5
L’assenza di ogni copertura costituzionale potrebbe essere desunta a
contrario dalla disciplina esplicitamente dettata per un’attività analoga, quella della
stampa.
Una simile scelta interpretativa implicherebbe una visione della Costituzione
come un insieme di norme particolari, le quali a loro volta presupporrebbero
l’esistenza di una norma generale negativa, fonte, per i soggetti titolari della
funzione d’indirizzo politico, del potere di disporre liberamente della disciplina di
tutti i casi non regolati dalle norme costituzionali.
Le numerose pronunzie costituzionali sulla legittimità del regime giuridico
attribuito all’attività radiotelevisiva valutata dalla Corte alla luce degli articoli 21 e
43 scoraggia siffatto approccio.
Un’ alternativa astrattamente possibile potrebbe essere quella di inquadrare
l’attività radiotelevisiva tra i <<mezzi>> di manifestazione del pensiero
dell’articolo 21, con conseguenze dirompenti in relazione al alla legittimità del
monopolio pubblico del mezzo , esteso alla creazione e diffusione dei programmi.
Accostandosi a questa prospettiva, bisognerebbe ammettere che la disciplina
del mezzo sia del tutto indifferente, o che il fine di utilità generale che, ex art. 43
Cost., condiziona la legittimità della riserva allo Stato di un determinato mezzo,
dovrebbe necessariamente identificarsi nella esigenza di favorire la migliore
6
realizzazione possibile della libertà di <<tutti >> di diffondere il proprio pensiero
attraverso il mezzo radiotelevisivo.
In questa prospettiva però, la riserva allo Stato dovrebbe interessare i soli
impianti radiotelevisivi per consentire un accesso il più esteso possibile .
L’interesse del Costituente nei confronti della problematica relativa al diritto
all’informazione è certamente dimostrato dalla legge sulla stampa n. 47 del 1948
1
,
caratterizzata da una forte attenzione verso i problemi della libertà di informazione
e da un intenso dibattito sui problemi del controllo sulle imprese editoriali.
Sebbene un lucido riferimento alla “libertà” e ad un “diritto ”
all’informazione fosse presente nella “Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”
2
, e fosse quindi il problema già
avvertito nel dibattito giuridico del tempo, l‘ Assemblea costituente, che lavorò tra
il 1946 e il 1947, non la menzionò espressamente.
E’ così che nell’art. 21 della nostra Costituzione si può trovare più di un
riferimento alla stampa e nessun riferimento formale alla televisione o quantomeno
alla radio che già da molti anni aveva sul territorio una diffusione capillare.
1
Una delle rare leggi approvate direttamente dalla costituente.
Anche se furono approvate soltanto le disposizioni più urgenti al fine di dare attuazione ai nuovi principi
costituzionali che si andavano delineando nello stesso periodo.
2
Firmata a Roma il 4 novembre 1950, nella quale vi si afferma che ogni persona ha il diritto alla libertà di
espressione e che tale dritto comprende la libertà di opinione e quella di<< ricevere o di comunicare informazioni o
idee senza che vi possa essere interferenza di pubbliche autorità e senza riguardo alla nazionalità.
7
Il vuoto, se di vuoto è corretto parlare, ha suscitato un’ attenzione
istituzionale nei confronti del problema, che ha trovato prima nel legislatore e poi
nella Consulta i due protagonisti principali.
Il risultato della dialettica istituzionale che ha preso vita dagli anni ’50 in poi,
con interventi non sempre coordinati, se non spesso contradditori, è la
sovrapposizione detritica di normazioni diverse e di un’attività quasi sostitutiva
(potremmo dire parapolitica) della Consulta, la quale, fin dall’ inizio, si è
preoccupata di offrire alla disciplina i necessari referenti costituzionali, arrivando a
svolgere un vero e proprio ruolo creativo.
8
1.2 Il principio pluralistico
In effetti, in Italia il valore del pluralismo affonda le sue radici non tanto nel
testo della Costituzione o nella disciplina positiva predisposta dal legislatore (per
molti versi carente ed antiquata), bensì nell'opera suppletiva della Corte
costituzionale.
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la
parola, lo scrittore ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i
mezzi di finanziamento della stampa periodica.
Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli tutte le altre
manifestazioni contrarie al buon costume.
La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e reprimere le
violazioni.
9
La giurisprudenza della Consulta sugli strumenti di comunicazione, in
particolare sulla radiotelevisione, consta di una successione di pronunce additive e
di sentenze monito pressanti rivolte al Parlamento affinché delineasse uno scenario
normativo consono con i valori ricavabili del testo costituzionale. Appare superfluo
ripercorrere le numerose tappe di un cammino che ha investito problematiche
eterogenee, che travalicano i confini della presente indagine.
Quel che preme in questa sede è accertare quale nozione di pluralismo sia
propugnata dalla Corte,e quale sia il suo fondamento giuridico. Per non appesantire
l'esposizione, faremo principalmente riferimento tre delle più recenti pronunce del
826 del 1988, 112 del 1993, è la 420 del 1994.
Di esse occorre innanzitutto specificare che le prime due sentenze citate
affrontano il tema del pluralismo nella sua generalità, mentre la terza si sofferma
(anche in ragione del consistente acquis giurisprudenziale sedimentatosi, che
consente alla Corte un ricorso, talvolta eccessivo, ad autocitazioni) sulle
problematiche inerenti alla disciplina volta alla prevenzione di formazione di
posizioni dominanti nel settore televisivo contenuta prima nell'articolo 15 della
legge 223 del 1990 ed ora nello stesso articolo della 112 del 2004.
Dalla lettura complessiva della sentenza 326 del 1988 emergono due dati di
estrema importanza: la preminenza del valore del pluralismo nella
regolamentazione dei Mass-media, e la sua riconducibilità al principio stesso di
10
democrazia. La Corte sottolinea con forza "il valore centrale del pluralismo in un
ordinamento democratico", senza operare alcun riferimento all'articolo 21.
I giudici costituzionali sembrano quindi consapevoli del fatto che la
salvaguardia di questo valore non è vincolato da un rapporto di strumentalità
esclusiva con l'effettiva possibilità per tutti di esprimere il proprio pensiero o di
comunicare informazioni, ma ha un operatività più ampia, che può essere riassunta
nella predisposizione di un ambiente informativo e comunicativo che garantisca
la libera formazione dell'opinione pubblica e la dialettica politica sociale e
culturale.
Ciò malgrado, può sorprendere che la Corte non colleghi esplicitamente il
principio di pluralismo all'articolo 21, l'unica disposizione costituzionale
espressamente riconducibili all'attività di comunicazione. A mio avviso, la ragione
potrebbe risiedere in ciò, che così facendo si sarebbe corso il rischio di dare
importanza preminente ai soggetti attivi della comunicazione, sminuendo la
posizione dei destinatari di essa.
Dato che l'articolo 21 tutela esplicitamente la libertà privata di espressione e
comunicazione, vi era pericolo che una nozione di pluralismo incentrata su tale
base giuridica potesse essere intesa come proiezione collettiva di tale diritto
individuale, nel senso che si riduca ad una mera pluralità di operatori.
11
Ma la Corte ha inteso informare la disciplina dei media ad un obiettivo più
complesso e ambizioso, in quanto tendente a incrementare il grado di democraticità
dell'ordinamento. Difatti, nella sentenza 826, vengono individuati due profili,
speculari ma non surrogabili, che concorrono a definire il concetto di pluralismo
dell'informazione radiotelevisiva:
- da un lato , la possibilità di ingresso, nell'ambito dell'emittenza pubblica e
di quella privata, di quante più voci consentano i mezzi tecnici (con la
specificazione che nell'ambito di quella privata occorre prevenire la formazione di
monopoli ed oligopoli che renderebbero il pluralismo esterno meramente fittizio a
causa dell'emarginazione dei portatori di voci diverse);
- dall' altro, la concreta possibilità di scelta per tutti cittadini di una
molteplicità di fonti informative, scelta che non sarebbe effettiva se il pubblico al
quale si rivolgono i media audiovisivi non fosse in grado di disporre, tanto nel
quadro del settore pubblico che in quello privato di programmi che garantiscano
un'espressione di tendenze aventi carattere plurale.
La Corte collega tale nozione di pluralismo al carattere democratico e
partecipativo del nostro ordinamento: la sua effettività richiede la più ampia e
possibile corrispondenza tra la verità storica e la complessità culturale sociale, da
un lato e la rappresentazione che ne offrono i media, dall'altro. Nessuno deve essere
in grado di esercitare un'influenza determinante sull'opinione pubblica non già in
12
virtù della bontà delle proprie argomentazioni, bensì ragione della sua disponibilità
di mezzi di comunicazione. Quest'obiettivo dovrebbe animare e legittimare la
complessa regolamentazione della televisione dei mezzi di comunicazione di massa
in generale.
Quanto detto non toglie che nelle ricostruzioni operate dalla Corte sia
presente una dose di approssimazione, non decidendosi con precisione la posizione
giuridica dei destinatari dell'informazione. Nella sentenza 326 si richiama
incidentalmente addirittura un "diritto del cittadino all'informazione"
3
senza
specificarne la natura, pur se appare evidente che si tratti di una formula atecnica
che intende enfatizzare l'importanza della libera circolazione delle informazioni
delle idee. Il ricorso ad opzioni dai contorni incerti non impedisce di ricavare con
certezza dalla giurisprudenza della Corte che il principio del pluralismo deriva
dall'essenza stessa della democrazie, fondata sulla libertà della pubblica opinione
sul principio di partecipazione.
Parte della dottrina trova che l'articolo 21 sia rilevante nella misura in cui
rappresenti una conferma positiva della centralità dell'attività di comunicazione di
un ordinamento democratico. Esso tuttavia tutela espressamente la libera attività di
comunicazione: ricavare una corrispondenza biunivoca esclusiva con il principio di
3
Istituto che ha avuto seguito in dottrina, ANNA CHIMENTI, in Informazione e televisione, la libertà vigilata.
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pluralismo rischia di attribuire a quest'ultimo significato riduttivo, giungendo così e
identificarlo sic et simpliciter con la concorrenza economica tra gli operatori
privati.
4
Esso rappresenta invece un obiettivo molto più ambizioso, che mira a
consentire che l'opinione pubblica si formi nella maniera più libera possibile e che
le informazioni e le idee circolino senza alcun ostacolo. Così inteso il pluralismo
pone l'accento sui destinatari dell'informazione, e non esclusivamente sui soggetti
attivi di esse (come fa invece articolo 21, espressione di un diritto di libertà
classico, fondato cioè sull'attribuzione titolare di una sfera intangibile da parte del
potere statale).
Chiarito il fondamento costituzionale del principio pluralistico, non si può
ignorare il complesso problema delle modalità con cui tale valore si armonizza con
la libertà individuale di espressione, contribuendo anche a renderla effettiva per il
maggior numero possibile di cittadini.
Bisogna dire che la ricostruzione ora operata del principio
pluralistico,potrebbe superficialmente non sembrare in sintonia con la sentenza 420
del 1994, che ripetutamente associa il pluralismo all'articolo 21, cioè alla libera
manifestazione del pensiero.
5
4
Osti, aspetti della regolazione del settore televisivo, in Ann. IP. Dir. Al 1987
5
Confronta con i punti 11,14. 4, e 15.