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Filosofia Africana, dando vita ad un
confronto sull'esigenza di oltrepassare i
luoghi comuni, sperimentando un dibattito
fecondo, ma ancora ai primordi in Italia,
rispetto ad altri paesi come l'Olanda (in
particolare la Erasmus University di
Rotterdam nella figura del Professor Heinz
Kimmerle, collega di studi del Professor
Valerio Verra alle lezioni di Hans Georg
Gadamer presso l'Università di Heidelberg),
la Germania, la Svizzera, l'Austria, gli
Stati Uniti (in particolare le università di
Duke, Harvard, Indiana, Stanford e Tampa) e
la maggiorparte degli atenei dei paesi
africani.
Negli anni recenti nei paesi occidentali
molteplici sono stati i tentativi e gli
sforzi di dare avvio a questo impegno
comune.
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Una delle conseguenze più frequenti, che
vorremmo appunto evitare, derivante dal non
considerare debitamente le reciproche
differenze fra le diversità, sia per ciò che
attiene alla conoscenza sia per ciò che
attiene alla creatività, è proprio la mera
dimenticanza ed esclusione della ricchezza
eterogenea, più recondita e segreta, della
quale sovente siamo ignari portatori.
In appendice vengono riportati integralmente
due contributi di studiosi italiani - Mario
Perniola e Lidia Procesi - al dibattito
inerente la filosofia africana nel nostro
paese, nonché il dettaglio dei contributi
dei due convegni internazionali di Addis
Abeba, i più rilevanti degli ultimi venti
anni nella materia.
Nell'ambito del progetto il sottoscritto ha
realizzato le seguenti iniziative:
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• Partecipazione al Second Panafrican
Symposium of Philosophy, organizzato dal
Professor Claude Sumner del Dipartimento
di Filosofia della Addis Ababa University,
tenutosi presso la sede dell'OUA
(Organizzazione per l'Unità Africana) ad
Addis Abeba, Etiopia, nei giorni 1-4
dicembre 1996.
• Comunicazione dal titolo "New Perspectives
in Contemporary Philosophy", presentata
alla Prima Conferenza Internazionale
Africa in World Affairs: Challenges to the
Humanities, organizzata dal Professor
Albert Tito Dalfovo, direttore del
Dipartimento di Filosofia della Facoltà di
Lettere della Makerere University di
Kampala, Uganda, ed ivi tenutasi nei
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giorni 6-8 marzo 1997. Tale comunicazione
è in procinto di essere pubblicata negli
atti della conferenza.
• Missione di studio presso la Erasmus
University di Rotterdam, Paesi Bassi, nel
mese di aprile 1997, su invito del
Professor Heinz Kimmerle.
• Organizzazione del seminario di studio
tenutosi il 12 giugno 1997 a Roma presso
la sala conferenze di Palazzo Capizucchi,
dal Professor Martin Nkafu Nkemnkia,
docente di filosofia presso le Pontificia
Università Lateranense, Gregoriana ed
Urbaniana, dal titolo Il Pensiero africano
come Vitalogia, attuato sotto la
supervisione della Professoressa Lidia
Procesi, docente di Storia della Filosofia
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Moderna e di Filosofia delle Religioni,
dal Dipartimento di Filosofia
dell'Università degli Studi Roma Tre
nell'ambito del progetto di Ateneo
"Africa-Europa".
• Missione di studio presso la Stanford
University, Stati Uniti, nel mese di
febbraio 1998, su invito del Professor
Valentin Y. Mudimbe.
• Conferenza pubblica dal titolo Filosofia
come luogo aperto per una comunicazione
interculturale. La Filosofia Africana si
interroga. Crisi della razionalità
eurocentrica, in collaborazione con
"Scritti d'Africa" presso la Casa delle
Culture di Roma in data 8 giugno 1998.
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• Organizzazione del seminario di studio dal
titolo Fondamenti e Protagonisti del
Pensare Africano, tenutosi il 30 aprile
1999 a Roma presso il Dipartimento di
Filosofia dell'Università degli Studi Roma
Tre in collaborazione con la Cattedra di
Filosofia dele Religioni.
Il sottoscritto è membro dal 1997 della
Gesellschaft für Interkulturelle Philosophie
di Colonia; dal 1998 della SAPINA (Society
For African Philosophy In North America)
della Stanford University; dal 1999 della
PSSA (Philosophical Society of Southern
Africa).
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Introduzione
La recente storia dell'Africa è stata
caratterizzata da una profonda e complessa
metamorfosi, che ha coinvolto l'intero
continente. Come ha scritto Mazrui:
Ciò che l'Africa ha sperimentato nel corso di
questo secolo è stata soprattutto la
considerevole transizione dal villaggio
globalizzato ("il mio popolo è il mondo") al
mondo villagizzato ("il popolo del mondo è il
mio popolo"). Un violento shock ha scosso in
profondità il continente, che ad un tratto ha
dovuto prendere consapevolezza che il villagio
non era più il mondo e che, anzi, il mondo era
divenuto un villaggio.1
1 A.A.MAZRUI, "The Africans. A triple heritage",
BBC, Londra 1986, pag. 295.
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Tale transizione ha trovato il suo incipit
nel difficile incontro delle realtà africane
con l'Occidente nel periodo coloniale, ed è
stata particolarmente problematica a causa
del suo carattere violento. La
relativizzazione del "mondo del villaggio"
si è realizzata come negazione esplicita
degli orizzonti di senso che lo
caratterizzavano. Il colonialismo si è
infatti dispiegato imponendo come
paradigmatici i modelli occidentali. Come ha
scritto Basil Davidson, uno dei più
autorevoli studiosi in materia,
il colonialismo è uno iato, un interludio,
durante il quale la storia africana è stata
arrestata o, meglio, forzata a divenire per un
certo periodo parte di quella europea.2
2 BASIL DAVIDSON, "Crossroads in Africa", Spokesman
Press, Nottingham 1980, pag. 47.
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Tale situazione è vissuta dalle popolazioni
sottomesse come "la messa in questione delle
proprie esistenze"3 e della propria umanità.
In questo contesto emerge con forza il
problema dell'identità che assume una
posizione centrale nella produzione
culturale africana del nostro secolo.
Chi incarna in modo emblematico la difficile
eredità del colonialismo, espressa dalla
tensione tra modelli diversi, posti come
antitetici, è l'intellettuale africano
europeizzato, nel quale le categorie
tradizionali convivono con un'educazione di
tipo occidentale. E' proprio questa figura
che si fa massimamente carico di pensare la
difficile condizione delle realtà africane,
3 TSENAY SEREQUEBERHAN, "The Hermeneutics of African
Philosophy. Horizon and Discourse", Routledge, New
York 1991, pag. 9.
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tematizzando la problematica dell'identità e
rivendicando un riconoscimento negato.
Su tali riflessioni, verso la metà del
secolo corrente, s'innesta il dibattito
sulla filosofia africana. In esso la
filosofia è innanzitutto oggetto del
discorso, ancor prima che modalità
discorsiva: ci si interroga sull'esistenza
di una filosofia nelle culture tradizionali,
sulla possibilità del suo sorgere in esse e
sul ruolo che la filosofia in generale
potrebbe rivestire nell'Africa post-
coloniale. Quello che emerge in tale spazio
discorsivo è un confronto metodologico sulla
valorizzazione o meno delle tradizioni e
sulla valutazione degli apporti occidentali.
Fino alla metà degli anni Settanta tale
dibattito è dominato dall'opposizione polare
di due correnti, quella dei tradizionalisti
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e quella dei "filosofi professionali"; i
primi mirano a ristabilire i tradizionali
sistemi di valore come condizione per
l'autenticità, mentre i secondi affermano la
necessità di una radicale europeizzazione
per superare le difficoltà del presente
africano ed avviare un proficuo sviluppo.
Dagli anni Ottanta in poi, invece, gli
orientamenti più importanti cercano una
sintesi possibile.
Seguiremo l'evoluzione di questo dibattito,
attestando il progressivo imporsi
dell'attenzione alla storicità e
riconoscendo in questo atteggiamento una
condizione fondamentale per il superamento
dell'impasse esistenziale e politica delle
realtà africane post-coloniali e per una
lettura feconda delle contraddittorie
eredità della storia.
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Le modalità espressive della letteratura
africana di norma adoperano forme
simboliche, per rappresentare le proprie
tradizioni arcaiche. Difatti ogni storia
viene ad essere strutturata attorno ad un
tema generale quale soggetto interno del
discorso da cui e verso cui l'intera storia
trova motivo di manifestarsi.
Dunque il mito non è il modo esclusivo di
pensare i concetti tradizionali opposti alla
maniera razionale tipica della modernità.
Se volessimo andare maggiormente in
profondità nell'analisi del rapporto fra
razionale ed irrazionale nel contesto
africano, potremmo facilmente vedere come
suddette distinzioni appartengano alla
modernità europea occidentale, poiché devono
ancora essere superate nella loro originaria
differenziazione.
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Dicendo ciò, si sostiene la tesi secondo la
quale il mito, con la sua forza e durezza,
permea profondamente la mentalità nelle
società africane tradizionali, mentre
nell'ottica moderna il mito sembra rivelarsi
piuttosto sottoforma di sogno oppure l'altra
possibilità ancora concessa al mito di
sopravvivere nella modernità è quella di
rimanere inconscio.
Una prerogativa del mito è la capacità di
dimostrarsi memoria di qualsiasi cosa a cui
si riferisca: rispetto a qualsivoglia
tradizione ancestrale il mito si palesa come
la verità stessa. In tale quadro non esiste
distinzione alcuna fra soggetto e oggetto;
resta inutile separare l'immagine reale del
mondo da quella mitica, forse anche
controproducente relativamente all'integrità
identitaria del sistema sociale al quale si
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appartiene. Operare allora una scissione
tra mito e realtà non può essere neppure
concepibile in termini linguistici, per la
ragione molto semplice che non sono
contemplati vocaboli atti a denominare né a
giustificare questa operazione: è insensato
distinguere, allorché non ve ne sia un
bisogno intrinseco.
Nella cornice del pensare africano in
generale il mito riveste il ruolo
dell'ossatura della conoscenza, la quale poi
si articola nelle sue varie branche. Il
mito qui sembra essere il punto di partenza
oltre il quale né le attività concettuali né
quelle rappresentative come l'arte
potrebbero venire istituite.