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Introduzione
Il presente lavoro ha l‟obiettivo di dimostrare la rilevanza dei contenuti
affettivi ed etico-discorsivi della comunicazione, rispetto a quelli linguistico-
cognitivi più diffusamente analizzati negli studi di settore, quale aspetto più
importante del comunicare. Se perdiamo il contenuto affettivo - da non intendere
semplicemente come aspetto secondario né tanto meno astratto - perdiamo
probabilmente gran parte del contenuto della comunicazione, la sua energia.
Partendo da questo riconoscimento, non si tratta di privilegiare le emozioni
a scapito della ragione, ma di ricercare un fondamento etico per la comunicazione,
e la questione degli affetti è solo apparentemente una questione marginale, mentre
di per sé ha una valenza etica.
Più in generale, l‟aspetto che si tenta di mettere in discussione è la
concezione astratta della comunicazione così come è apparsa negli studi di settore
(pensiamo ad esempio al modello formale della Teoria dell‟Informazione di
Shannon e alla concezione biologica-innatista di Noam Chomsky) o nelle teorie
etiche tradizionali. Di contro, dimostrare l‟esistenza di un‟alternativa ai modelli
comunicativi classici che passa attraverso una comunicazione empatica, intuitiva,
esperenziale, pluridirezionale, imprevedibile e che fa leva sul piacere di
comunicare. Un'alternativa che parte dal corpo, quale luogo privilegiato attraverso
il quale restituire una visione dell‟essere umano più ampia, più reale, rispetto a
quella che fa di noi il risultato di una mente disincarnata.
Per farlo abbiamo scelto di parlare della professione infermieristica non
solo perché per sua natura “corporea” ma, scelta fra tante, anche per la riflessione
morale che in relazione ad essa si è sviluppata. Il caso di questa professione è
particolarmente significativo per la connessione che implica tra norma,
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comunicazione, sofferenza, corpi, in particolare il corpo sofferente del malato e
quello normativizzato dell‟infermiera che interagiscono secondo una determinata
deontologia. Di fatto è nei contesti come quello sanitario, più che in altri, che si
può direttamente osservare come questi contenuti siano rilevanti, avendo
direttamente a che fare con situazioni umanamente ed emotivamente coinvolgenti.
E‟ seguendo questo percorso che siamo arrivati a riflettere su come spesso
nelle cure infermieristiche (ma non solo) venga disattesa l‟attenzione verso un
aspetto, quello della corporeità, che appare per lo più sconosciuto, omesso o
sottovalutato per diversi motivi, a partire dall‟impostazione dei modelli formativi
riservati agli infermieri.
In generale, la scienza medica tende ad inquadrare le malattie in uno
schema nosografico per meglio permetterne l‟osservazione, la descrizione e lo
studio privilegiando parametri numerici. Attraverso questa oggettivazione della
malattia, il corpo finisce anch‟esso per essere oggettualizzato e circoscritto,
riportato nell‟ambito del noto e quindi dell‟affrontabile scientificamente. Questo
inevitabilmente porta a una difficoltà intrinseca di conciliare ciò che appare
razionale e il suo opposto, ciò che è codificabile e ciò che invece è indefinito.
Il tentativo è allora quello di riuscire a cogliere aspetti “inediti” della
relazione paziente/infermiera e con essi l‟ambiguità che la accompagna. Aspetti
che suscitano un certo pudore e che si preferisce omettere in quanto scandalosi.
Scandalo che nasce nel momento in cui un corpo entra in contatto con la fisicità di
altri corpi e che ha a che fare (anche, ma non solo) con termini quali erotismo,
sessualità, sensualità, perversione. Ma non è su questo che ci soffermeremo,
quanto sul ruolo del corpo all‟interno della relazione di cura e della vicinanza
nella pratica comunicativa.
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L‟esigenza è quella di rovesciare il modo in cui questa relazione viene
vista nella sua parzialità, in un mondo dove i sensi hanno perso ogni possibilità di
felicità, di innocenza, di “piacere”, di fronte a un processo di omologazione e
standardizzazione dei corpi, e questo può essere fatto solo lasciando parlare il
corpo. Ovvero ridare alla corporeità il giusto posto all‟interno della relazione
paziente/infermiera, in quanto ciò che accade al corpo o viene rifiutato, accade o
viene rifiutato all'uomo nella sua totalità, dimostrando inoltre come il bisogno di
contatto sia immutato, sopravviva e, anzi, aumenti attraverso la professione
infermieristica.
Ma nello stesso tempo si tratta anche di rivedere e recuperare l‟argomento
della fisicità di fronte a un atteggiamento di tolleranza verso il sesso che lo ha reso
triste e ossessivo, per recuperarne la gioiosità, la giocosità, la naturalità, il piacere.
Per dare forza ulteriormente a quanto stiamo sostenendo, abbiamo preso in
esame per contrasto, un caso tipico in cui è manifesta la negazione e la
strumentalizzazione del piacere, quello della prostituta, anch‟essa una professione
corporale ma marginalizzante, in cui la dimensione del piacere viene negata per
lasciare il posto alla violenza, alla sofferenza, alla solitudine.
In questa direzione, è risultato interessante arricchire l‟analisi contrastiva
tanto del ruolo dell‟infermiera, quanto della professione della prostituta,
analizzando due modelli letterari: la figura dell‟infermiera tratteggiata da
Hemingway nel suo romanzo Addio alle armi, e la figura della prostituta messa in
scena da Moravia ne La romana.
Vedremo cosa fanno nei due romanzi l‟infermiera e la prostituta, come si
esprimono, come affermano o negano il piacere; come interagisce l‟infermiera di
Hemingway con il suo malato speciale, e la prostituta di Moravia con le varie
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figure che segnano la sua vita; quale ideologia viene fuori dalle azioni che
entrambi gli scrittori fanno loro compiere, e dai sentimenti che fanno loro
esprimere, tentando così di fare emergere l‟importanza del piacere nella
comunicazione e, contemporaneamente, arrivare a proporre una nuova prospettiva
comprensiva, un nuovo modo di pensare e di agire la comunicazione.
Nel primo capitolo, abbiamo scelto di parlare brevemente dell‟approccio
pragmatico agli studi sulla comunicazione quale sfondo al presente lavoro, per
l‟importante svolta segnata, spostando l‟asse di interesse dallo studio sui processi
trasmissivi allo studio sui processi relazionali che si attivano nella comunicazione,
fino ad arrivare a mettere in luce l‟insieme di accordi e “valori” che rendono
possibile il processo comunicativo.
E‟ partendo da questa prospettiva che è stato possibile evidenziare una
questione quanto mai prioritaria: il rispetto delle norme. Da dove nasce il rispetto
delle regole? Quando una norma diventa vincolante per un soggetto?
Seguendo le tracce di Jean Piaget
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e il suo contributo scientifico in questa
direzione, siamo arrivati ad ipotizzare che una norma per essere vincolante non ha
bisogno della forza ma dell‟emozione, dell‟affetto. È la norma che coordina il
processo comunicativo, ma grazie al suo legame con l‟affettività che diventa la
forza motivante, il motore logico dell‟azione
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.
Di conseguenza, nella pratica della comunicazione è la contemporanea
azione degli aspetti cognitivi ed emotivi che ci permette di connotare esperienze
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J. Piaget, nell‟ambito della sua concezione biologica della conoscenza, prende in considerazione
non solo gli elementi cognitivi - a cui era principalmente interessato - ma anche quelli affettivi,
esaminandoli non isolatamente ma in una sintesi integrativa, dimostrando come, per lo sviluppo
armonico della personalità dell‟individuo sia necessaria un‟interazione fra cognizione e affettività.
Vedi F. Aqueci, Ordine e trasformazione. Morale, mente, discorso in Piaget, Bonanno, Acireale-
Roma, 2003.
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J. Piaget (1932), Il giudizio morale nel fanciullo, Firenze, Giunti – Barbèra, 1972
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durature, significative, purché precedute e accompagnate da un‟attivazione
emotiva che si faccia volontà di cooperazione. Affermare ciò ha comportato, allo
stesso tempo, riconoscere che le nostre azioni non hanno quella regolarità, quella
costanza e quella necessità proprie, ad esempio, della matematica, di conseguenza
non sono comprensibili facendo riferimento unicamente alla ragione.
Nel secondo capitolo, dopo aver visto come il ruolo dell‟infermiera è stato
concepito nel tempo, da un punto di vista etico-discorsivo, e il posto, implicito o
esplicito, che alla comunicazione è stato assegnato in questi modelli, è stato preso
in esame il dibattito scaturito dalla diffusione di una nuova etica (femminile),
quella del "prendersi cura"
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che ha ricevuto, presso la professione infermieristica,
larghi consensi
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.
Ci soffermeremo sulle riflessioni portate avanti da Helga Kuhse nel testo
Prendersi cura. L'etica e la professione di infermiera e, in particolare, sulle
questioni di morale di genere che l‟autrice fa emergere, mettendo in discussione le
posizioni di Carol Gilligan la quale, nel libro In a different Voice, secondo la
Kuhse, finirebbe per affermare empiricamente la differente natura morale delle
donne rispetto agli uomini. Riferite poi alla professione infermieristica, queste
affermazioni da parte della Gilligan, secondo l‟Autrice, sarebbero pericolose oltre
che insufficienti non solo per affrontare in maniera adeguata il problema della
storica sottomissione dell‟infermiera rispetto al medico, ma anche per poter
rispondere alle esigenze dei pazienti, soprattutto alla luce dei cambiamenti
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Questa prospettiva etica si inserisce all‟interno di una teoria della differenza femminile, che ha
avuto grande influenza culturale in diversi campi disciplinari, come anche sul pensiero femminista
e sul modo comune di rappresentare i rapporti di genere. Cfr. H. Kuhse, Prendersi cura. L'etica e
la professione di infermiera, Torino, Einaudi, 2000
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Le infermiere, accogliendo le critiche avanzate agli “approcci di principio”, hanno portato avanti
la richiesta di una nuova etica, più appropriata alla professione di infermiera, diversa dall‟etica
(tradizionale) medica, e concentrata non sull‟aderenza a «principi, regole o diritti imparziali», ma
basata su un «prendersi cura […] nelle relazioni umane». Cfr. Kuhse, 2000, p. 126.
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avvenuti nella società, delle conquiste nel campo della medicina e, nello specifico,
dell‟infermieristica.
Per potersi prendere cura dei pazienti, le infermiere, piuttosto che fare
riferimento a una presupposta etica femminile, dovrebbero fare propri i principi
razionali universali. Solo attraverso di essi sarà possibile, secondo la Kuhse,
portare avanti la difesa del paziente e di se stesse, in quanto senza un
ragionamento basato su principi, non potranno neppure imporre i loro valori e le
loro pretese più basilari, correndo il rischio di “uscire dal discorso etico (Khuse,
2000, p. 275).
Il nostro intento è proprio quello di riuscire a ribaltare il punto di vista
della Kuhse, la quale, attraverso tali affermazioni, finisce per restituire una visione
astratta del rapporto di cura e dei rapporti in generale. Di contro, sostenuti dalle
argomentazioni della Gilligan (Gilligan, 2003), dimostrare che non si può ridurre
la cura al solo rispetto delle leggi, dei codici e alla definizione di diritti. Occorre al
contrario farsi carico di ciò che la cura comporta, porre attenzione ai soggetti che
ne fanno parte, alle ambiguità, alle incertezze che essa porta con sé, per dare un
peso, un senso ai valori che in astratto si cerca di difendere.
La Gilligan infatti, nel definire un nuovo soggetto etico "relazionale" -
quale soggetto inserito all'interno di una fitta rete di relazioni di cura e di
responsabilità - riesce a richiamare l‟attenzione sulla concretezza dell‟altro e sulla
contestualità dell‟agire opposto all‟astrattezza degli imperativi etici.
Il prendersi cura non può essere pensato semplicemente come un concetto
astratto, come “un ideale” o una teoria impersonale. Esso è concretamente
traducibile in comportamenti, azioni tangibili che sono calate all‟interno di
situazioni e contesti specifici; presuppone relazionalità nel suo senso più ampio.
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Una relazionalità che coinvolge il sentimento, l‟empatia, la compassione e che
prevede al suo interno la presenza di un corpo, il quale è sensazioni, felicità,
sofferenza, paura, rabbia; è desiderio, sessualità; è relazione, espressione e non
semplice oggetto di pratiche o di diritti.
A dimostrazione di quanto stiamo affermando, viene preso in esame, nel
terzo capitolo, un romanzo di Ernest Hemingway: A Farewell To Arms (Addio
alle armi - 1929), in quanto in esso è stato possibile individuare episodi che ben
rappresentano concezioni, valori, modelli culturali e comportamentali riguardo le
infermiere, così come si sono alternati nel corso del tempo, e
contemporaneamente, intravedere un modello alternativo di relazione di cura
(scopo di questo lavoro). Un nuovo modello comunicativo, contrapposto ai
modelli tradizionali, che vede al suo interno la sessualità e il sentire che ne
scaturisce; un modo diverso di prendersi cura, di rapportarsi agli altri, di stare in
“contatto”.
Nel quarto capitolo prenderemo le mosse da un altro testo letterario, La
Romana di Alberto Moravia per arrivare a dimostrare come «nella totalità delle
interazioni delle menti corporeizzate, l’individuo si inscrive con la sua affettività,
affettività che lo rende unico e singolare» (Aqueci, 2003, p. 125), ovvero
l‟importanza del rapporto tra sentimento e ragione, e come questa reciprocità
abbia un ruolo fondamentale sull‟individuo, sulla sua identità e sulle sue relazioni.
Un riconoscimento più che mai urgente di fronte ai cambiamenti avvenuti nel
contesto sociale e culturale che rischiano di minacciare, e che di fatto minano
l‟equilibrio dell‟uomo.