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Nella seconda parte sarà descritta la ricerca sperimentale a carattere psicologico mediante
la quale sono state analizzate e valutate le differenti specializzazioni funzionali relative alle
capacità intellettive globali, con particolare attenzione alle componenti verbali e percettive
dell’attenzione e della memoria In questi ultimi anni, le neuroscienze stanno cambiando la
musica e la musica sta cambiando le neuroscienze, entrando nei laboratori e nelle stanze della
ricerca. Oggi, diventa oggetto di sperimentazione proprio il rilassante sottofondo musicale,
che i ricercatori ascoltano di sfuggita mentre sono alle prese con un esperimento; il disegno
sperimentale ora consiste proprio nello spiegare perché quel “sottofondo” è così rilassante. O,
più in generale, capire perché noi uomini produciamo e amiamo la musica, che è tanto
gradevole ma sembrerebbe non servire assolutamente a niente di concreto. Una ulteriore
modalità di indagine sarà rivolta ai fondamenti biologici della musica. Essa di rado è studiata
da questa prospettiva e questo lavoro potrà essere un contributo alla comprensione di
paradigmi così apparentemente distanti: genetica, ricerca di sviluppo e comparativa,
neuroscienze e musicologia.
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Capitolo 1
Musica e ricerca neuropsicologica
Lo studio della percezione musicale, fino agli anni ‘80 appannaggio esclusivo dei
musicologi o di qualche psicologo un po' originale, ha riscosso nei decenni successivi un
crescente interesse; “frotte” di neurologi e neurofisiologi hanno scoperto nei ritmi e nelle
melodie uno strumento nuovo per capire il funzionamento del cervello, affrontando tutti i
punti nodali della ricerca: dall'evoluzione delle nostre abilità alla musicoterapia, dalle ricerche
sulle emozioni a quelle sulle lesioni cerebrali e sulle disfunzioni dell'ascolto.
Proprio queste ultime sono le più utili per capire come e “dove” il nostro cervello ascolta
la musica e, per esempio, se ci sono delle sovrapposizioni con i circuiti neurali del linguaggio.
Sono molto più di semplici curiosità, basti pensare al potenziale diagnostico e terapeutico che
certe scoperte potrebbero avere.
Isabelle Peretz, docente presso il Montreal Neurological Institute della McGill University
dell'Università di Montreal, studia da più di venticinque anni i soggetti con amusia, quelli cioè
completamente privi di abilità musicali, e ha raccolto una serie di case-studies estremamente
interessanti, ognuno dei quali, dice lei, "è affascinante come una spy-story".
Ma perché considerare proprio i soggetti che hanno subito delle lesioni o che hanno dei
difetti dell'ascolto?
Perché, come in altri settori della ricerca sul cervello, poter confrontare la funzione
cerebrale di persone come gli amusici, o come i semplici stonati, con quella degli individui
"normali", oppure poter valutare che cosa un soggetto precedentemente "normale" ha perso in
seguito a una lesione in una precisa zona del cervello, dà delle indicazioni impossibili da
ottenere in altri modi. Inoltre, perchè la musica è un'attività esclusivamente umana e quindi
non è possibile utilizzare cavie animali per studiarla.
Sì, perché la musica sembra davvero essere una cosa tipica di noi uomini, come il
linguaggio. E le altre specie che sembrano cantare più o meno come noi, in realtà, lo fanno
per scopi diversi, cioè sostanzialmente per comunicare. Anche se è possibile trovare delle
somiglianze sorprendenti tra la nostra musica e i canti delle balene o i cinguettii dei passerotti,
è abbastanza evidente che non si tratta di qualcosa che abbiamo ereditato da un “antenato”
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comune, perché i nostri sentieri evolutivi si sono separati troppo tempo fa e tutti gli altri
animali discesi da quell’entità biologica non hanno questa abilità. Dunque, per capire perché
abbiamo sviluppato tanta musicalità e se questa abbia avuto un valore adattativo per i nostri
antenati, dobbiamo percorrere a ritroso il nostro albero evolutivo, e rivolgerci ai nostri parenti
più stretti: le scimmie. Mentre per chiarire quanta parte del nostro amore per le note sia
naturale e non dipenda invece dalla cultura, dobbiamo studiare i comportamenti dei nostri
neonati. Incrociando questi dati, possiamo ottenere la sintesi tra filogenesi (ossia il percorso
evolutivo di tutta la specie) e ontogenesi (lo sviluppo di un singolo individuo) che ci
permetterà, un giorno, di capire se è nata prima la musica o il linguaggio verbale e se esiste
uno scopo per cui abbiamo imparato a suonare e cantare
1
.
Di sicuro, indipendentemente dal perché dei primi “gorgheggi” dei nostri antenati, la
musica è una dispensatrice di emozioni. Può farci rilassare, piangere, ridere, ballare e può
anche convincerci a comprare qualcosa, sottoforma di un jingle pubblicitario che si “incolla al
cervello”. E le emozioni musicali sono anche emozioni collettive, ritualità antiche come
l'uomo, come i canti e balli per invocare una divinità, celebrare una nascita o un matrimonio,
accompagnare un funerale o semplicemente "fare gruppo", in un campo di cotone come allo
stadio.
Oggi i neuroscienziati stanno strutturando dei modelli per valutare precisamente la valenza
emotiva della musica e, nel futuro, la sua comprensione potrà rivelarci qualcosa anche dei
processi che guidano il nostro pensiero, le nostre decisioni e le nostre scelte. Perché la musica
non è solo un diletto per le orecchie, ma è anche uno stimolo per il cervello. Ed è sempre di
più, come l'ha definita Robert Zatorre, docente presso il Montreal Neurological Institute della
McGill University dove dirige un laboratorio che si occupa di neuroscienze cognitive della
percezione acustica, "pane per le neuroscienze".
1
Serravezza A. 1996, Musica e scienza nell’età del Positivismo, Il Mulino/Ricerca, Bologna, ed i riferimenti qui
contenuti a Spencer H. (1857) The origin and function of music e a Darwin Ch. (1872) Expression of the emotions in
man and animals trad. it. L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli ominidi, Bollati Boringhieri, Torino, 1982)
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1.1 NEUROSCIENZE
Solo il 4% della popolazione mondiale è davvero irrimediabilmente stonata. Ce lo rivela
Isabelle Peretz, che insieme a Robert Zatorre, ha dato vita al BRAMS (Brain, Music and
Sound Research), un centro internazionale per lo studio delle relazioni tra cervello, musica e
suoni. Entrambi sono considerati delle autorità nel settore della neurobiologia che si occupa di
disturbi del senso musicale. In particolare, Isabelle Peretz ha curato studi sull’amusia -
l’incapacità di riconoscere e riprodurre ritmi e/o melodie - e sulla base genetica della
percezione e dell’elaborazione dell’informazione musicale. Robert Zatorre dirige un
laboratorio che si occupa di neuroscienze cognitive della percezione acustica. Le loro
ricerche, sintetizzate di recente in un articolo su Annual Review of Psychology (2006),
portano nuove prove a sostegno dell’idea della musica come “patrimonio genetico” e non solo
culturale, della nostra specie. “L’amusia non è un problema funzionale dei sensi”, spiega
Peretz, “è una condizione che riguarda esclusivamente la musica e la fonologia musicale”.
Negli amusici, la prosodia, cioè la pronuncia regolare delle parole relativamente all’accento e
al ritmo, rimane intatta. Studi condotti su gemelli omozigoti ed eterozigoti suggeriscono che
l’amusia sia congenita e legata ad un gene recessivo, responsabile di un reale deficit della
capacità di codificare le piccole variazioni di tono tipiche delle melodie ma non del parlato,
dove le variazioni sono più grandi e più facilmente apprezzabili.
Osservato con tecniche di neuroimaging, il cervello degli amusici mostra un minor
addensamento in un punto specifico della materia bianca (al di sotto della corteccia, costituita
da materia grigia). Quindi non si tratta di un problema nella corteccia uditiva. La capacità di
riconoscere e rielaborare suoni è collegata a centri neuronali specializzati.
Il cervello musicale si può quindi distinguere, secondo Peretz, da quella parte del cervello
deputata al linguaggio. Là dove ci sono problemi cognitivi o funzioni cognitive non
sviluppate, l’abilità musicale può essere ben presente e una certa competenza musicale viene
osservata spesso in soggetti con altre deficienze. Esistono, per esempio, casi emblematici di
persone con orecchio assoluto incapaci di cantare senza solfeggiare. Non è però semplice
definire un centro per la musica: ci sono molte componenti legate alle capacità musicali in
parti diverse del cervello.
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Gli amusici sono insensibili alle dissonanze, ovvero non percepiscono come “sbagliato” un
insieme di suoni che si allontana dall’accordo comunemente accettato come “consonante”. A
sostegno dell’ipotesi di una base genetica, l’amusia è stata osservata anche in bambini molto
piccoli, ma “la domanda se la musica sia innata è ancora troppo generica e lo studio
dell’innatismo va fatto in modo accurato”, afferma Peretz
2
.
Ci sono musico-etologi che si occupano proprio di questo. Sono in corso studi finalizzati a
capire se alla base delle capacità musicali vi sia un meccanismo simile a quello ipotizzato dal
linguista Noam Chomsky per l’acquisizione del linguaggio. L’apprendimento, in questo caso,
si baserebbe su un calcolo statistico di probabilità che il cervello è in grado di compiere già a
pochi mesi. Secondo tale teoria, i bambini, così come imparano che è molto probabile che la
sillaba “ca” sia seguita da “sa”, potrebbero sviluppare le loro abilità musicali in base agli
intervalli più frequentemente ripetuti nelle melodie che ascoltano.
2
Peretz I.,2006 The nature of music from a biological prospective-Cognition 100-(2006) 1-32