’intervento dell’autore nella creazione di un personale modello
comunicativo.
Con Arlindo vediamo che le strutture grammaticali del portoghese non sono scardinate
completamente, semplicemente, lo scrittore inserisce nella lingua portoghese quelle espressioni e
quella musicalità Kimbundu che non sono un abbellimento o un tentativo di esotizzare i testi, bensì
un preciso atto volontario con l’obbiettivo di dire l’Angola come gli angolani la dicono.
L’opera è il risultato di un percorso di formazione umana e culturale; queste poesie sono il racconto
tormentato e difficile di un uomo e di una nazione alla ricerca della propria identità.
La poesia barbeitiana diventa il luogo immaginario in cui si incontrano il sentire portoghese e il
sentire Kimbundu, perché come Arlindo stesso aveva brillantemente intuito nel corso dei suoi anni:
negare ciò che è stato equivarrebbe a negare noi stessi.
Quello che è necessario e importante, dunque, è evitare tentativi di demolizione dell’essenza
portoghese che apparterrà sempre all’Angola, e trarre dalla diversità un vantaggio, un motivo di
arricchimento, poiché l’accettazione della storia sebbene dolorosa e violenta è l’unica strada verso
la riconciliazione del popolo angolano con sé stesso e verso la costruzione dell’Angola di domani.