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“Appena un uomo dice degli affari di stato: che cosa me ne importa? Lo stato può
dirsi perduto”.
Rousseau
Siamo nel 1960 e il periodo di acquiescenza e passività, che contraddistinse l'era
Eisenhower, volgeva al termine e iniziava una nuova fase di progressismo, slancio
e attività: l'era Kennedy che pose l'accento sulla rinascita di un interesse nuovo
per la cosa pubblica.
John F. Kennedy entusiasmava gli animi di chi lo ascoltava e colpiva l'uditorio
con la sua mancanza di partigianeria, con la sua prontezza a cogliere il punto di
vista degli altri e con la vivacità che poneva nel giudicare uomini e avvenimenti.
Il suo obiettivo era far nascere negli elettori l'idea che egli poteva dare al paese
qualcosa che nessun altro era in grado di dare e conquistare la fiducia di uomini e
donne di ogni condizione e di ogni credo.
Il pensiero del potere non lo innervosiva e non suscitava il lui paure o dubbi.
Sapeva d'istinto quali erano i mezzi da adottare per raggiungere il suo scopo e
dimostrò assoluta risolutezza nel “fare il presidente”; in lui le volontà di dominare
e vincere si miscelavano in un mix incontrastabile.
Riteneva che gli anni sessanta sarebbero stati gli anni della lotta tra la comodità e
l'impegno, fra quanti pensavano che fosse il momento di riposare e di stare a
guardare e quanti desideravano che il paese andasse avanti. Da condottiero quale
egli era, credeva che la guerra e la pace, il progresso della nazione, la sicurezza
del popolo americano, l'istruzione dei figli, il lavoro per tutti gli uomini e le donne
volenterose e l'immagine che gli Stati Uniti presentavano al mondo, poggiassero
sulle spalle del presidente e John F. Kennedy aspirava alla presidenza perché era
ed è il fulcro della direzione della società civile americana. Una società, come
auspicava Kennedy, in grado di vincere le tenebre e vivere nella luce.
La sua personalità alquanto complessa era celata da modi misurati e ironici.
Possedeva la capacità di farsi degli amici ed era quindi circondato dalle amicizie
più disparate e questa dote gli veniva dal fatto di saper dare a ognuno
l'impressione di possedere una sorte di chiave segreta. Ciò stava all'origine del
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potere e del fascino che egli esercitava sugli altri.
Ma come John F. Kennedy era diventato John F. Kennedy? La risposta va
certamente ricercata nella sua educazione. La famiglia Kennedy era numerosa,
accogliente e vivace, unita dall'affetto, dava ai ragazzi un incrollabile senso di
sicurezza che li accompagnò nella loro tendenza all'emulazione, alla lealtà e
all'autonomia. Era inoltre una famiglia di origine irlandese. Per molti aspetti la
figura di John F. Kennedy si allontanava dallo stereotipo dell'irlandese d'America:
era aristocratico, di poche parole, introverso e cortese ma le sue radici irlandesi si
manifestavano nel suo spirito, nel suo umorismo, nell'amore per la politica, nel
gusto per la lingua, nell'ammirazione per il coraggio, nella tenacia e nella visione
della vita in chiave tragicomica.
Con ancora nella mente il ricordo che essere irlandese significava essere povero
ed emarginato, Joseph P. Kennedy, padre di John, aveva un'idea fissa: quella di
abbattere le barriere culturali e vedere la sua famiglia pienamente inserita e
vincente nella società americana. L'educazione impartita ai giovani Kennedy li
spinse ad avere opinioni personali sensate e a prender parte alla vita sociale.
Talvolta la rigida educazione faceva emergere in John F. Kennedy il suo lato
fragile e ipersensibile, accentuato dai problemi di salute che lo costrinsero a letto
per buona parte della sua infanzia. Appassionato della lettura, condusse una sorte
di vita interiore capace di dargli autorevolezza che gli consentiva, essendo dotato
d’ingegno storico e politico, di guardare agli eventi presenti in chiave storica e di
proiettare schemi storici in quelli futuri, riscuotendo ammirazione e approvazione.
Grazie al suo carattere forte e deciso, modellò la sua personalità che gli consentì
di andare oltre la sua famiglia e fare di se stesso un presidente.
Importante fu il peso esercitato nella sua formazione dall'istruzione ricevuta al di
fuori della famiglia: frequentò per un solo anno una scuola cattolica, a Canterbury,
fu poi mandato a Choate, che detestò con tutto il cuore, maturando in seguito la
convinzione che le scuole medie private hanno un senso nel sistema scolastico
nazionale solo se aperte a ogni razza e classe. Concluse gli studi e iniziò la sua
esperienza presso la London School of Economics, su insistenza del padre. Ma si
ammalò di itterizia e dovette rimandare il suo ingresso a Princeton e una ricaduta
gli rovinò anche il suo primo anno da matricola. Sempre spinto dal padre, decise
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di passare a Harvard. L'estate passata in Europa tra il primo e il secondo anno di
college lo mise davanti ad orizzonti più vasti: riflettette sulla scarsa capacità
francese di guardare a un problema nel suo complesso, sulla guerra civile
spagnola, schierandosi dalla parte dei governanti, sulla disgrazia nazista in
Germania. Emersero i primi segni di un crescente interesse verso la cosa pubblica.
Critico nei confronti del sonnambulismo inglese di fronte la minaccia nazista, a
testimonianza della sua crescente passione politica, scrisse un saggio intitolato
“Why England slept” con il proposito di scoprire se l'impreparazione britannica
dovesse essere attribuita alle mancanze dei politici inglesi piuttosto che alle
debolezze della democrazia e del capitalismo. John F. Kennedy, con arguzia,
aveva intuito la vera natura della democrazia: pacifica, del tutto opposta a quella
totalitaria che preferiva un mondo in guerra. Rilevò anche i difetti della
democrazia: il voler sempre cercare un capro espiatorio per la sua debolezza. John
F. Kennedy attribuisce, infatti, un peso notevole al comportamento della nazione,
circoscrivendo le responsabilità degli statisti al solo settore del governo.
Siamo nel 1941 e John F. Kennedy riesce a persuadere le autorità militari ad
accettare il suo arruolamento nonostante la frattura alla schiena; durante la
campagna delle isole Salomone, nel Pacifico, la sua nave è letteralmente tagliata
in due, sbalzando Kennedy e il suo equipaggio nelle acque del Ferguson Passage.
John F. Kennedy compie un'impresa straordinaria: trae in salvo un marinaio
portandolo a rimorchio con un lembo della cintura di salvataggio stretta fra i denti.
Il motivo del coraggio e il motivo della morte toccavano Kennedy nel profondo
della sua anima tanto che saranno temi costanti della sua vita. Il coraggio era la
virtù da lui più ammirata: coraggio innanzitutto fisico e dopo il suo ingresso in
politica, anche morale, il coraggio come scrisse nei suoi Ritratti di “un uomo che
fa il suo dovere, a dispetto dei rischi personali, degli ostacoli, dei pericoli, delle
pressioni” quel coraggio che egli disse “è il fondamento dell'etica umana”.
Questo senso della morte di John F. Kennedy scaturiva dalla sua esperienza di vita:
la malattia, le letture di morti eroiche, devono aver contribuito in misura
considerevole a formare il lui un rispetto reverenziale per la mortalità dell'uomo.
Sua moglie diceva, infatti: “Era assillato dal pensiero degli uomini che muoiono
in giovane età”.
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La guerra lo convinse della sua inutilità e s’impegnò perché tale massacro non si
ripetesse. Scrisse più tardi: “Dobbiamo guardare in faccia la realtà e la realtà è
che la guerra non ha inorridito la gente abbastanza da costringerla a tentare ogni
via pur di evitarne un'altra". "La guerra ci sarà sino a quel lontano giorno in cui
gli obiettori di coscienza non godranno della stessa reputazione e dello stesso
prestigio di cui godono oggi i soldati”. Considerava la politica, un mezzo non per
conservare lo stato attuale delle cose quanto per evitare che peggiorassero.
Va sottolineato che John F. Kennedy credeva che la politica fosse una giungla: una
lotta continua tra il fare la cosa giusta e il rimanere in carica, tra l'interesse
particolare e l'interesse nazionale, tra il bene personale dell'uomo politico e il bene
di tutti. Per sopravvivere a questa giungla Kennedy fece affidamento sulla sua
forza e sul suo coraggio che gli fecero prender padronanza dell'arte politica e
coscienza che il suo io pubblico doveva essere quanto più simile al suo io privato,
regalando alla politica stessa una creatività senza precedenti.
John F. Kennedy fu spesso giudicato un intellettuale, il cui habitat naturale era il
mondo delle idee, piuttosto che quello del potere, ma era soprattutto un uomo
d'azione: scettico nei confronti di ogni posizione estremistica, era un sostenitore
dell'efficienza e della fermezza.
La sua mentalità fu essenzialmente laica e il suo atteggiamento non aveva nulla a
che fare con il moralismo, la retorica, il clericalismo e l'anti-intellettualismo. Il
suo comportamento era mitemente distaccato e questo suo distacco dalla miopia
della borghesia, dal tradizionale cattolicesimo americano, dai costumi del mondo
degli affari, dal liberismo formalistico, diede alla sua political way, freschezza e
disinvoltura. Gestiva il potere con la ragione allo scopo di difendere e realizzare la
sua visione dell'America e il suo senso critico non intralciò mai la sua capacità
decisionale. Pragmatista in senso letterale, le astrazioni lo infastidivano e non
prese mai sul serio alcuna ideologia dal punto di vista storico, accorgendosi del
fatto che le cose mutano, nel corso dei secoli, grazie ai compromessi piuttosto che
alla distruzione. Ritroviamo quindi il culto del coraggio, come devozione totale a
un principio assoluto ed elevazione morale dell'uomo. Kennedy definiva
coraggioso, un uomo politico pronto al compromesso per il bene della nazione,
piuttosto che i senatori faziosi che si fanno abbattere nella difesa estrema di un
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principio inapplicabile.
Il lui vi era un profondo contrasto tra la prudenza del suo istinto politico e il
radicalismo del suo impulso intellettuale, e una tensione fra senso dei limiti umani
e della speranza.
John F. Kennedy fu il primo presidente degli Stati Uniti esponente di una
generazione di uomini che avevano vissuto gli orrori della guerra, combattuto la
depressione e vissuto nell'era atomica. Questa generazione aveva bisogno di un
uomo guida con uno stile di vita autonomo, che non si riconosceva né negli
uomini dell'organizzazione né nella beat generation: John F. Kennedy era tutto
questo, un uomo contemporaneo, come lo definì Adlai Stevenson, che faceva
affidamento su pochi punti fermi, la famiglia, l'amicizia, il coraggio, la ragione,
l'umorismo, il patriottismo. Fu portavoce del disgusto della sua generazione nei
confronti della vuota retorica e dell'intolleranza per comportamenti ormai obsoleti,
ma anche dei desideri: di fare esperienza, di seguire alti ideali, di creare una
connessione tra passato e futuro, di gloria e valore. Notevole era il suo amore per
l'America e per le sue tradizioni e offriva ai giovani americani l'opportunità di
diventare qualcosa di più di semplici uomini d'affari.
Mailer scrisse di lui “aveva la saggezza dell'uomo che sente la morte dentro di se
e che scommette di riuscire a sottrarvisi giocando la propria vita”.
Un uomo politico straordinario che seppe ispirare le masse e che ci fa chiedere se
la sua prematura scomparsa non fosse accaduta, come la società civile americana
si sarebbe evoluta sotto la sua forte guida.