3
strategia non può più essere esclusivo appannaggio dei vertici aziendali, poiché i
contesti sono divenuti talmente complessi che le aziende devono agire in maniera
pro-attiva, facendo leva proprio sulla creatività e sull’innovazione continua.
La tematica riguardante i sistemi di pianificazione e controllo sembra aver assunto
un ruolo di primaria importanza nelle realtà aziendali, richiamando l’attenzione di
studiosi e manager. Il presente lavoro si propone proprio di far emergere le
funzioni che rivestono i sistemi di pianificazione e controllo nelle realtà aziendali
contemporanee, passando attraverso il loro percorso evolutivo nel tempo. La
trattazione si articolerà in quattro capitoli mediante i quali si intende perseguire i
seguenti obiettivi:
1. illustrare le principali fasi evolutive della pianificazione e del controllo in
corrispondenza della progressiva trasformazione dei contesti ambientali, mediante
un excursus storico che parte dagli anni ’30 del secolo scorso e giunge fino ai
giorni d’oggi, per far emergere come è andato modificandosi il concetto di
controllo nella realtà aziendale e nella dottrina;
2. concentrare l’attenzione sulle più recenti concezioni dei sistemi di pianificazione
e controllo elaborate dalla dottrina;
3. analizzare le componenti strutturali dei sistemi di pianificazione e controllo allo
scopo di capire più da vicino come operano in concreto questi ultimi. Più in
particolare, si esamineranno le caratteristiche della struttura organizzativa per il
controllo e di alcuni strumenti utili alla comunicazione ed implementazione della
strategia;
4. elaborare alcune considerazioni di sintesi sui contenuti trattati nel corso del
lavoro, evidenziando le evoluzioni principali che hanno portato alle concezioni più
recenti in tema di sistemi di pianificazione e controllo nonché le funzioni che
vengono attribuite dalla più recente dottrina all’utilizzo di alcuni strumenti del
controllo.
4
C a p i t o l o 1
L’ EVOLUZIONE DELLA PIANIFICAZIONE E DEL CONTROLLO
1.1 Premessa
Scopo di questo capitolo è quello di illustrare come si sono evoluti i sistemi di
pianificazione e controllo nel tempo, a partire dai suoi primi utilizzi risalenti agli
anni ’30 del Novecento fino ai giorni d’oggi, sottolineando quali sono stati i
cambiamenti più rilevanti che hanno portato a concepirlo in maniera così
profondamente diversa rispetto ai periodi precedenti. L’ analisi dell’evoluzione
storica sarà condotta con riferimento al nostro paese, quindi alla dottrina
economico-aziendale, e agli Stati Uniti, quindi agli studi di management. Due
realtà in cui gli studi sulla pianificazione e controllo hanno avuto notevoli
sviluppi.
1.2 Il concetto di controllo negli anni ‘30 del Novecento
Intorno all’inizio del Novecento nei paesi occidentali si affermò il processo di
industrializzazione che consentì lo sviluppo ed il consolidamento della struttura
industriale creatasi con la “rivoluzione industriale”. L’industrializzazione investì la
maggior parte delle attività economiche, segnando l’inizio dell’era della
produzione di massa.
Durante questo periodo, la funzione produzione ed il processo di trasformazione
dei fattori produttivi in output acquisirono un ruolo centrale nelle aziende. Queste
ultime si caratterizzavano per le grandi dimensioni e si ponevano come obiettivo
quello di produrre grandi quantità di prodotti standardizzati. Tramite il
meccanismo della produzione di massa, attorno al quale ruotava l’intera attività
aziendale, la grande impresa mirava alla ricerca di efficienza economica in termini
di combinazioni produttive a costi medi minimi.
5
La competizione si basava sul contenimento dei costi, quindi sulla riduzione dei
prezzi. Proprio per questo i manager, per spingere l’azienda verso il successo,
erano alla continua ricerca dell’efficienza e dell’elevata produttività che
congiuntamente rappresentavano l’obiettivo principale a cui puntava l’azienda1.
In altre parole, il meccanismo competitivo permetteva a chi produceva al prezzo
più basso di vincere il confronto con la concorrenza. Le azioni dei manager a capo
delle imprese di grandi dimensioni riflettevano una serie di percezioni, decisioni,
comportamenti e preferenze industriali riconducibili al più ampio concetto di
“mentalità produttiva” (orientamento alla produzione)2.
La variabile-obiettivo efficienza veniva massimizzata in condizioni di minima
complessità e varianza del processo produttivo e trovava fondamento nella
replicabilità dei prodotti, dei processi e di tutti i fattori produttivi impiegati. Grazie
alla ripetitività delle operazioni e ad un’ inesistente capacità di adattamento a
nuove situazioni o a nuovi eventuali prodotti (standardizzazione dei processi e dei
prodotti), i processi aziendali si caratterizzavano per livelli di produttività molto
elevati.
Le grandi dimensioni aziendali e la rigidità insita nel sistema produttivo erano in
perfetta sintonia con il mercato di massa, caratterizzato per l’elevata omogeneità
dei bisogni dei consumatori. Il livello tecnologico statico (o comunque in lenta
evoluzione) permettevano alle aziende di prevedere facilmente gli eventi futuri.
A seguito di queste considerazioni, si può affermare che per le aziende di
quell’epoca, una volta definito il processo produttivo nell’ambito di “un binomio
prestabilito prodotto/mercato”, le varianti ammesse erano circoscritte e ad ogni
variazione si sarebbero presentati costi addizionali rispetto alla combinazione
ottima di risorse3. Dunque, l’elevata rigidità che caratterizzava la struttura ed il
processo produttivo delle imprese non creava problemi, poiché da un lato le
esigenze di differenziazione4 dei prodotti erano ridotte al minimo e dall’altro lato, i
1
Cfr. R. FERRARIS FRANCESCHI, Pianificazione e controllo, Vol. I, Giappichelli, Torino, 2007.
2
Cfr. I. ANSOFF, Organizzazione innovativa, implanting strategic management, Ipsoa, Milano, 1987.
3
Cfr. R. FERRARIS FRANCESCHI, Pianificazione e controllo, Vol. I, Giappichelli, Torino, 2007.
4
La tendenza a diversificarsi in nuovi mercati era esclusivo appannaggio delle imprese più coraggiose.
6
mercati erano tendenzialmente stabili e caratterizzati da bassi livelli di saturazione,
quindi presentavano una buona capacità ricettiva.
Per quanto riguarda il controllo della performance, visto che il futuro era
facilmente prevedibile a causa della lentezza e della gradualità dei cambiamenti, i
manager potevano permettersi di valutare l’andamento aziendale a seguito dell’
accertamento dei risultati tramite strumenti contabili appositi per un controllo ex-
post. Il comportamento dei manager di fronte al futuro era “passivo” (“il
prevedere”). I risultati dell’esercizio passato venivano proiettati nel futuro e
considerati come punto di riferimento principale per valutare le prestazioni
dell’avvenire. Tale filosofia di gestione, denominata mentalità previsionale,
trovava espressione nel suddetto meccanismo di controllo a consuntivo. Le
operazioni, per mezzo delle quali, veniva realizzata tale forma di controllo erano
rappresentate dalla verifica di bilancio e dal controllo finanziario tramite il
rendiconto, allo scopo di prevedere con la massima approssimazione gli andamenti
futuri dell’azienda e dei mercati. I risultati del passato venivano proiettati nel
futuro e tali previsioni rimanevano vincolanti nell’esercizio successivo per
l’amministratore delegato. Quest’ultimo doveva obbligatoriamente far sì che gli
obiettivi profilati in base ai dati consuntivi e ufficiali dell’esercizio precedente
venissero raggiunti, altrimenti sarebbe stato identificato come il principale
“responsabile” e ne avrebbe pagato le conseguenze.
Nel contesto italiano il controllo a posteriori sui risultati veniva eseguito sia per
mezzo del rendiconto sia in base al bilancio di previsione (Besta)5. Entrambi
facevano riferimento all’arco temporale di ogni singolo esercizio consentendo di
valutare la performance riferita soltanto al breve periodo.
Negli Stati Uniti durante il processo di industrializzazione si affermò la cultura
manageriale anglosassone, la quale si tradusse in un modello di ricerca scientifica
fortemente orientato all’approccio induttivo che per l’appunto partiva dall’ analisi
dei fatti gestionali e successivamente si traduceva a seguito di profonde
5
Cfr. F. BESTA, La ragioneria, ristampa della seconda edizione riveduta ed ampliata da V. ALFIERI, C. GHIDIGLIA,
P. RIGOBON, Vallardi, Milano, 1922.
7
rielaborazioni in vere e proprie teorie gestionali6. Il confine tra mondo accademico
ed operativo pertanto si assottigliò sempre di più. Tale fenomeno consentì la
nascita, l’affermazione e la diffusione del suddetto modello di ricerca7, basato
sull’osservazione dei fatti provenienti dalla realtà operativa aziendale.
In Italia il processo di industrializzazione si diffuse in periodi successivi rispetto al
mondo anglosassone, soprattutto a causa delle dimensioni più circoscritte delle
nostre imprese. Fattore dimensionale e condizionamenti di altro tipo
rappresentarono un ostacolo per lo studio, l’elaborazione e l’eventuale
sperimentazione di strumenti di gestione e di direzione all’interno delle nostre
imprese. Nonostante ciò, la dottrina italiana ha offerto nel tempo contributi
importanti riguardo la progressiva evoluzione delle teorie relative alla realtà
economico-aziendale e al controllo di gestione .
Tra i più autorevoli autori di questo periodo si ricorda Gino Zappa8, il quale nel
1935 affermò che l’evoluzione e l’incertezza dell’ambiente esterno dovevano
essere affrontate seguendo l’approccio statunitense9. Il modello di ricerca
anglosassone, secondo l’autore, avrebbe consentito di gestire l’azienda mediante la
previsione analitica delle future azioni economiche partendo dall’osservazione
della realtà dei fatti aziendali. Tale approccio era risultato molto efficace nelle
imprese americane, nelle quali aveva sortito effetti positivi in termini di
miglioramento della gestione aziendale. Nonostante ciò, l’intento dello Zappa di
“esportare” il modello di gestione statunitense fortemente basato sulla ricerca
empirica, inizialmente non fu accolto in maniera positiva nell’ambiente culturale
italiano. Per diversi anni l’idea di applicare le tecniche derivanti dalla prassi
operativa furono percepite come fuorvianti dalla maggior parte dei nostri studiosi.
Tuttavia, a partire dal 1935, altri autori italiani cominciarono a soffermare
l’attenzione sulle tecniche gestionali operative, con particolare riferimento alla
determinazione dei costi.
6 Cfr. R. FERRARIS FRANCESCHI, Pianificazione e controllo, Vol. I, Giappichelli, Torino, 2007.
7
Cfr. R. FERRARIS FRANCESCHI, Pianificazione e controllo, Vol. I, Giappichelli, Torino, 2007.
8
Cfr. G. ZAPPA, Fabio Besta, Il Maestro, supplemento alla Rivista Italiana di Ragioneria, 1935.
9 Cfr. R. FERRARIS FRANCESCHI, Pianificazione e controllo, Vol. I, Torino, Giappichelli, 2007
8
Teodoro D’Ippolito10, ad esempio, propose un sistema di imputazione dei costi
generali su basi multiple e inoltre presentò un avanzato modello di contabilità
industriale11. Secondo l’autore, allo scopo di determinare i costi, si sarebbero
dovuti adottare sistemi extracontabili basati su presupposti e logiche di
funzionamento assai diversi dal sistema dei conti in partita doppia il cui scopo
esclusivo era la determinazione e la rilevazione del reddito d’esercizio. D’Ippolito
accennò inoltre ai sistemi dei costi standard, sottolineandone l’utilità e ponendo
enfasi sulla grande diffusione che essi conobbero nei paesi industrializzati europei
e negli Stati Uniti d’America.
Si può concludere che in Italia, la tematica delle tecniche e delle teorie riguardanti
il controllo di gestione, pur avendo suscitato l’interesse di alcuni studiosi e
professionisti, non furono né considerate né sperimentate nelle aziende. Si
riscontrava, infatti, una mancanza pressoché totale degli strumenti di controllo di
gestione nelle nostre imprese12. Soltanto a partire dalla metà degli anni Cinquanta
si cominciarono a sperimentare queste tecniche e ad utilizzare gli strumenti di
controllo suddetti nella realtà operativa aziendale.
Ciò si evince anche da un’analisi retroattiva svolta dall’ autrice Maria Bergamin
Barbato13, la quale osservò che “all’ indomani della fine del secondo conflitto
mondiale, le grandi imprese italiane non utilizzavano al loro interno strumenti
come gli standard e i budget, tanto che tra gli aiuti previsti dal piano Marshall a
favore dell’Italia era compreso anche l’invio di docenti universitari statunitensi, il
cui compito sarebbe stato quello di diffondere la conoscenza, attraverso scuole di
formazione delle grandi aziende, degli strumenti manageriali statunitensi.”
Nel prossimo paragrafo vedremo che a partire dagli anni Cinquanta crebbe
l’esigenza per le aziende di adottare strumenti di controllo di gestione. Questi
ultimi cominciarono ad assumere una certa rilevanza come mezzi che
consentivano ai manager di guidare l’organizzazione intera verso gli obiettivi
10
Cfr. T. D’IPPOLITO, I costi di produzione nelle aziende industriali, Giuffré, Milano, 1935.
11
Cfr. R. FERRARIS FRANCESCHI, Pianificazione e controllo, Vol. I, Torino, Giappichelli, 2007.
12
Cfr. R. FERRARIS FRANCESCHI, Pianificazione e controllo, Vol. I, Torino, Giappichelli, 2007.
13
Cfr. M. BERGAMIN BARBATO, Genesi e sviluppo del controllo di gestione nella cultura aziendale e professionale,
in Contabilità e cultura aziendale, Vol. II, n. 2, 2003.
9
aziendali stabiliti dal vertice aziendale. Metteremo in evidenza, pertanto, come la
differente filosofia di gestione e i nuovi approcci relativi ai sistemi di controllo
siano frutto dell’evoluzione dei contesti ambientali che, essendo sempre più
caratterizzati da complessità e da cambiamenti rapidi, hanno richiesto alle
aziende risposte sempre più tempestive e più complesse per sopravvivere nei
mercati.
1.3 La pianificazione e il controllo negli anni ’50 ’60.
1.3.1 Il contesto italiano
Durante gli anni ’50 nel nostro Paese si verificò un aumento diffuso di reddito
pro-capite che investì anche le fasce di popolazione meno abbienti facendo
lievitare la domanda di beni che soddisfacessero i bisogni primari. Le imprese di
successo cominciarono a produrre maggiori quantità di output, ai fini di rispondere
alle nuove richieste del mercato. Per riuscirci dovettero ampliare la quantità di
prodotti, quindi le loro dimensioni. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto le
imprese furono favorite dall’avvento della catena di montaggio che consentì di
ottenere la produzione in grandi serie di output standardizzati14.
Grazie all’incremento dimensionale emerse così la reale possibilità di perseguire le
economie di scala, attraverso le quali si cercava di raggiungere il massimo livello
di efficienza possibile. A seguito della forte espansione economica, i prezzi di
vendita si abbassarono provocando il progressivo allargamento del mercato. Per le
aziende l’efficienza rappresentava ancora la variabile obiettivo e veniva monitorata
attraverso il controllo dei costi diretti del processo di trasformazione15.
Gli strumenti di controllo nel frattempo avevano conosciuto una notevole
diffusione nelle imprese statunitensi, consentendo alle stesse il raggiungimento di
ottimi risultati in termini di miglioramento dell’economicità della gestione. Visto il
successo riscosso nelle imprese americane, una corrente di pensiero italiana mostrò
disponibilità ad adottare nelle nostre imprese i sistemi basati sui costi standard e
14
Cfr. R. FERRARIS FRANCESCHI, Pianificazione e controllo, Vol. I, Giappichelli, Torino, 2007.
15
Tali costi nella maggior parte dei casi erano composti da costi variabili di produzione.
10
sul budget. Tuttavia, gli autori italiani si limitarono a rielaborare le esperienze più
significative provenienti dalle realtà statunitense per riadattarle al nostro contesto.
Solamente a partire da metà anni ’60 nel nostro paese venne concentrata
maggiormente l’attenzione sulle tematiche della pianificazione e del controllo e
vennero alla luce i primi contributi originali degli autori italiani. Vittorio Coda16 si
propose di analizzare i costi standard nella pianificazione e nel controllo di
gestione. Secondo l’autore, il controllo poteva essere studiato sotto due diversi
aspetti: “1) il controllo economico, con il quale si verificava la convenienza delle
azioni intraprese e si promuovevano i cambiamenti che si sarebbero resi necessari
a causa dell’ evolversi delle circostanze interne ed esterne all’impresa; 2) il
controllo esecutivo, finalizzato al monitoraggio in termini di attività svolte e di
risultati conseguiti, del comportamento dei soggetti operanti all’interno dell’
impresa e si fondava sull’individuazione analitica di standard fisici unitari che
legavano l’utilizzo di ciascun fattore variabile al volume produttivo da ottenere17.”
La formulazione dei giudizi sia riguardo la correttezza di obiettivi ed indirizzi sia
riguardo l’efficienza del management, era sintetizzata nel confronto tra costi
consuntivi e costi standard. Quest’ultima tipologia di costi esprime gli indirizzi di
gestione e l’efficienza di tutti gli organi nei confronti dei quali avrebbe
rappresentato uno strumento di direzione. Le imprese a seguito della grande
crescita dimensionale furono costrette a ricorrere al processo di delega per cercare
di rendere maggiormente razionale la sempre più complessa realtà gestionale. La
diffusione del processo di delega influì sul ruolo del “controllo esecutivo”.
Inizialmente l’obiettivo di quest’ultima tipologia di controllo era quello di
verificare che le specifiche mansioni venissero eseguite seguendo criteri di
efficienza ed efficacia. Successivamente il vertice aziendale sentì l’esigenza di
ridisegnare e realizzare sistemi in grado di far conoscere ed assegnare i sub-
obiettivi ai responsabili delle unità organizzative e di guidarne la loro azione verso
gli obiettivi aziendali. Ciò consentì di agevolare il controllo della gestione nelle
realtà aziendali più complesse, oltre che permettere di evidenziare gli scostamenti
16
Cfr. V. CODA, I costi di produzione, Giuffré, Milano, 1968.
17
Cfr. V. CODA, I costi di produzione, Giuffré, Milano, 1968.
11
in itinere rispetto alle attese e il loro riallineamento tempestivo tramite interventi
correttivi. Tutto ciò poteva realizzarsi soltanto per mezzo del “controllo
direzionale”, ovvero “quell’attività di guida svolta dal management per il
conseguimento degli obiettivi economici prestabiliti.” Con la contabilità
direzionale si accertava che le suddette condizioni si verificassero e tramite il
meccanismo di retroazione si andavano a rilevare in maniera tempestiva gli
scostamenti tra obiettivi previsti e risultati effettivamente raggiunti.
1.3.2 Il Contesto statunitense
Negli anni ’50 grazie all’ampliamento dei mercati, le imprese si focalizzarono
sulla produzione e si posero come obiettivo l’ottenimento di economie di scala
attraverso l’espansione della capacità produttiva. L’efficienza rappresentava anche
per le imprese statunitensi l’ obiettivo di fondo da raggiungere e, mediante i
supporti tecnico-contabili, si ricavavano le informazioni necessarie per controllare
i costi diretti di prodotto che incidevano maggiormente sui costi totali.
Risale a questo periodo il contributo di Robert Anthony (1965) sulla tematica dei
sistemi di pianificazione e controllo. L’ approccio dell’ autore rientra nell’ ambito
del modello della scuola di Harvard che separa formulazione ed implementazione
delle strategie e si basa sulla distinzione tra le seguenti attività:
“1) Pianificazione strategica, intesa come il processo di decisione sugli obiettivi
dell’organizzazione, sui loro cambiamenti, sulle risorse da usare per il loro
raggiungimento e sulle politiche che debbono informare l’acquisizione, l’uso e
l’assegnazione di tali risorse;
2) Controllo direzionale, che comprende la programmazione operativa ed il
controllo di gestione ed è il processo mediante il quale i dirigenti si assicurano che
le risorse siano ottenute ed usate efficacemente ed efficientemente per il
raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione;
3) Controllo operativo, ovvero il processo volto ad assicurare che i compiti
specifici siano portati a termine in maniera efficace ed efficiente; si caratterizza
quindi rispetto agli altri due per l’assenza di un vero e proprio processo decisionale
e per riferirsi ad un arco temporale piuttosto breve.”
12
Le attività riferibili all’area della pianificazione strategica venivano svolte
esclusivamente dal vertice aziendale, il controllo direzionale dal management
intermedio, i cui membri partecipavano, anche se in minima parte, alla definizione
degli obiettivi. Infine, il controllo operativo veniva svolto dai manager collocati
nell’ ultimo livello della scala gerarchica18.
Il contributo di Anthony ha rappresentato un punto di riferimento importante per
manager e studiosi, e nelle epoche successive i contenuti più importanti presenti in
questa impostazione, hanno rappresentato oggetto di studio e di rielaborazioni
importanti.
A partire dagli anni Sessanta il mercato delle industrie che producevano beni per il
soddisfacimento dei bisogni primari raggiunse la saturazione e vennero avvertiti
sintomi di cambiamento nelle esigenze dei consumatori. Alla base del nuovo
mutamento vi fu l’accresciuto livello di prosperità economica raggiunto dalla
società. L’era della produzione di massa aveva permesso il raggiungimento del
benessere fisico elementare ed il soddisfacimento delle esigenze di sicurezza della
popolazione. Il nuovo livello di prosperità segnò l’inizio dell’era post-industriale,
nella quale i consumatori poterono soddisfare appieno i propri bisogni primari.
Non solo, a seguito di un aumento diffuso del potere d’acquisto dei salari e degli
stipendi, iniziò a crescere notevolmente la richiesta di beni voluttuari e di nuovi
servizi. Per soddisfare la crescente domanda di quest’ultima tipologia di output,
vennero create e si diffusero presto nuove industrie che individuavano come target
primario la fascia di consumatori più opulenti che desideravano, ad esempio,
divertimenti, viaggi, servizi di vario genere e così via.
Cambiò nuovamente il modello di domanda del consumatore e per sopravvivere le
aziende furono costrette ad investire su attività come promozione, pubblicità,
attività commerciali, forme di condizionamento. Tutto ciò rappresentò una fase di
fondamentale importanza per le aziende che passarono dall’orientamento alla
produzione all’orientamento al marketing19. Il segreto del successo e le variabili
critiche non erano più rappresentate da quelle delle epoche precedenti, perciò le
18 Cfr. R. FERRARIS FRANCESCHI, Pianificazione e controllo, Vol. I, Torino, Giappichelli, 2007.
19
Cfr. I. ANSOFF, Organizzazione innovativa, implanting strategic management, Ipsoa, Milano, 1987.
13
imprese dovettero cominciare ad analizzare profondamente il mercato, allo scopo
di percepire ed interpretare le nuove esigenze del consumatore. Una volta raccolte
le informazioni, si doveva progettare la struttura dell’ organizzazione necessaria
alla creazione del sistema-prodotto che meglio soddisfaceva le esigenze più
complesse dei consumatori. Durante l’era della produzione di massa, al contrario,
si decideva prima cosa produrre scegliendo output e struttura prescindendo dai
gusti e dalle preferenze dei consumatori, i quali esprimevano bisogni omogenei.
Si svilupparono all’interno delle aziende sistemi manageriali di controllo fondati
su presupposti di partenza molto diversi rispetto a quelli passati. Questi furono
modellati in modo da mettere in condizione i manager di meglio fronteggiare un
mercato caratterizzato da accresciuti livelli di turbolenza e complessità.
In tale periodo di forte espansione economica, in azienda fu sempre più avvertita
l’esigenza di ricorrere al processo di delega e alla responsabilizzazione dei
manager sugli obiettivi prefissati dall’azienda, affinché venissero gestiti più
efficacemente elementi di complessità interna ed esterna caratterizzanti il contesto
economico in questione.
Analogamente al contesto italiano, negli Stati Uniti, a partire da questo periodo, il
controllo direzionale assunse una rilevanza fondamentale per le imprese di grandi
dimensioni. Esso rappresentò un utile supporto in grado di aiutare i manager
nella presa di decisioni e di allineare le azioni dei responsabili e dei collaboratori
dei diversi livelli gerarchici verso gli obiettivi aziendali.
Nel prossimo paragrafo analizzeremo l’evoluzione della pianificazione e del
controllo nel periodo che si colloca “a cavallo” tra anni Sessanta e Settanta.
Verrà posta enfasi, in particolare, sulla rinnovata concezione di pianificazione e di
controllo che si differenziò notevolmente rispetto a quella dei periodi appena
precedenti, in quanto il contesto ambientale subì cambiamenti assai profondi.
14
1.3.3 Il passaggio dagli anni ’60 agli anni ‘70
Nel periodo che va dalla metà degli anni ’60 alla prima metà degli anni Settanta, i
cambiamenti dell’ambiente divennero progressivamente più rapidi, anche se per le
imprese era ancora possibile prevedere il futuro. A causa dell’accresciuto
dinamismo dei mercati, il management assunse una mentalità prospettiva, dalla
quale scaturì un atteggiamento “attivo” delle aziende di fronte al futuro (il
pianificare). I sistemi manageriali si cominciarono a basare sull’estrapolazione
delle esperienze passate, non più sul ribaltamento dei risultati degli esercizi
precedenti nel futuro. L’instabilità caratterizzante i “nuovi” mercati non
permetteva più alle aziende di prevedere con buona approssimazione le
performance future. A causa della presenza delle incertezze nel prevedere il futuro,
si cominciò ad avvertire l’esigenza di superare la gestione di tipo vincolistico.
Secondo la logica vincolistica in capo all’amministratore delegato vi era l’obbligo
di realizzare gli obiettivi prefissati e basati completamente su quelli dell’esercizio
precedente. Tale impostazione si rivelò inadeguata a fronteggiare le nuove sfide e
le aziende cominciarono ad adottare una gestione di tipo “volontaristico” basata
sulla formulazione di ipotesi.
In Italia furono il Caramiello, il Giannessi, il Ceccherelli ed il Mortara, nell’ambito
del modello della scuola toscana, ad introdurre il nuovo approccio.
La formulazione di ipotesi da parte del management sull’andamento di mercato e
di azienda nel futuro rappresentò la novità più importante della nuova filosofia di
gestione. Si dovevano “disegnare” linee e tracce, fondate su ipotesi, modificabili
nel tempo qualora le analisi di coerenza sugli andamenti reali dei fatti avessero
indicato la loro inadeguatezza rispetto alle nuove esigenze emergenti in
corrispondenza alle trasformazioni continue che caratterizzavano i nuovi scenari.
Non sarebbe stato più possibile per le aziende basarsi su un bilancio di previsione
vincolante e definitivo perchè il mercato non era più caratterizzato da staticità ed
omogeneità della domanda come negli anni precedenti. Nonostante fosse rimasto
un margine di prevedibilità, le sfide potevano essere affrontate solamente
formulando ipotesi prospettive.
15
Ai fini di una corretta formulazione di ipotesi future, in azienda, cominciarono ad
essere utilizzati i piani economici, finanziari e di investimento che
rappresentavano gli strumenti-guida per le azioni del manager. Essi non erano né
vincolanti né deliberati dall’ organo amministrativo.
Cambia in questo modo il concetto di controllo che inizia ad operare nel lungo
termine fornendo una dimensione prospettica all’azienda, anziché limitarsi al
breve andare.
Negli Usa, in questo periodo nacque la pianificazione di lungo termine
formalizzata (Long Range Planning) che consisteva in un sistema di piani
collegati tra loro. Il LRP (Long Range Planning) presentò diversi limiti derivanti
dalla sua rigidità, ma portò con sé il vantaggio di aver indotto le aziende delle
epoche successive ad adottare la pianificazione come funzione aziendale, seppur
con modalità profondamente differenti che andavano in base alle caratteristiche dei
contesti in continua e costante evoluzione. La scuola di Harvard, aveva così
introdotto attraverso l’LRP il concetto di pianificazione di lungo andare nella realtà
aziendale. A causa della sua intrinseca ed eccessiva rigidità, la pianificazione
formalizzata di lungo periodo fu presto abbandonata, in quanto inadeguata a
fronteggiare l’emergente dinamicità dei nuovi mercati. La scuola “Harvardiana”
ebbe inoltre il merito di diffondere il modello del decisore razionale improntato
alla logica del General Problem Solving. Tale modello veniva schematizzato in
fasi sequenziali e rappresentava la logica sottostante al Long Range Planning
(Figura 1). Con il metodo appena descritto si arrivava alla decisione finale solo
dopo il superamento delle fasi indicate nella figura 1. Un esempio di decisione
finale potrebbe essere quella di mantenere in vita un prodotto differenziandone le
caratteristiche esterne conservandone interamente il contenuto qualitativo.
Nella fase di attuazione degli obiettivi prestabiliti veniva attuato il meccanismo di
feed-back.