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su vari giornali in tutto il mondo, Italia compresa; ha scritto 27 monografie
e più di 300 articoli.
Il campo degli argomenti di sua discussione è veramente molto ampio:
morale, giustizia, guerra, nazionalismo, comunitarismo, liberalismo,
ebraismo, ruolo della religione in politica, critica alla società statunitense –
e l’elenco potrebbe continuare ancora.
È uno scrittore molto prolifico, ma la sua attività si allarga anche a
partecipazioni, discussioni, simposi, conferenze in giro per il mondo.
È sicuramente quello che può essere definito un autore eclettico, ma questo
suo eclettismo può, apparentemente, sfociare in contraddizioni: riesce a
parlare del concetto di guerra giusta di fronte a platee di militari; è molto
spesso critico della politica interna ed estera del suo paese – ma questo non
lo ferma dal firmare un manifesto che approva la politica statunitense del
dopo 11 settembre, insieme ad altri personaggi molto lontani dalle sue
posizioni politiche; offre soluzioni non politicamente corrette per la
questione della discriminazione razziale nella sua società – rifiutando il
sistema delle quote come rimedio per l’integrazione; viene definito
comunitarista ma si definisce, piuttosto, un liberale – e allo stesso tempo è
a favore di un ruolo della religione all’interno del dibattito politico; si
pronuncia contro la guerra ma a volte si dichiara a favore di alcuni conflitti
controversi – come quelli in Kosovo o in Afghanistan; è a favore di azioni
congiunte della comunità internazionale per risolvere questioni spinose –
ma allo stesso tempo si pronuncia spesso contro i comportamenti
dell’ONU, e non esclude a priori la possibilità di un unilateralismo
statunitense.
Eclettico, dunque, e sicuramente complesso: aperto alle più grandi
contraddizioni, ma non per questo contraddittorio, come potremo vedere.
Una sua classificazione, utilizzando le categorie classiche della filosofia –
politica e non –, è veramente difficile oltre che, credo, controproducente.
Queste sue contraddizioni derivano, in primo luogo, dal suo modo di porsi
di fronte alla realtà: questa, infatti, non viene costretta all’interno di teorie
o schemi logici, in quanto egli non ritiene che la storia possa essere
spiegata attraverso categorie razionali, o che in questa ci sia al lavoro una
Necessità o una Verità: non vi sono principi ultimi da scoprire, da
inventare o da studiare, ma piuttosto situazioni da capire ed affrontare
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partendo dalla realtà contingente: questa deve essere interpretata a partire
dal singolo e dalla sua sensibilità, che, a sua volta, deriva dalla sua cultura,
dalle sue tradizioni e dalle sue particolari capacità.
Non è il mondo con le sue complessità e le sue inevitabili aporie a doversi
adattare ad una teoria, ma piuttosto è questa che deve essere costruita
intorno a quello. Di fronte ai cambiamenti cui va incontro la realtà, la
costruzione filosofica non può che seguirla: cambiando gli uomini e
cambiando le situazioni da affrontare, cambiano anche i principi e le
teorie. I dilemmi, dunque, le difficoltà, le contraddizioni che troviamo nel
mondo, li ritroviamo molto spesso nell’opera walzeriana: non è raro
leggere in qualche suo libro – come vedremo – un’ammissione di
impotenza, di incapacità a risolvere una determinata questione. Le sue
posizioni sono proposte per cercare di risolvere particolari problemi, non
tentando di offrire schemi astratti, ma sempre rimanendo il più possibile
aderenti alla realtà.
Cercare di risolvere i problemi cui gli uomini si trovano a far fronte,
evitando di fare una scrematura teorica di ciò che è più importante e ciò
che non lo è; tentare una possibile soluzione considerando le situazioni
quali esse si presentano, nell’attualità,
davanti a uomini e donne reali, per quanto intricate e irrazionali possano
sembrare; lasciare da parte risposte che, per quanto eleganti e razionali
possano essere, dimenticano le richieste delle persone e non considerano
come veri i loro bisogni; cercare possibili soluzioni alle questioni che la
propria società avverte come più pressanti: sono queste le basi del pensiero
di Michael Walzer.
Il ruolo del filosofo è quello di interprete della realtà che ha di fronte e in
cui vive: per questo autore, se si vuole parlare di morale e di giustizia, non
si può non partire dal mondo nel quale viviamo. La moralità, infatti, non è
per questo filosofo un prodotto che può costruirsi razionalmente o può
essere scoperto, ma piuttosto un prodotto storico, frutto di stratificazioni
sociali avvenute nel corso dei secoli: gli uomini vivono, parlano,
ragionano, si giustificano e chiedono giustizia in base al particolare mondo
morale in cui vivono. E se il filosofo vuole parlare di questa moralità, se
vuole chiedere giustizia per queste persone, lo dovrà fare in base al
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particolare idioma culturale di quella comunità. Essendo, inoltre, un
prodotto storico, particolare, frutto dunque delle contingenze, ne consegue
che non è qualcosa che possa essere spiegato in base a qualche principio o
teoria: come abbiamo detto, infatti, per Walzer non esiste alcuna Necessità
o Verità al lavoro nella storia, ma solo uomini e donne che vivono in
situazioni particolari e devono rispondere a situazioni particolari in base ad
altrettanto particolari strumenti culturali.
Accettando il mondo morale che ha di fronte, e facendo partire da questo
l’impresa filosofica – piuttosto che cercare razionali soluzioni teoriche –
possiamo capire come siano i bisogni e le richieste degli individui reali e
storici i punti di partenza della filosofia di Walzer: piuttosto che cercare
qualche bisogno sottostante o primario, piuttosto che cercare di inventare
qualche principio che colga al meglio le richieste delle persone, Walzer
decide di partire proprio da quello che le persone vogliono e hanno da dire.
Ma il rispetto per le posizioni individuali non porta a considerare come
importanti le rivendicazioni individualistiche, perché non è la
soddisfazione di questa o quella persona che interessa Walzer: il suo
sguardo ha infatti come focus la protesta sociale e la politica, e queste non
possono che avere sempre un’origine comunitaria, in quanto, essendo per
lui gli individui reali esseri storici e sociali, non potranno che elaborare le
loro posizioni partendo da idee che nascono da un processo comunitario.
Le comunità cui egli fa riferimento possono essere le più varie, da quella
di quartiere, al sindacato, fino ad arrivare al gruppo nazionale, cioè quella
che è considerata, dal filosofo, come la comunità più ampia cui si può fare
riferimento – senza che questa acquisti alcun valore mistico o
sovrannaturale. Ognuno, inoltre, è probabile che abbia più fedeltà, cioè che
nella sua vita appartenga a più comunità, anche contemporaneamente –
fatto, questo, che assicura un notevole pluralismo.
Possiamo già vedere, in base a quello che è stato scritto finora, quali sono
e come si sviluppano i grandi temi della filosofia walzeriana:
1) il tema del comunitarismo: l’individuo non può non guardare il
mondo che attraverso il filtro culturale che gli è fornito dalla sua
comunità – o dalle sue comunità – di appartenenza. La sua moralità e
il suo senso di giustizia non possono che derivare dalla cultura e dai
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valori propri di un particolare gruppo sociale. Non si può, di
conseguenza, parlare di un’unica giustizia che possa abbracciare tutti
gli uomini, ma di tante giustizie, ognuna con i suoi principi
distributivi, frutto di processi storici. Tuttavia, vedremo che per
l'autore è possibile rintracciare una giustizia minima, reiterata in tutte
le società, che vieta azioni ritenute particolarmente ingiuste – come
l’omicidio, la privazione della libertà o la tortura. La comunicazione
e la comprensione fra le varie giustizie può avvenire attraverso
questa minimalità: la critica morale che il filosofo può portare avanti
riguardo a comportamenti di società straniere può passare solo
attraverso queste categorie minime – che, ricordiamolo, non
identificano principi ultimi o fondamentali, ma solo una contingente
reiterazione di comportamenti e di conseguenti giudizi.
Partendo dal rispetto per ogni giustizia e posizione comunitaria, e
considerando la comunità nazionale come il raggruppamento
più importante – oltre al quale esiste solo l'appartenenza
all'umanità – nell'opera di Walzer discendono due concetti
fondamentali:
a) il tribalismo – inteso come senso di attaccamento degli individui e
dei gruppi alla propria storia, cultura, identità – da cui l'autore ne
fa discendere il diritto di ogni nazione di ottenere la sovranità – o
comunque una qualche forma di indipendenza o autonomia dallo
Stato d’origine – in caso la popolazione si esprima in tal senso;
b) la tolleranza, cioè l’eguale possibilità di espressione di ogni
cultura e l’eguale possibilità, per una comunità, di vivere
pubblicamente secondo i propri valori – anche se tollerare non
significa, per il nostro autore, necessariamente condividere le
ragioni di quel gruppo: se il filosofo chiede che ogni gruppo abbia
la possibilità di espressione, l’inevitabile radicamento individuale
non porta ad una astratta neutralità in nome della quale ogni
posizione ha lo stesso valore;
2) il tema della critica idiomatica: se l’individuo non può che esprimersi
attraverso gli strumenti culturali offertigli dalla sua cultura, il critico,
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parlando di giustizia, e criticando la realtà quale si presenta dinanzi
ai suoi occhi, non potrà che parlare dei valori della sua società, e non
sarà in grado di intervenire nella critica propria di altri paesi, che
avverrà in base ad altri valori. La critica ad altre società non potrà
avvenire che in modo minimo, “sottile”, mentre quella che riguarda i
propri cittadini sarà “spessa” e riuscirà ad penetrare in profondità.
Numerosi sono gli interventi che Walzer ha dedicato alla critica della
propria società, gli Stati Uniti, sia in relazione al mondo –
collegandosi spesso con il tema della guerra – sia in relazione ai
rapporti interni, e, soprattutto ultimamente, riguardo alle possibili
soluzioni di convivenza fra i vari gruppi etnici presenti;
3) il tema della democrazia: essendo gli individui reali i soggetti ed i
primi necessari fruitori dell’opera critica e filosofica, ed avendo
ognuno la medesima legittimità di esprimere il proprio pensiero
all’interno dell’arena politica, ne consegue che gli individui vengono
ad essere tutti moralmente uguali gli uni di fronte agli altri. Di
conseguenza, sarà il processo democratico il mezzo attraverso il
quale i cittadini decideranno come regolare la loro esistenza e i loro
destini. È, dunque, il concetto di sovranità nella sua accezione più
ampia quello cui guarda Walzer, qualificando come subordinata alla
decisione democratica qualsiasi posizione filosofica o tecnica;
4) il tema della storia come sprovvista di telos, di finalità. La storia, per
Walzer, non segue un progetto o una razionalità. Mancando di una
Necessità, o di una natura sottostante che indirizzi l’uomo verso
determinati comportamenti, ne consegue che nel mondo non ci sono
al lavoro fini che devono portare l’uomo a raggiungere qualche
obiettivo. Gli individui, quindi, risponderanno alle sollecitazioni
storiche in base agli strumenti che a loro disposizione e in una
maniera culturalmente determinata, ma, soprattutto, libera: la
responsabilità del comportamento morale è completamente nelle loro
mani. L’alternativa fra bene e male, fra comportamento morale ed
immorale, è una scelta individuale. Da questo tema derivano alcuni
concetti dell’opera del filosofo:
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a) la storia non può essere spiegata partendo dagli esiti degli eventi,
ma, al massimo, può essere compresa cercando di inquadrare il
significato delle situazioni cui dovevano far fronte gli attori in
base agli strumenti culturali che avevano a disposizione. Infatti,
mancando la realtà di un progetto razionale, non è possibile
giudicare fatti e identificare con certezza cause e conseguenze: ciò
che possiamo fare è capire reazioni sociali in base a eventi e,
tuttalpiù, offrire possibili tendenze. Questo sarà il tema di
Regicidio e Rivoluzione, La Rivoluzione dei Santi e, parzialmente,
Esodo e Rivoluzione;
b) la scelta morale fra bene e male è alla base della sezione
dell’opera del filosofo americano dedicata alla guerra. Questa,
infatti, è vista come un evento umano come tutti gli altri, in cui il
singolo è ancora pienamente responsabile delle proprie azioni e
decisioni, e non in balia di una qualche cieca necessità;
c) il cambiamento ed il progresso non sono affatto ineluttabili, ma
derivano da azioni umane contingenti. Se in Walzer uomo
potremmo anche spingerci a vedere una invidiabile fiducia nelle
possibilità dell’umanità, nella sua opera è al lavoro la speranza che
il mondo possa migliorare, con la consapevolezza, quindi, della
possibilità di passi indietro da parte degli uomini;
5) il tema dell’importanza delle proprie radici all’interno di un dibattito
politico che possa definirsi democratico. L’eguale legittimità di
espressione delle varie posizioni, le une di fronte alla altre, fa sì che
Walzer affronti la questione di come e quanto portare del proprio
bagaglio culturale all’interno dell’arena politica. Oltre alla
questione dell’etnicità, Walzer affronta anche il tema molto scottante
della religione, cui ha dedicato vari articoli. Il valore che l’autore
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attribuisce alle radici culturali – e di conseguenza religiose – ha fatto
sì che egli si sia dedicato, soprattutto negli ultimi anni, alla redazione
di libri sull’ebraismo e sui rapporti fra questo e la politica, sia in
ambito storico, sia in ambito contemporaneo. Il tema del rapporto fra
la tecnica filosofica di Walzer e la sua religione sarà fondamentale
per una adeguata comprensione.
Questi temi che ho cercato di riassumere si incontrano, nell’opera di
Walzer, spesso inestricabilmente intrecciati: in un libro, è possibile che si
riesca a trovare un discorso sulla guerra, unito a considerazioni sul ruolo
degli Stati Uniti, magari riscontrando anche un cambiamento o una
penetrazione più profonda della tecnica interpretativa.
Spesso sono i libri più piccoli e apparentemente innocui quelli che
risultano di più difficile comprensione e collocazione. Un esempio
potrebbe essere Geografia della morale, in cui molte delle posizioni di
Walzer riguardo a giustizia, critica e tribalismo vengono rilette alla luce di
concetti che, seppure presenti in nuce in altre opere, certo obbligano a
affinare il giudizio sulle sue opere. Questo deriva da una tipica
caratteristica del nostro filosofo, cioè l’affinamento – e al limite anche il
cambiamento – delle proprie tesi in base alla realtà e ai mutati problemi,
come avevo già fatto notare precedentemente: è possibile parlare di
stratificazione del pensiero nel corso degli anni. Solo che questi strati non
sono isolati dal resto dell’opera e chiaramente spiegati al lettore, ma si
trovano molto spesso all’interno di libri il cui argomento può essere molto
diverso dall’argomento che subisce il mutamento. Ciò porta ad una
notevole difficoltà nel tentativo di categorizzare il suo pensiero ed
ordinarlo per un’adeguata esposizione.
Un altro esempio di tale organizzazione della sua opera lo possiamo
trovare in Esodo e Rivoluzione: in questo libro di 99 pagine è possibile
trovare spunti sull’intera filosofia dell’autore. Rimane dunque difficile una
sua chiara sistemazione all’interno di un discorso che voglia apparire
ordinato: vi si possono trovare, infatti, rimandi all’importanza
dell’ebraismo per la sua formazione, all’attività critica, al concetto di
responsabilità morale individuale, al rapporto fra individuo e comunità, e
altro.
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Tale mancanza di sistematicità del pensiero, tali inestricabili intrecci – che
rendono pressoché impossibile il giudizio di un solo libro estrapolato
dall’insieme – si ritrovano anche in gran parte delle critiche portate alle
opere di Walzer: è infatti difficile trovare una critica della giustizia, o della
visione che egli ha della guerra, che non sia legata a quella del metodo
interpretativo. Altrimenti, spesso, i libri sono analizzati al di fuori del
contesto culturale in cui opera questo filosofo. Se nel primo caso il rischio
è quello di fare confusione fra i vari temi – la cui complessità è indubbia –
e dunque perdersi fra le infinite sfumature, nel secondo caso il rischio è
quello di fraintendere il messaggio dell’autore, messaggio che è
culturalmente molto marcato – fatto non strano in un autore che attribuisce
tale importanza alle radici sociali all’interno dell’espressione.
Da una parte, dunque, se guardiamo ai singoli argomenti, possiamo vedere
come ci sia una stratificazione nel corso degli anni; dall’altra parte,
guardando ai singoli libri, troviamo questi argomenti molto spesso
intrecciati. Volendo seguire, nell’esposizione, la prima strada, si corre il
rischio di perdere la compenetrazione fra temi che è fondamentale per
comprendere il pensiero del filosofo: come si è cominciato a vedere sopra,
credo sia difficile isolare il tema della tolleranza dal comunitarismo o dal
tribalismo, e al cambiamento di uno di questi temi – al mutare della realtà
– cambiano anche gli altri.
La sua mancanza di sistematicità – non semplice caratteristica, ma pietra
angolare del suo metodo – non significa mancanza di organicità di
pensiero. La prima deriva direttamente dalla sua concezione del mondo
come realtà che non si presta ad analisi razionali o spiegazioni deduttive:
isolare un argomento dalla sua situazione, come vedremo, significa far
perdere a questo caratteristiche che possono essere considerate ininfluenti
solo da un punto di vista filosofico. Una questione, nel mondo reale, è
sempre intrecciata ad altre, e astrarre da queste significa giungere a
conclusioni che spesso mal si conciliano con le complessità che gli
individui reali si trovano a far fronte. L’organicità del suo pensiero,
dunque, deriva direttamente da questo, cioè dalla volontà di mantenimento,
nell’opera filosofica, dei legami e dei feedback che ogni fatto, e ogni suo
cambiamento, ha con altri fatti della realtà, e dal rigetto di ogni tentativo di
isolare teoricamente gli avvenimenti.
Considerare, dunque, un argomento isolandolo dagli altri credo comporti
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una perdita notevole di informazioni.
Dall’altra parte, trattare i singoli libri porterebbe ad una notevole
confusione, in quanto si dovrebbe o parlare del libro astraendolo dal
contesto, mancando di cogliere le sue origini e le sue conseguenze; oppure
fare semplici rimandi agli argomenti che ne possono essere sviscerati,
rischiando, per mantenere una minima unità di discorso, di perdere molte
informazioni.
Il mio tentativo sarà cercare di unire le due strade: procederò cercando di
unire le varie parti in cui Walzer, nella sua opera, ha parlato di un
determinato argomento, cercando di estrapolare questioni particolarmente
importanti per l'autore. Al termine di ogni capitolo si proverà a ricostruire
l'organicità del pensiero del filosofo sul particolare argomento, per potere
meglio comprendere il capitolo successivo.
Nella mia analisi del lavoro di questo filosofo cercherò anche di riportare il
più fedelmente possibile il suo pensiero. Questo significherà anche la
presenza di ripetizioni di concetti, di ridondanze, che però credo servano a
capire sia le sfumature della sua opera – necessarie per una comprensione
che non sia superficiale – sia come le sue posizioni si sono venute
sviluppando nel corso del tempo.
All’interno di ogni argomento affrontato, cercherò di sviscerare il pensiero
relativo solo a quella parte, cercando di isolarla il più possibile dal resto,
facendo rimandi ad altre parti solo quando ritenuto più strettamente
necessario.
Le critiche alle sue opere saranno presentate al termine della presentazione
dei suoi libri per ogni argomento.
Partendo dall’argomento del metodo di ricerca della moralità e del ruolo
del critico, cercherò di capire attraverso quali strumenti Walzer guarda alla
realtà e da che angolazione vi si pone.
Passerò poi a chiarire ulteriormente questo suo metodo così particolare
attraverso l’analisi dei suoi libri “storici”, cioè “La rivoluzione dei
santi”e” Regicidio e Rivoluzione”. Mi fermerò poi su “Esodo e
Rivoluzione”, dal quale si potranno trarre molti spunti.
Dopo aver cercato di carpire gli strumenti intellettuali dell’autore, la
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discussione andrà sui libri più propriamente filosofici e conosciuti: mi
concentrerò sul discorso della giustizia distributiva, affrontando il tema del
comunitarismo e le critiche mosse al suo lavoro.
Ci concentreremo poi sull'analisi di alcuni libri ed interventi che l'autore ha
dedicato alla critica della propria società, al fine di rimarcare come questa
attività non sia una semplice appendice della sua teoria della giustizia, ma
possa essere considerata una parte indipendente e strutturale della sua
attività filosofica.
Analizzeremo infine la sua teoria della guerra giusta – l'argomento sul
quale egli ha speso le maggiori energie intellettuali in questi ultimi anni,
cercando di metterne in luce le forti tensioni presenti, e cercando di
comprenderla più in profondità grazie al materiale accumulato.
Nelle conclusioni finali, si cercherà di offrire una possibile chiave di
lettura al pensiero walzeriano, nella quale possano essere comprese le sua
caratteristiche e le sue contraddizioni: si cercherà, in sostanza, di tirare i
fili di quanto è stato detto, per cercare di restituire al pensiero dell’autore
quell’intreccio e quell’organicità così radicati e fondamentali per il suo
metodo.
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PRIMO CAPITOLO
LA MORALE E IL RUOLO DEL CRITICO
Moralità e critica sono due termini fondamentali nel pensiero di Michael
Walzer, che si definisce filosofo morale prima che filosofo politico: fine di
questo capitolo sarà mettere in luce il significato che l'autore attribuisce a
tali concetti – compito fondamentale per la comprensione della sua opera.
Qual è il rapporto tra i due concetti? Come egli scrive in “Politica e
profezia”, un libro del 1987,
“La critica è un aspetto della moralità quotidiana”(1)
La critica è il tentativo di mettere in pratica i principi nei quali il filosofo
crede e nei quali noi crediamo: la moralità viene dunque ad essere il filtro
attraverso il quale è possibile percepire e giudicare il mondo nel quale si
vive.
Noi critichiamo una data cosa quando sappiamo che cosa è giusto e che
cosa è sbagliato. Ma da dove derivano i nostri giudizi? Da dove vengono le
nostre concezioni di bene e male? E una volta appurato ciò, chi è il critico?
Qual è il suo ruolo? Quali sono i suoi compiti? Qual è il valore che deve
essere dato alla sua opera? E da chi deve essere dato questo valore?
Nei paragrafi che seguono cercheremo di rispondere a questa domanda.
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1. POLITICA E PROFEZIA
Il libro da cui si può partire per analizzare la posizione di Michael Walzer
riguardo alla filosofia morale è Politica e profezia.
Alla base di ogni impresa critica deve esistere una morale, un sistema di
valori, cioè, che ci aiuti a tracciare una linea per distinguere quello che si
ritiene giusto da quello che si ritiene sbagliato. In quest’ottica, la critica è
il tentativo di realizzare i valori della morale: si critica ciò che si ritiene
sbagliato proponendo di mettere in pratica ciò che si ritiene giusto.
Ma da dove nasce la morale? Da dove prende il critico i suoi valori? Come
li applica? Deve esserci una distanza fra lui e il soggetto criticato? Sono
queste le questioni che vengono affrontate in questo libro.
1.1. I tre sentieri della morale
La morale, scrive Walzer, può essere scoperta, inventata o interpretata a
partire dal mondo nel quale si vive.
Il sentiero della scoperta deriva “…innanzitutto e più di tutto dalla storia
della religione”(2). All’interno di questa prospettiva, la morale è una
rivelazione – l’esempio più ovvio è Mosè che riceve la Legge di Dio e la
comunica al popolo ebraico.
Come scrive l'autore “…il mondo morale è come un nuovo continente e il
capo religioso…è come un esploratore”. La nuova morale che viene
rivelata impone dei comandamenti: sarebbe necessario fare una certa cosa
e non più un’altra.
Ma la morale rivelata non ha, secondo Walzer, solo origine religiose:
anche i filosofi avrebbero camminato sul sentiero della scoperta, riferendo
“…dell’esistenza della legge naturale…, o di diritti naturali o di un
insieme di verità morali oggettive”(3). In questo caso il discorso del
filosofo fa riferimento a Thomas Nagel- autore secondo il quale sarebbe
possibile guardare e comprendere il mondo da nessun luogo in particolare
(il libro cui fa riferimento Walzer si intitola, appunto, A view from
nowhere). Come scrive Nagel:
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“Per acquisire una più oggettiva comprensione di qualche aspetto della
realtà, facciamo un passo indietro rispetto alla nostra visione e formiamo
una nuova concezione che ha questa visione e la sua relazione con il
mondo come suo oggetto”(4)
E ancora:
“L’inizio di una concezione oggettiva della mente è la capacità di vedere la
propria esperienza dal di fuori, come eventi del mondo”(5)
La posizione di Nagel, dunque, è che sarebbe possibile trattare le nostre
esperienze come dati, ed osservarle dall’esterno, trattandole come se
fossero di una qualsiasi persona: in tal modo sarebbe possibile arrivare ad
una definizione oggettiva dei valori alla base dei nostri comportamenti.
Analizzando l’opera di Nagel, Walzer scrive che “…la scoperta filosofica
è probabilmente inferiore alla novità radicale…della rivelazione
divina”(6): infatti, i principi morali pretesi oggettivi sarebbero già in
nostro possesso. Quando Nagel afferma di avere scoperto il principio
secondo cui non dovremmo essere indifferenti alle sofferenze altrui, il
nostro filosofo risponde:
“Io riconosco il principio, ma sento la mancanza dell’agitazione. Già lo
conoscevo.”
Per quanto si possa indietreggiare, non si riuscirebbe a vedere altro che il
mondo nel quale si vive e si è sempre vissuto e dunque, se anche lo si
riuscisse a vedere con speciale chiarezza, “non scopriremmo nulla che non
sia già qui”.
Se nel sentiero della scoperta la morale c’è già, va solo svelata o deve
essere rivelata, nel sentiero dell’invenzione la morale non esiste,
“perché Dio è morto, o l’umanità è radicalmente alienata dalla natura, o la
natura è priva di significato morale.”(7)
In quest'ottica, non vi sarebbe nessuna verità da scoprire, ma piuttosto una
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realtà da costruire in modo razionale e ordinato, e il fine di questa
invenzione “è una vita comune, dove si realizzerebbe la giustizia, o la virtù
politica, o il bene, o qualche altro valore fondamentale.” Il filosofo si
staccherebbe dalla propria comunità, lasciandosi alle spalle tutte le sue
contraddizioni morali: uscendo – metaforicamente – dalla caverna, egli
andrebbe a rifugiarsi in un posto in cui gli sarebbe possibile elaborare una
serie di principi supposti razionali – da cui, poi, verranno dedotte una serie
di regole che dovranno governare la vita disordinata della caverna. Questi
filosofi “creano ciò che Dio avrebbe creato se vi fosse un Dio”(8): è una
costruzione razionale e deduttiva del mondo morale.
Tuttavia, fa notare Walzer, questa figura eroica di filosofo può essere
molto pericolosa, in quanto è dietro l’angolo la possibilità di una dittatura,
per quanto illuminata possa essere. Dunque, “ il requisito cruciale di un
metodo di progetto è che esso si risolva nell’accordo”(9), cioè che siano i
cittadini, o un suo gruppo di rappresentanti – veri o fittizi – , ad elaborare
una serie di principi capaci di governare la vita della comunità.
Il riferimento è esplicitamente diretto a coinvolgere John Rawls e il suo
famoso libro Una teoria della giustizia, del 1971 (10). Incontreremo
spesso il nostro filosofo alle prese con la critica di questo libro, e una sua
analisi dettagliata è rimandata alla discussione sulla concezione della
giustizia, nel terzo capitolo.
Quello che ci interessa adesso non è infatti tanto il merito della teoria sulla
giustizia di Rawls, quanto piuttosto il suo metodo di formulazione della
morale da adottare per potere arrivare ad una società giusta.
Rawls immagina un ipotetico momento zero in cui gli individui – assunti
razionali – arrivino alla formulazione di principi che siano in grado di
presiedere ad una società equa. Perché si arrivi alla formulazione di
principi equi, gli individui dovrebbero porsi dietro quello che egli chiama
il “velo di ignoranza”, una situazione nella quale, cioè, nessun individuo
“…conosce il suo posto nella società, la sua posizione di classe o il suo
status sociale, la parte che il caso gli assegna nella suddivisione delle doti
naturali, la sua intelligenza, forza e simili….le parti contraenti non sanno
nulla delle proprie concezioni del bene e delle proprie particolari
propensioni filosofiche”(11)
Rawls, dunque, intende escludere “...la conoscenza di quei fattori