2
ancorati alla città terrena e con lo spirito anelante a «quella città il 
cui architetto e costruttore è Dio stesso» 
2
 . 
 Il cristiano abita la città terrena, dimorando come il popolo 
di Israele nelle tende del deserto, ma il suo sguardo è fisso oltre 
questo mondo la cui scena, nelle parole piene di ansia 
escatologica di Paolo come nel grido accorato della prima 
comunità cristiana raccolto dalla Didachè, passa e passa in fretta
3
. 
 Riteniamo che partire da questo dualismo sia necessario 
perché attraverso di esso è possibile leggere in filigrana il 
delinearsi di una serie di atteggiamenti e di risposte sia teoriche 
che concrete nei confronti del problema politico. 
  Così, benché la vera patria del cristiano sia il Cielo - si pensi 
alla Epistola agli Ebrei con la sua bellissima definizione dei 
seguaci di Cristo come alla ricerca di una città avvenire, nella 
quale avrà stabile dimora la giustizia -, nell’attesa della parusia 
gloriosa del suo Signore egli vive in questo mondo, 
sentendosene sì soltanto ospite, ma ospite rispettoso, 
obbediente verso leggi che, se non contrarie alla legge naturale e 
alla rivelazione di Cristo, recano in sé come la traccia di un 
imperscrutabile disegno della Sapienza divina che, luce che 
                                                 
 
2
  Eb 11,10. 
3
  “Maranà tha”, ovvero “vieni, o Signore”, è il grido di Paolo nella Prima Lettera ai 
Corinti (16,22) e dell’Apocalisse, che si conclude proprio con queste parole 
(22,20). 
   La medesima impazienza cristiana  è testimoniata nella Didachè, scritto anonimo 
del Primo secolo cristiano che raccoglie istruzioni ed usanze della Chiesa 
primitiva; cfr.  X,6, testo in W. Rordorf-A. Tuilier, La Doctrine des douzes apôtres, 
Sources Chrétiennes, Parigi, 1978, p. 180: si chiede a Dio che venga la sua gloria 
e che passi questo mondo. 
 Sulla prossimità del ritorno glorioso di Cristo, si veda: Rom 16,20; Fil 4,5; 1 Ts 
4,15ss.; si vedano inoltre i diversi passi dell’Apocalisse in cui, partendo dal 
presupposto che la fine del tempo è già venuta con la nascita, la passione e 
l’ascensione di Cristo, viene annunciata la “vicinanza” dell’ “attimo”, la 
“pochezza del tempo” e, soprattutto, la venuta del Signore è definita come 
“pronta” e “rapida”(1,1.3; 2,16; 3,11; 11,14; 12,12; 22,6 ss., 10.12.20). 
 3
splende nelle tenebre, luce che illumina ogni uomo che viene al 
mondo
4
, suggerisce alla umana intelligenza quelle regole che 
consentano una convivenza pacifica e serena nel consorzio 
sociale al quale l’uomo è naturalmente chiamato. 
 Sulla scena fugace di questo mondo il cristiano è un attore 
non protagonista, eppure con rispetto e dedizione si dedica alla 
parte che gli è stata affidata; egli si serve del mondo, ma senza 
rallegrarsene; utilizza i beni effimeri ma solo per fare cio’ che 
piace a Dio; come l’apostolo Paolo, ogni credente in Cristo deve 
esser crocifisso per il mondo, ed il mondo crocifisso per lui
5
. 
 Pur partendo da una  concezione trascendente che ne 
caratterizza la visione dell’esistenza, il cristiano non deve 
dimenticare i doveri che lo legano alla città degli uomini in cui 
vive, né quelli verso le autorità che la governano: egli ha dei 
doveri verso la città e verso le autorità, e l’essere un suddito 
obbediente e leale sarà indicato nelle pagine di Paolo come un 
dovere religioso e morale oltre che civico. 
 Questo studio intende conoscere da vicino il cristiano nel 
suo esilio terreno, che per lui è ineludibile necessità di fissare e 
levare tende da pellegrino in mezzo ad istituzioni e città degli 
uomini. 
 La prima cosa che chiederemo all’uomo seguace di Cristo è 
dirci in quale misura sia possibile alla sua consapevolezza di una 
rinnovata dignità servire uomini ed obbedire ai loro precetti. 
                                                 
4
 Gv 1,9. 
5
 Gal 6,14. 
 4
 La nostra analisi si chiederà quindi  se la sottomissione alle 
autorità terrene da parte dell’uomo appartenente a Cristo   
avvenga in contrasto con la libertà da lui stesso rivendicata in 
seguito al sacrificio del suo Redentore,  o piuttosto proprio in 
virtù e nella piena realizzazione di tale libertà, se è vero che 
questa libertà si esprime con efficacia non come un velo –sono 
le parole dell’apostolo Pietro- che copra la malizia, ma nel 
servizio a Dio e nell’obbedienza alla sua volontà che, tutto 
disponendo per il bene e per la salvezza di ogni uomo, ha voluto 
l’ordinamento esistente. 
 Questo è il punto di partenza del presente lavoro; ora 
abbiamo bisogno di indicare una meta, passando per tappe 
intermedie, quasi soste nell’evoluzione di un pensiero, 
nell’affermarsi di concetti ed idee religiose ed umane, spirituali e 
politiche. 
 Analizzare il pensiero politico cristiano dalle origini fino a 
Costantino o a Nicea è ripercorrere l’evoluzione dalla concezio-
ne di una «realtà escatologicamente orientata» –che caratterizza la 
primitiva comunità dei discepoli- in cui ci si considera e ci si 
pone dinanzi al mondo come pellegrini di passaggio o stranieri 
residenti, fino al punto di approdo costituito dalla fine della 
tensione escatologica, quale affiora dalle pagine di uno scrittore 
come Eusebio da Cesarea, per il quale l’imperatore cristiano ha 
portato a compimento ogni attesa ed ogni progetto divino per la 
storia degli uomini, ed è ormai lo strumento attraverso cui Dio 
stesso rende noto il suo volere. 
 5
 Compattandosi e rafforzandosi nel corso di una fiera 
resistenza ad un potere politico caratterizzato da inaccettabili 
pretese di controllo delle coscienze e di riconoscimento della 
propria asserita divinità, la comunità cristiana prima ancora di 
Costantino  ci appare già  capace di una profonda autoconsape-
volezza della propria importanza e del proprio ruolo sociale. 
 Una tappa intermedia può infatti individuarsi nel concetto 
origeniano di «società secondo Dio», che vede nella comunità 
cristiana un modello di vita sociale e, per certi versi, politica; essa 
diventa una istituzione permanente, quasi uno stato nello stato; i 
«parochoi», gli stranieri pellegrini verso la meta celeste, sono 
ormai una realtà ben delineata e forte, con la quale il potere 
politico dovrà fare i conti, forse venire a compromesso. 
 Ma se lo studio dell’evoluzione del pensiero e della sen-
sibilità politica cristiana sembra dispiegarsi ai nostri occhi come 
un processo di riduzione e forse di annullamento delle distanze, 
non è tuttavia possibile non rivolgere uno sguardo scevro da 
ogni preconcetta impostazione teorica a posizioni e a scrittori  –
si pensi ad un Ippolito di Roma-  in cui  la coesistenza di una 
comunità dei credenti accanto a quella rappresentata dallo Stato 
terreno e pagano assume i caratteri di una contrapposizione, in 
una irriducibile antitesi tra popolo di Dio ed uomini irreg-
gimentati dal bellicoso Impero, tra seguaci del re celeste e 
schiavi del re terreno, a sua volta immagine di Satana. 
 Tale contrapposizione risulterà molto forte nelle risposte di 
alcuni martiri che porranno la scelta radicale del loro martirio 
 6
come un estremo atto di fedeltà al re universale, in aperta e 
dichiarata rivolta contro i re della terra. 
 L’impulso al nostro viaggio tra le pagine e le azioni dei 
cristiani è forse nell’apparente contraddizione degli “stranieri 
residenti” , stranieri verso il Cielo ma cittadini nell’attesa, uomini 
liberi in Cristo eppure liberamente sottomessi al potere dello 
Stato; le coordinate che intendiamo seguire sono nelle due posi-
zioni già presentate: il “sì” ed il “no” che le penne e le labbra 
cristiane scrivono e pronunciano, nelle relazioni quotidiane 
come davanti ai tribunali e alle torture, nei confronti dello Stato. 
 Sarà la ricerca, presentandoci di volta in volta posizioni che 
richiederanno di essere valutate ed analizzate, a consentirci di  
attribuire il giusto peso ad ognuna di queste posizioni 
evidentemente opposte, e a farci valutare l’atteggiamento della 
Chiesa ufficiale e dei suoi membri alla luce di queste due 
possibilità di risposta alla questione rappresentata dallo Stato.  
 Nel seno del Cristianesimo,  accanto alla generale tendenza 
che mitiga la ricerca dell’ estraniamento da questo mondo con la 
condizione drammatica di chi si sente un pellegrino anelante alla 
meta, vi è anche l’espressione radicale di tale volontà di 
estraniamento: ecco comparire in alcuni testi l’ideale di diventare 
un solitario, rifiutando il matrimonio, la famiglia, i commerci ed 
ogni partecipazione alla vita sociale, quanto più a quella politica
6
; 
i capi della Chiesa, comunque, condanneranno sempre queste 
posizioni come eretiche
7
; Mac Mullen può riassumere: 
                                                 
6
 Tale radicalismo affiora, ad esempio, nelle pagine degli apocrifi Atti di Tommaso, 
composti in Siria nella prima metà del III secolo.  
7
 cfr. Ireneo, Contra haereses I,28, in PG VII, c. 609 et passim.  
 7
«nonostante questa posizione antimondana, la maggior parte dei cristiani 
visse tranquillamente in maniera che non si discostava eccessivamente dalla 
vita dei loro vicini»
8
. 
 In effetti il Cristianesimo pone una questione del tutto 
sconosciuta alla filosofia contemporanea: tra il Regno di Dio da 
esso predicato come futuro e trascendente, e la società e lo Stato 
terreni, viene a porsi la comunità cristiana, e la Chiesa presenza 
attuale e concreta prende posto in mezzo alla città degli uomini; 
come ha notato il Salvatorelli, nel Cristianesimo «le due diverse 
grandezze sono sullo stesso piano, s’incontrano e si contrappongono»
9
. 
 E’ questa la “coscienza politica” del Cristianesimo che noi 
esamineremo nel corso dell’ ultima parte del presente lavoro, 
mettendo in evidenza la consapevolezza cristiana di essere un 
popolo distinto sia dai Giudei che dai Greci: Chiesa come 
unione ideale e, al tempo stesso, esteriore e concreta, Chiesa 
come popolo. 
 Quando l’attesa protocristiana dell’imminente parusia lascia il 
posto ad un certo interesse per la Chiesa terrena e per lo Stato, 
la prima si rafforza nelle sue gerarchie, mentre nei confronti di 
quest’ultimo vengono messi da parte gli atteggiamenti di 
estraneità e di intransigenza ad esso in precedenza rivolti. 
 
********** 
                                                                                                                    
    Si confronti anche 1 Tim 4,3: sorgeranno eretici sedotti da spiriti menzogneri 
che «vieteranno il matrimonio, imporranno di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato per 
essere mangiati con rendimento di grazie dai fedeli e da quanti conoscono la verità». 
 La vita ascetica sarà comunque istituzionalizzata in seguito nel monachesimo e 
nel celibato ecclesiastico. 
8
 Ramsay Mac Mullen, La diffusione del Cristianesimo nell’ Impero romano, Roma, 
Laterza, 1989, p.300.  
9
 Luigi Salvatorelli, Il pensiero del cristianesimo antico intorno allo Stato, dagli apologeti ad 
Origene, in «Bilychnis», 1920, pp. 275-276. 
 8
 La direttrice fondamentale seguita nel corso del presente 
lavoro sarà quella indicata dalla risposta di Cristo al quesito sulla 
liceità del pagamento del tributo, così parafrasabile: date a 
Cesare quello che è di Cesare  a condizione che Cesare non 
chieda quello che è di Dio. 
 In quest’ottica sarà letto il comando di Paolo di stare 
sottomessi alle autorità costituite, sottomissione non passiva, ma 
«in coscienza», in quanto tali autorità derivano da Dio che le ha 
predisposte per il mantenimento dell’ordine. 
 Il semplice obbedire, da parte dei cristiani, non basta: 
bisogna obbedire «propter coscientiam», con l’intenzione di 
assolvere ad un obbligo; «non basta sottostare –scrive Meneghelli- 
bisogna sottostare nella piena consapevolezza che attraverso l’atto di 
sottomissione ci si uniforma alla sua volontà, non indirettamente mediante 
l’esercizio della pazienza, ma direttamente mediante il compimento di un 
dovere»
10
. 
 La medesima prospettiva consentirà di leggere anche un 
testo problematico quale l’Apocalisse come la presentazione del 
caso-limite costituito da Cesare che non rispetta la condizione 
indicata da Cristo ed avanza pretese assolutistiche ed idolatriche; 
daremo tuttavia conto di quelle che ci sembreranno essere le 
letture più significative del libro che chiude il canone biblico: da 
un lato riporteremo le interpretazioni che tendono a sottolineare 
la dimensione politica del testo e che scorgono dietro «’l velame 
de li versi strani» un esplicito libello d’accusa contro la pagana e 
blasfema Roma, dall’altra riporteremo anche le interpretazioni 
                                                 
10
 Ruggero Meneghelli, Cristianesimo e storia, Padova, CEDAM, 1966, p.152.  
 9
che tendono ad escludere la natura politica del testo, 
preferendone mettere invece in risalto gli aspetti teologici e 
cristologici. 
  Anche il tema dei rapporti pratici con le manifestazioni 
storiche dell’autorità politica sarà considerato alla luce di tale 
regola-base: i martiri sacrificano la vita piuttosto che dare il loro 
assenso, sia esteriore che interiore, alla prevaricazione dei limiti 
tentata dal Cesare di turno. 
 Vi sono però alcuni testi che mal si conciliano con la chiave 
di lettura indicata: saranno considerati come frutto di una 
concezione estremista –sia pure minoritaria nel seno del 
Cristianesimo e sostanzialmente ristretta a gruppi eretici o ai 
cristiani meno colti- che sulla scorta della tradizione apocalittica 
esprime a chiare lettere un rifiuto dello Stato, a prescindere dal 
comportamento dei sovrani. 
 Occorre comunque dar conto del fatto che quest’ultimo 
atteggiamento, per la verità, ha goduto di un certo successo fino 
a quando è rimasta viva, nella comunità cristiana, la speranza 
nella parusia: scemata questa, sono emerse posizioni più 
moderate e certamente più disponibili ad un compromesso con 
l’esistente. 
 Tale atteggiamento di irriducibile ostilità allo Stato ha le sue 
radici ideali –lo dimostreremo nel I capitolo- nel filone 
apocalittico giudaico e nelle pagine dell’Antico Testamento in 
cui la speranza del Messia e del suo regno toglie ogni dignità e 
disconosce qualsiasi funzione positiva ai regni terreni. 
 
 10
CAPITOLO PRIMO 
 
 
 
 La realtà costituita dal Cristianesimo antico investigata nella 
dimensione del suo porsi in relazione alle cose umane e all’arte 
che le ordina in vista della convivenza civile, impone una 
duplice preliminare riflessione: da un lato, infatti, riteniamo 
meritevole di analisi quello che  propriamente può configurarsi 
come l’atteggiamento assunto dalla nuova religione nei confronti 
delle realtà politiche, mentre dall’altro crediamo necessario dar 
conto dell’ abbandono della originaria carica rivoluzionaria insita 
nell’annuncio evangelico, abbandono realizzato in nome della 
conservazione dell’ordine costituito e sotto la spinta della 
concezione cristiana del mondo terreno e dell’autorità politica.  
 Invitando il battezzato in Cristo a tenere costantemente lo 
sguardo rivolto verso i beni eterni cui aspira e dei quali si 
considera erede, il Cristianesimo primitivo assume nei confronti 
del mondo, della contingenza delle sue occupazioni e delle sue 
istituzioni un atteggiamento che possiamo definire, con Paolo 
Brezzi,  «apolitico perch� ultrapolitico», in quanto l’interesse per la 
salvezza dell’anima conduce alla noncuranza e all’implicito 
disprezzo per la politica, considerata un’ attività contingente, 
mentre il pessimismo verso il mondo dà vita ad un’indifferenza 
verso le istituzioni temporali 
11
; la  politica  fa parte di un  
mondo  
                                                 
11
 Paolo Brezzi, Il pensiero politico cristiano, in «Grande antologia filosofica» vol. V, 
Milano, Marzorati, 1954, p.713. 
 11
 
che passa e sarebbe gravissimo errore trasferirla sul piano di cio’ 
che rimane in eterno
12
. 
La politica non è condannata o disprezzata, ma ad essa il 
Cristianesimo sottrae quella importanza decisiva attribuitagli in 
precedenza da molti; le diverse situazioni politiche sono 
accettate come dati di fatto, appartenenti ad un mondo 
destinato a perire: possiamo parlare a riguardo di una �riserva 
escatologica» 
13
.
Inoltre –scrive Giuseppe De Rosa- «pur tenendosi lontano dalla 
politica propriamente detta, predicando la giustizia, la non-violenza, 
chiamando gli uomini all�amore universale (�) e mostrando che l�autorit� 
deve essere non dominazione ma servizio, [Cristo] agisce profondamente 
sulla vita politica»
14
.     
Il Cristianesimo non si porrà problemi di tecnica politica; 
ma, essendo la politica –scrive Barbero- «opera di civilt�, intesa a 
stabilire rapporti fra l�uomo e gli altri uomini, e fra l�uomo e le cose», esso 
acquista un significato politico, portando agli uomini un 
messaggio di liberazione spirituale, «oltre e contro il diritto»
15
.  
 Inoltre, soprattutto in seguito alla elaborazione teorico-
spirituale di Paolo, il Cristianesimo porrà la questione non di 
una eventuale organizzazione politico-sociale cristiana, «ma 
                                                 
12
  Si veda anche: id., L�idea d� Impero nel IV secolo, in «Studi Romani» XI, n.3 –1963. 
13
 Torneremo sul concetto di “riserva escatologica” come presupposto teorico 
dell’obbedienza all’autorità politica e della preghiera per i suoi detentori nel 
paragrafo § 1.3; per l’espressione, si vedano: 
- Eric Schlier , Lo Stato nel Nuovo Testamento, in: id., Il tempo della Chiesa, 
Bologna,  Il Mulino,1968, p. 10;  
- Giuseppe De Rosa, Ges� e i problemi politici del suo tempo, in «La Civiltà 
Cattolica», q. 2967, 2 febbraio 1974, p.230. 
14
 De Rosa, Ges� e i problemi politici del suo tempo cit., p. 231. 
15
 Giorgio Barbero, Il pensiero politico cristiano, Torino, UTET,1962, p. 10. 
 12
unicamente di un modo cristiano di adempiere ai propri doveri 
nell�organizzazione esistente�
16
.  
 Paolo dimostra che il vero problema non è quello di 
un’organizzazione politica e sociale del mondo, ma quello di un 
modo cristiano di adempiere ai propri doveri, all’interno 
dell’organizzazione esistente
17
. 
 Almeno fino al termine del primo secolo, del resto, il 
cristiano è soprattutto un uomo in attesa della fine del mondo, 
ed i problemi costituzionali restano del tutto estranei alle sue 
preoccupazioni; egli vive quasi ai margini dello Stato, accettan-
dolo sì, ma come una sorta di pura e semplice necessità.  
L’annuncio evangelico, scrive Enrico Chiavacci
18
, non è poli-
tico in quanto non propone un regno storico alternativo ai regni 
esistenti: la risposta di Cristo a Pilato, «il mio regno non � di questo 
mondo»
19
, non vuole indicare che il suo regno sarà nell’ Aldilà, ma 
che esso è fondato su una logica diversa da quella di Pilato; tale 
logica irrompe nella storia della città degli uomini come buona 
novella annunciata ai poveri, ed i seguaci di Cristo avranno il 
compito di introdurla nella storia degli uomini, in una battaglia 
che durerà fino all’ultimo giorno
20
. 
                                                 
16
 Id., La patristica, in «Storia delle idee politiche economiche e sociali», diretta da 
Luigi Firpo,II/1, Torino, UTET, 1985, p. 481. 
17
 Ibid. 
18
 Enrico Chiavacci,  ad vocem Politica in «Nuovo dizionario di teologia morale», 
Cinisello Balsamo, San Paolo, 1990, pp. 952-962. 
19
 Gv 18,36. 
20
 Gaudium et Spes 37.  
 Approfondiremo meglio il carattere non politico del regno spirituale di Cristo 
nel paragrafo §III.2. 
 13
Tuttavia, il Vangelo è allo stesso tempo portatore di un 
annuncio che è anche politico, in quanto si fa promotore di un 
metro valutativo ed intende indicare una «direzione di marcia per i 
regni terreni»
21
.   
Il Cristianesimo, infatti, scrive Pier Cesare Bori, si pone 
come �un momento critico, profetico, spirituale (�) all�interno di un 
sistema etico-politico dato prima e senza di esso, che esso non pu� negare n� 
far proprio integralmente»
22
. 
In definitiva, possiamo affermare che pur avvertendo tutta la 
vanità degli ideali politici, il Cristianesimo finisce col riconoscere 
l’opportunità di un qualche contatto con il mondo, cercando di 
trarre beneficio dall’ordinamento esistente, piuttosto che 
intraprendere la logorante via di una irriducibile negazione
23
. 
L’altro aspetto che ci proponevamo di analizzare era quello 
costituito dall’abbandono del primitivo carattere rivoluzionario 
di cui, potenzialmente, poteva farsi portatore il Cristianesimo. 
Brezzi parla in proposito, infatti, di una «potenziale posizione 
rivoluzionaria cristiana», caratterizzata da un vero e proprio sovver-
timento degli ideali politici sino a quel momento in vigore - 
come ben testimonia il passo paolino della Lettera ai Filippesi, 
con la sua significativa espressione «la nostra patria � nei cieli»
24
- 
ma, sottolinea lo stesso Brezzi, da quella originaria presa di 
posizione si è passato ad un opposto conservatorismo, seguen-
do l’idea che non ci si dovesse ribellare all’autorità visto che  le 
                                                 
21
 Chiavacci, ad vocem Politica cit., pp. 955-957. 
22
 Pier Cesare Bori, La Chiesa primitiva, Brescia, Queriniana, 1982, p.46. 
23
 Brezzi, Cristianesimo e impero romano, Roma, Casa editrice A.V.E., 1944, p. 28. 
24
 Fil 3,20. 
 14
cose che  interessavano questa non richiedevano un vivo 
interesse da parte dei fedeli 
25
.  
Ancora Brezzi, nel suo Cristianesimo e impero romano, sostiene 
che – «malgrado il profondo slancio rivoluzionario insito nella rivelazione 
cristiana�- la nuova religione ha privilegiato il dovere dell’obbe-
dienza e l’opportunità del mantenimento dell’ordine stabilito, 
ponendosi in tal modo come una forza conservatrice
26
. 
L’«atteggiamento cos� socialmente conservatore» della religione 
cristiana appare ad Ernst Troeltsch come «un fatto singolare», in 
relazione ad «un principio in s� assolutamente radicale e rivoluzionario 
come quello dell�individualismo e dell�universalismo»
27
.   
Tuttavia lo stesso Troeltsch afferma che «l�efficacia rivoluziona-
ria» del Cristianesimo non cessò mai, in quanto «l�atteggiamento 
conservatore non derivava affatto da amore e stima per le istituzioni, ma da 
una miscela di disprezzo, di sottomissione e di relativo riconoscimento»; col 
proporre una sottomissione che nei valori della vita interiore e 
nell’obbedienza alla Chiesa troverà sempre limiti precisi e 
invalicabili, il Cristianesimo «nonostante il suo atteggiamento conserva-
tore, divenne principio di un�immensa rivoluzione spirituale, e pi� tardi 
anche materiale, giuridica, istituzionale»
28
. 
 
***** 
 
 
                                                 
25
 Brezzi, Il pensiero politico cristiano cit., p. 713.  
26
 Brezzi, Cristianesimo e impero romano cit., p.26. 
27
 Ernst Troeltsch, Le dottrine sociali delle Chiese e dei gruppi cristiani, vol. I, Firenze, Le 
Monnier, 1941, pp.93-94ss. 
28
 Ibid. 
 15
Al termine di questo primo approccio al mondo della 
Chiesa nascente, possiamo tentare di individuare i principii sui 
quali si fonda la concezione cristiana dell’autorità politica: 
a) l’autorità viene da Dio ed agisce in nome di Dio; i 
cristiani devono restare sottomessi alle autorità, adempiendo in 
tal modo ad un obbligo religioso e ad un dovere di coscienza, 
nel rispetto della volontà e della sapienza di Dio, per mezzo del 
quale «regnano i re e i magistrati emettono giusti decreti� 
29
; 
b) l’ordinamento coercitivo e le sue leggi sono resi neces-
sari dal peccato originale; esso viene considerato come un 
sistema disciplinare con cui è possibile correggere le tendenze 
peccaminose insite nella natura umana corrotta in seguito alla 
perdita dell’amicizia con Dio; 
c)   lo Stato e la società sono rimedi al peccato e garanti-
scono la pace terrena; i cristiani pregano per le autorità affin-
ché queste siano in grado di adempiere alla loro missione che è 
quella di reprimere la violenza privata e di mantenere l’ordine 
pubblico; 
d) l’obbedienza alle autorità e la preghiera per coloro che 
esercitano il potere è vincolata ad una “riserva escatolo-
gica”: in attesa della venuta gloriosa di Cristo, il cristiano accetta 
l’ordinamento politico esistente come voluto da Dio per 
garantire la pace e la giustizia tra gli uomini, si sottomette con 
libertà e responsabilità ad esso e prega anche per le autorità che  
perseguitano i seguaci del Vangelo; 
                                                 
29
 Prv. 8,15.