2
Se si intende per filosofia non solo il sistema, che il perugino non
ebbe e non si sforzò di avere, ma una visione del mondo, per capire
quella capitiniana non basta rileggere i suoi autori, risalire alle sue
fonti filosofiche, ma occorre entrare dentro la sua esperienza e
cogliere le fonti vitali del suo pensiero. Capitini, guardando
praticamente alle insufficienze dell’uomo, parla della sua posizione
come di un “misticismo pratico”
5
, e non gli interessano le astratte
discussioni culturali. Egli nota infatti: “se la cultura mi giovò (…) sono
certo che anche senza cultura sarei arrivato ai punti essenziali della
mia persuasione religiosa a cui tendevo, si può dire da fanciullo, (…):
sapere della guerra, conoscere direttamente il dolore e
insistentemente, soffrire l’esaurimento, l’insonnia, la fragilità fisica,
sperimentare il male morale, non accettare la violenza, interessarsi ai
singoli, vivere in povertà, tendere ad associarsi per lottare
politicamente, possono essere anche in una persona senza speciale
cultura e loro mi hanno condotto a una vita religiosa”
6
.
Capitini occupa un posto singolarissimo nella storia della
spiritualità italiana per il fatto che fu un gandhiano nella patria di
Macchiavelli, un eretico religioso nella patria della Controriforma, un
pacifista e religioso in un paese in cui una tradizione di pensiero e di
azione pacifica non è mai esistita. Sebbene ciò che caratterizza la
personalità di Capitini sia la coerenza che ha mostrato nel corso della
sua vita tra pensiero e azione, egli è soprattutto un pensatore isolato,
poco conosciuto e poco seguito: Luisa Schippa fa notare infatti che il
perugino “non era comodo perché non prometteva potere, aiuti
economici, assistenziali o di carriera e per questo lui popolano, ma
5
A. CAPITINI, Apertura e dialogo, in Educazione aperta, vol. I, La Nuova Italia, Firenze, 1967, p. 9.
6
A. CAPITINI, Religione aperta, in Scritti filosofici e religiosi, cit., p. 465. Capitini a tal riguardo precisa: “l’uomo del
popolo può valere più dell’uomo colto perché, pur nel suo orizzonte di cultura limitata, può mettere maggiore buona
fede e sincerità con se stesso nella decisione” (A. CAPITINI, Vita religiosa, Cappelli, Bologna, 1985, p. 64).
3
aristocratico, non poté radunare le folle al suo richiamo”
7
. Il vero
motivo dell’incomprensione che circondò Capitini sta forse nel fatto
che egli guardò sempre troppo al di là, tanto che agli occhi dei più
appariva come un utopista. Infatti, per esempio, mentre d’Orsi
ammette che “non è facile sulla metà degli anni sessanta, in Italia,
essere nonviolenti e rivoluzionari”
8
e che quindi negli anni precedenti
non lo era ancor di più, Montesperelli sostiene che “il peccato
fondamentale di Aldo, che anch’egli riconosceva, era stato la sua
fondamentale ingenuità”
9
che lo aveva portato a fidarsi
eccessivamente delle persone. Capitini dovette quindi rassegnarsi ad
essere una voce fuori dal coro, come dice bene Polito, un “eretico”
religioso e politico, ma sempre discordante dalla “massa”
10
, dalla
quale invitava a diffidare. Mario Martini lo ha definito un “pensatore
d’urto” per la capacità di scuotere la mentalità dei contemporanei. La
sua opera può essere in effetti interpretata come una serie ripetuta di
scosse benefiche: anche se avrebbe dovuto portare una rivoluzione
intellettuale e sociale che non avvenne, la sua opera continua a
produrre i suoi piccoli urti operando con il ritmo della nonviolenza:
lento, dolce e profondo.
7
L. SCHIPPA, Religione come impegno pratico, in “Azione non violenta”, novembre-dicembre 1968, p. 11. Bobbio
afferma inoltre: “Non mi risulta che il pensiero di Capitini sia conosciuto al di fuori del nostro paese. Non credo che le
sue opere siano tradotte. Ma la stessa risposta vale per personaggi in Italia anche più noti di Capitini, come Gobetti.
Anche in Italia, del resto, le opere di Capitini non hanno avuto grande diffusione, come era più che naturale per un
pensiero che era stato osteggiato da comunisti e cattolici, e che andava contro corrente anche rispetto al pensiero laico
per il suo forte afflato religioso” (N. BOBBIO, Ricordo di Aldo Capitini, in “Il Poliedro”, anno V, n. 14, aprile-giugno
1988, p. 49).
8
A. d’ORSI, Il persuaso. Ritratto di Aldo Capitini, in Intellettuali nel novecento italiano, Einaudi, Torino, 2001, p. 143.
9
A. MONTESPERELLI, L’opposizione al fascismo, in “Azione nonviolenta”, Perugia, anno XV, settembre-ottobre
1978, p. 10.
10
Capitini scrive: “c’è sempre una grande folla che è influenzata dal vento che tira, (…) non bisogna dimenticare che la
<<massa>> non può dettare legge assoluta: tutto non può essere adeguato alla massa. È sempre l’individuo che porta il
suo contributo alla storia: egli ha il dovere di attuare il valore massimo, che si ripercoterà nell’animo di tutti” (A.
CAPITINI, Elementi di un’esperienza religiosa, Cappelli, Bologna, 1990, pp. 135-136).
4
Come molti filosofi, quali S. Agostino, Pascal, Schopenhauer,
Kierkegaard, e Nietzsche, Capitini è uno scrittore di scarsa
sistematicità. Le sue opere sono scritte spesso in forma
autobiografica, lirica ed epistolare per rendere più immediata la
comunicazione e coinvolgere in modo più attivo il lettore: affianca ai
concetti filosofici intuizioni poetiche, lega l’argomentazione razionale
alle concrete esperienze di vita, agli stati d’animo, alle emozioni. Si
tratta solitamente di raccolte di articoli, di saggi, di libri sempre
suddivisi in brevi capitoli, ognuno incentrato su un argomento
diverso, cosicché il medesimo problema è affrontato da molteplici
punti di vista con frequenti ripetizioni di concetti e di metafore,
sorretto da giustificazioni opposte ma complementari. Nel pensiero
capitiniano, infatti, i temi religiosi, filosofici, politici e sociali si
intrecciano, per questo motivo, in modo strettamente connesso tra
loro, tanto da non poter essere valutati separatamente.
Tuttavia c’è un nocciolo centrale che lega le varie tematiche e che
sorregge l’intero sistema del suo pensiero, ed è la sua “religione
aperta”, descritta dal perugino come “apertura di una realtà liberata
dai limiti attuali (peccato, disvalore, dolore, morte) realtà liberata che
comprenda e coinvolga tutti”
11
, religione che evita all’uomo moderno
di rinchiudersi o rassegnarsi nell’accettazione del mondo così com’è.
La nuova forma di vita religiosa, che Capitini propone, nasce dalla
consapevolezza dei limiti e delle insufficienze tanto delle religioni
tradizionali quanto del laicismo per poi andare oltre, ponendosi come
il punto di incontro tra teisti ed atei
12
. L’apertura religiosa in Capitini
11
A. CAPITINI, Lettera di religione n. 24: Ai religiosi tradizionali ed ai laici umanisti, in Il potere di tutti, cit., p. 325.
12
Capitini, intende mettere in evidenza non solo i limiti di tali posizioni, ma anche ciò che in esse vi è di valevole:
guarda con rispetto e riconoscenza i religiosi tradizionali che tengono saldo il dualismo tra reale e ideale, che sono
consapevoli dell’insufficienza del mondo quale è, che hanno fiducia nella liberazione, mentre vive con i laici il senso
della libertà, la fiducia nella iniziativa umana e nel progressivo sviluppo del mondo. Tuttavia egli desidera sollecitare gli
uni e gli altri ad una interna autocritica, portarli a recuperare il “coraggio profetico”, ad annunciare, vivere e volere la
liberazione, nel massimo grado e per tutti.
5
sorge infatti quando, comprendendo il limite della civiltà attivistica,
egli inizia ad avvicinarsi veramente alle persone guarendo per sempre
dallo scolastico modo di intenderle soltanto come portatrici di opere e
capolavori. Il motivo di fondo che guida la meditazione capitiniana e la
proietta in una dimensione religiosa è, quindi, l’importanza che
occorre attribuire alla persona, sempre distinta dai fatti, e perciò la
passione ad essa e, come vedremo, anche a ogni essere vivente, ai
suoi drammi e alle sue esigenze: “Quando incontro una persona, e
anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere
vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come
una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non
accetto, (…) perché non posso approvare che la bestia più grande
divori quella più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la
prepotenza prevalgano: una realtà così non merita di durare. E’ una
realtà provvisoria, insufficiente, e io mi apro ad una sua
trasformazione profonda, ad una sua liberazione dal male nelle forme
del peccato, del dolore, della morte”
13
. Capitini ricorrerà dunque a
termini quali “coralità”, “compresenza”, “omnicrazia”, che tendono a
includere l’umanità intera, a prescindere dalla condizione fisica e
sociale di ciascuno. Caratteristica fondamentale del perugino è,
quindi, la scontentezza profonda nei confronti della realtà a tutti i
suoi livelli, la certezza dei suoi limiti e dei suoi errori profondi, la
volontà di trasformarla, di aprirla, di liberarla. Si tratta, come si vede,
di una visione originale che rovescia l’immagine tradizionale della
religione come rassegnazione e perciò come riconosci-mento e
accettazione della realtà.
13
A. CAPITINI, Religione aperta, in Scritti filosofici e religiosi, cit., p. 465.
6
Il lavoro che chi scrive tenterà di svolgere consisterà nel partire
col mettere in luce non solo i punti essenziali della vita di Capitini ma,
attraverso di essi, le influenze e gli spunti che esercitarono su di lui le
varie correnti filosofiche. Calogero fa notare infatti come “Capitini non
è di quegli autori il cui valore e significato sta tutto nello scritto, (…)
(per esemplificare, la biografia di Marx è inessenziale per chi debba
decidere se definirsi o meno marxista). Per lui la lettura della pagina
rinvia invece subito all’aspetto biografico e non solo perché in
generale gli scritti derivano da stimoli storicizzati e sono volti a
delineare prospettive d’azione (…) ma anche perché molte pagine
perderebbero mordente e significato se non corrispondessero alla vita,
non fossero testimonianza della sperimentazione diretta di certe
dimensioni e possibilità d’esistenza”
14
. Mostrerò, quindi, il confronto
di Capitini con alcune correnti filosofiche dalle quali egli prese
spunto, tra le quali l’esistenzialismo, in particolare di
Michelstaedter, l’idealismo di Hegel, e il neoidealismo italiano nello
storicismo di Croce e nell’attualismo di Gentile, il marxismo, i
riferimenti a Leopardi e, in particolare, il grande contributo che, per il
filosofo perugino, diede Kant, punto di partenza obbligato per
qualunque speculazione che voglia affrontare il problema religioso.
Capitini si serve degli studi filosofici per “costruire le giustificazioni
dell’opposizione al fascismo e della costruzione libero-religiosa”
15
, e
non segue quindi una linea già costruita da altri, ma da ogni filosofo
coglie solo alcuni aspetti. Pompeo Faracovi, seguendo il percorso
filosofico-religioso del perugino, fa notare infatti come egli, prendendo
spunto dalle varie filosofie, sia “un avversario dell’attualismo, che
apprezza l’eticismo genti-liano; converge con temi di Croce, ma ne
14
G. CACIOPPO, Introduzione, in AA.VV., Il messaggio di Aldo Capitini, cit., p. 17.
15
A.CAPITINI, Attraverso due terzi di secolo, in Scritti sulla nonviolenza, a cura di L. Schippa, Protagon, Perugia,
1992, p. 4.
7
respinge l’idea dello spirito; rifiuta lo storicismo, senza sostituirgli il
ritorno a metafisiche tradizionali; accetta il superamento della
trascendenza ma vuol dualizzare l’immanenza; fiancheggia
l’esistenzialismo, ma non è esistenzialista; è uomo di religione ma
della religione fa un’aggiunta, non un fondamento, ed è un avversario
decisissimo delle religioni istituzionalizzate; è socialista e apprezza
Marx, senza essere marxista; e si potrebbe continuare”
16
.
Passerò poi, attraverso il secondo capitolo, a parlare di altre figure
chiave, tra le quali Mazzini, ispiratore in parte della visione politica di
Capitini, e in modo particolare di Gandhi, personaggio che introdusse
il Nostro nell’ambito della nonviolenza. Quest’ultima sarà invece
approfondita nel capitolo successivo, data l’importanza che Capitini
concedeva all’aspetto pratico della vita dell’uomo, e che, con la
nonmenzogna e la noncollaborazione, rappresentò la sua risposta
all’educazione fascista, all’attivismo, al vitalismo, al
dannunzianesimo. Essa è il tema che fa da sfondo a tutto il pensiero
capitiniano, dalla pedagogia alla politica, dalla filosofia alla religione, e
rappresenta in particolare l’anello di congiunzione tra la politica e la
religione: “attraverso la nonviolenza -secondo Capitini- acquista la
massima evidenza il nesso tra il momento religioso e il momento
politico dell’azione, perché il nonviolento tende nello stesso tempo al
regno di Dio e alla pace nel mondo, alla unione di tutti gli esseri e al
potere di tutti”
17
.
16
O. P. FARACOVI, Fra storicismo ed esistenzialismo, in “Il Ponte”, anno LIV, n. 10, ottobre 1998, p. 83.
17
N. BOBBIO, Religione e politica in Aldo Capitini, in Maestri e compagni, cit., p. 288.
8
Capitini non si accontenta infatti di “tramutare” la politica
attraverso l’etica, ma occorre per lui compiere un passo ulteriore,
collegando la politica direttamente con la religione. Questa sarà il
tema del quarto capitolo: tema principale in Capitini, tanto che egli
dedica all’argomento una buona parte della sua produzione letteraria,
sottolineando come una riforma religiosa fosse prioritaria rispetto a
qualsiasi altra riforma politica, sociale e culturale: il fatto che la
Chiesa cattolica avesse sede in Italia aveva infatti impedito, secondo il
perugino, una rivoluzione politica e sociale. La libera religione di
Capitini, maturata in anni che hanno mostrato la fragilità della
tradizione cristiana e cattolica, attribuisce illuministicamente il
massimo rilievo alla ragione critica ed alla coscienza del singolo. La
religione aperta di Capitini, come vedremo, si appropria di
insegnamenti evangelici, e ciò è confermato dal penetrante giudizio di
Bobbio: “la religiosità di Capitini è, nonostante il suo aggressivo anti-
cattolicesimo istituzionale, di ispirazione cattolica (parlo della
spiritualità cattolica, che guarda alle opere più che alla fede, non alla
chiesa come istituzione), (…) Capitini non può essere compreso se non
inserendolo nella storia delle sette non conformiste che predicano il
ritorno alle origini (…) e che sole propugnarono come genuinamente
cristiano (...) il tema della nonviolenza"
18
. Così se la fede è l’adesione
ad affermazioni che non reggono alla critica storica, allora quella di
Capitini è una critica alla fede, ma è una fede che se demolisce non lo
fa per il compiacimento nichilistico delle rovine, bensì per riformare e
ricostruire. Tutto ciò al fine di portare la religione al punto di
massima prossimità con il laicismo, un contributo che trovò poche
adesioni e fece anche scandalo, e che è tuttavia espressione di una
fondamentale esigenza del pensiero e della civiltà contemporanea.
18
N. BOBBIO, La filosofia di Aldo Capitini, in Maestri e compagni, cit., pp. 245-246.
9
CAPITOLO PRIMO
BIOGRAFIA E FORMAZIONE DI ALDO CAPITINI
1.1 - I primi anni e il rapporto con Leopardi e Kant.
Aldo Capitini nasce a Perugia il 23 dicembre 1899, “in una casa -
come lui stesso ricorda- nell’interno povera, ma in una posizione
stupenda, perché sotto la torre campanaria del palazzo comunale, con
la vista, sopra i tetti, della campagna e dell’orizzonte umbro,
specialmente del monte di Assisi, di una bellezza ineffabile”
19
. Per
sottolineare l’importanza che Capitini attribuisce all’ambiente in cui
nasce, egli scrive: “Non sono mai vissuto a lungo e a mio agio nel
tessuto di una grande città, nella quale tra l’altro mi mancherebbe il
lato contemplativo: perché noi umbri anche se non siamo devoti,
siamo tuttavia contemplativi, cioè amiamo collocare le cose, i fatti, in
un grado più ampio, in un paesaggio sereno, meditativo, largo”
20
.
Frosini, riportando alcune descrizioni sul paesaggio che circonda i
primi anni di vita del perugino, rende noto che “dalla finestra della
sua angusta stanzetta <<piccola di dimensioni come la cella di un
convento>>, Aldo ammira, lasciandosene religiosamente
impressionare, le bellezze della sua Perugia; sospinge lo sguardo sul
suggestivo ambiente naturale della verde Umbria, contrappuntato da
caldi e teneri colori, che dai monti lontani degradano verso le colline,
19
A. CAPITINI, Attraverso due terzi di secolo, in Scritti sulla nonviolenza, cit., p. 3. Aldo Capitini nasce da Enrico e
Adele Ciambottini: il padre era un impiegato comunale, a cui era stato affidato anche l’incarico di suonare le campane
della torre comunale, la madre faceva la sarta e possedeva, a differenza del marito, una cultura alquanto limitata, la
seconda o la terza elementare. Di lei, l'amico di Aldo Capitini, Francesco Francescaglia ricorda: “Nel palazzo comunale
di Perugia per andare da lui passavo dalla cucina dove c'era sua madre in faccende. Ho sempre pensato che in lei fosse il
segreto di Aldo. Una donna asciutta, silenziosa, dai movimenti leggeri, occhi raccolti e penetranti, un'ombra quasi;
ispirava un religioso rispetto anche se sceglieva l'erba; e poteva essere la madre di Gesù” (F. FRANCESCAGLIA, Un
tipo compromettente, in “Azione nonviolenta”, anno V, nn. 11-12, novembre-dicembre 1968, p. 14). Aldo ebbe anche
un fratello, Giovanni che, di qualche anno più grande di lui, morì in giovane età.
10
investendo delle loro luci villaggi, paesi e cittadine, ricchi di millenari
ricordi di storia civile e religiosa
21
.
A causa delle modeste condizioni economiche della famiglia,
Capitini viene indirizzato verso l’istituto tecnico per ragionieri. Nel
periodo dal 1913 al 1916, vive l’esperienza del futurismo
22
e la
cultura scolastica del tempo che, presentando in particolare modelli
patriottici tra i quali Carducci, D’Annunzio, Pascoli, lo spinge al
nazionalismo. Tra il 1918 e il 1919 avviene ciò che Capitini definisce
la “conversione”, abbandona cioè il nazionalismo e aderisce
all’umanitarismo pacifista e socialista.
Concluso l’istituto tecnico da autodidatta, legge molti classici,
l’Antico Testamento, i Vangeli, Manzoni, Leopardi, studia lingue e
letterature moderne, greco e latino: “Mi misi allo studio del latino
proprio rosa-rosae, il giorno 16 giugno 1919”, ricorda il perugino, “e
poco tempo dopo sul frontespizio della sintassi latina scrissi queste
parole di Cicerone “ego vero ardenti quidem studio hoc fortasse
efficiam, quod saepe viatoribus, cum properant, evenit, ut si serius
quam voluerint forte surrexerint, properando etiam citius quam si de
nocte vigilassent, perveniant quo velint (ad q. fr. Ii,13). (sicuramente
io, con applicazione appassionata, otterrò quello che spesso accade ai
viandanti, quando si affrettano che, che se per caso si sono levati più
20
A. CAPITINI, Antifascismo tra i giovani, Celebes, Trapani, 1966, p. 47.
21
V. FROSINI, Ritratto di Aldo Capitini, in “Nuova Antologia”, n. 2132, ottobre-dicembre 1979, p. 74. Capitini
osserva inoltre che: “Accanto alla mia cameretta, lo studio, colmo di libri, guardava sopra i tetti, la valle e il monte di
Assisi, e gli altri di Gualdo Tadino, di Nocera, di Norcia, di Spoleto, di Trevi, di Montefalco, di Bettona, di Deruta, il
colle di Brufa, uno dei paesaggi più armonici che io abbia visto e al quale debbo quanto ad una persona” (A. CAPITINI,
Antifascismo tra i giovani, cit., p. 62). Egidio Fermi scrive: “Capitini è nato mistico. Complice, in parte, l’aerea torre
campanaria del bellissimo palazzo comunale della sua città natale” (E. FERMI, Religiosità aperta di Capitini, in “La
Comunità”, n. 4, 1956, p. 62).
22
“I primi vent’anni della mia vita si sono svolti secondo un modello tipico. Precoce come sensibilità, riflessività e
interesse per la lettura e anche per la poesia, non avevo nessuna guida, sicché mi fu di grande scossa, l’incontro con la
lettura futurista, i suoi manifesti, i suoi programmi innovatori, che mi presero per un po’ di tempo, (…) associandosi al
nazionalismo adolescente (leggevo fin da piccolo i giornali), e in contrasto col fondo del mio carattere, che invece
preferiva letterati e poeti meditativi e moralisti, come Boine, Slataper, Jahier e specialmente Ibsen” (A. CAPITINI,
Attraverso due terzi del secolo, in Scritti sulla nonviolenza, cit., p. 3). Egli vedeva nell’opera di tali poeti una volontà
comune di autobiografia morale e intellettuale, derivante dal bisogno di porre al centro dell’interesse il problema della
coscienza intesa come principio etico e vista come conquista difficile, talvolta fallimentare.
11
tardi di quando volessero, affrettandosi arrivano dove vogliono, anche
prima che se avessero vegliato la notte). Furono due anni di grande
passione e della massima applicazione (dodici ore al giorno)”
23
.
Tuttavia l’eccessivo sforzo dello studio gli causa un forte esaurimento
che lo porta a vivere l’esperienza del dolore fisico, della finitezza e il
distacco da una civiltà attivistica che valuta positivamente solo chi
rende e chi è attivo.
Il 1924 è un anno significativo per Capitini: dà, come esterno, l’esame
di licenza liceale a Perugia, ottenendo ottimi risultati che gli
permettono di vincere una borsa di studio alla Scuola Normale
Superiore di Pisa dove, quindi, s’iscrive gratuitamente alla facoltà di
Lettere e Filosofia. Qui si laurea a pieni voti e lode, presentando la
tesi “Realismo e serenità in alcuni poeti italiani”
24
e consegue, l’anno
successivo, il diploma di perfezionamen-to discutendo con A.
Momigliano, dal quale aveva imparato a conoscere e ad amare i grandi
classici della letteratura, quali Dante, Manzoni, Foscolo, Leopardi,
una tesi su “La formazione dei Canti di Leopardi”. L’esigenza di
affrontare da solo, senza la guida di un maestro, uno studio
approfondito della cultura classica al fine di trovare una risposta alle
proprie riflessioni sulla finitezza e sul dolore umano, accomuna
l’esperienza di Capitini a quella compiuta un secolo prima da
Leopardi, il poeta da lui maggiormente amato fin dall’inizio degli anni
’20. Capitini, che fin dai primi anni si definisce un “kantiano-
leopardiano”
25
, trova nella lirica di Leopardi non solo la “natura
matrigna”, una realtà fatta di dolore e morte, ma anche la possibilità
23
A. CAPITINI, Antifascismo tra i giovani, cit., p. 13.
24
In essa approfondisce autori quali Jacopone, Dante, Poliziano, Foscolo e Leopardi, individuando nella tesi due
tensioni fondamentali: il realismo, inteso come l’inquietudine individuale, e la serenità, che era il superamento, il
placarsi di questa inquietudine. È il problema dell’universalizzarsi del singolo, che negli Elementi di
un’esperienza religiosa troverà una soluzione etica e religiosa, e che qui invece è risolto col ricorso ad una superiore
contemplazione estetica come catarsi.
25
A. CAPITINI, Educazione aperta, vol. I, cit., p. 7.
12
di superare tale realtà attraverso un’apertura ai valori, alle persone, ai
morti. Capitini cercherà di superare la visione della finitezza umana
collegandosi al messaggio etico dell’ultimo Leopardi, quello della
Ginestra, nella quale viene messo in evidenza il valore della
solidarietà del genere umano nella dura lotta contro il ciclo
meccanicistico degli eventi storici e naturali
26
.
“Leopardi -afferma il filosofo perugino- è più religioso del Croce”
27
:
se la filosofia crociana inserisce semplicemente l’individuo nella
realtà, Leopardi dà all’individuo un valore assoluto, come si può
notare pensando a “Silvia” ed alla Nerina delle “Ricordanze”
28
. Ma la
vicinanza tra i due si fa più forte approposito dell’“infinito”: il ruolo
che il Leopardi dà alla “siepe”, in Capitini è svolto dalle “finestre” della
sua stanza, poiché sia l’una che le altre lasciano intuire l’infinito, ma
con esiti diversi: se in Leopardi esso è il mare in cui è “dolce
naufragare”, un momento da contemplare, “per Capitini viene invece
vissuto nella compresenza, diventa atto pratico, un momento della
<<prassi>> religiosa”
29
. Tuttavia “Leopardi è un romantico e i suoi
limiti sono i limiti del romanticismo in cui dolore e morte sono, sì,
presenti ma non riscattati, partecipati ma non riabilitati, sofferti ma
non risolti”
30
. Un esempio che può esser portato riguarda uno dei temi
26
Luporini fa notare infatti che nel Leopardi dell’ultimo periodo c’è il vero ritorno alle origini dell’uomo, che ormai è
in tutto uomo sociale: “non il ritorno alla mitica <<natura>> in cui egli si immerge selvatico e solitario, ma il ritorno al
senso originario della comunità umana, della <<social catena>>: non catena che lega e che costringe, ma catena che
salda chi fraternamente vi collabora” (C. LUPORINI, Leopardi progressivo, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 91).
27
A. CAPITINI, La compresenza dei morti e dei viventi, in Scritti filosofici e religiosi, cit., p. 337.
28
Capitini trova il fondamentale tema della compresenza, non solo nella considerazione che la morte aveva avvicinato
ancor di più Silvia al poeta, ma anche nei celebri versi leopardiani rivolti a Nerina :
“Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
dico: Nerina or più non gode; i campi
l’aria non mira”.
(G. LEOPARDI, Le ricordanze,vv.166-169).
29
N. BOBBIO, La filosofia di Aldo Capitini, in Maestri e compagni, cit., p. 245.
30
N. BOBBIO, Introduzione, in A. CAPITINI, Il potere di tutti, cit., p. 10. “Dall’Infinito al Canto d’un pastore e alla
Ginestra si afferma -sostiene Capitini- sempre più la tendenza a umanizzare, a risolvere sulla terra il problema della
vita, non annientandola, ma migliorandola con l’amore” (A. CAPITINI, Realismo e serenità in alcuni poeti italiani, p.
270).
13
cui entrambi danno grande importanza, quello della festa che, mentre
nel poeta di Recanati si carica di amarezza e di tristezza, in Capitini
come vedremo, sarà invece portatrice di gioia e di valore.
Il 1929 è l’anno della stipulazione dei patti lateranensi che
conciliavano Stato e Chiesa: per questo motivo Capitini si distacca
definitivamente dalla religione cattolica che, dice, “se avesse voluto
avrebbe fatto cadere il fascismo in una settimana”
31
, regime a cui già
nel ’21 alcuni avvenimenti come la uccisione di Matteotti, la dittatura,
la fascistizzazione della scuola, ne avevano rafforzato la sua totale
separazione. Da questo momento convincendosi sempre più che la
Chiesa cattolica ha tradito il Vangelo e che “la religione è una cosa
diversa dalla istituzione romana”, Capitini, come afferma nella sua
autobiografia, diventa il “ricercatore e il costitutore di una vita
religiosa in contrasto con quella tradizionale, leggendaria,
istituzionale, autoritaria, e compromessa fino al collo con la guerra, i
privilegi, le oppressioni delle società attuali; da allora -continua il
perugino- ho sempre meglio chiarito per me e per gli altri che cosa
significasse la più profonda apertura a tutti (sono stato colui che più
ha usato nel periodo fascista il termine di “apertura” anche nei libri
allora pubblicati)”
32
. Attraverso questa esperienza, l’opposizione al
fascismo si fece più profonda e divenne in Capitini religiosa, sia nel
senso che cercò più radicale forza per l’opposizione negli spiriti
religiosi puri, quali Cristo, Buddha, S. Francesco, Gandhi di là
dall’istituzionalismo che tradiva quell’autenticità, sia nel senso che gli
apparve chiarissimo che la liberazione vera dal fascismo stesse in una
riforma religiosa riprendendo e portando al culmine i tentativi che
31
A. CAPITINI, Antifascismo tra i giovani, cit., pp. 18-19. Da questo momento Capitini, come fa notare Griffo,
“diffiderà sempre delle istituzioni impersonali, gerarchicamente ordinate, viste come luoghi impermeabili alla libera
creazione del valore” (M. GRIFFO, Rileggere Capitini, in “Il Poliedro”, anno VI, nn. 17-18, gennaio-giugno 1989, p.
52).
32
A. CAPITINI, Attraverso due terzi del secolo, in Scritti sulla nonviolenza, cit., p. 4.
14
erano stati spenti dall’autoritarismo ecclesiastico congiunto con
l’indifferen-za generale italiana per tali cose.
Intanto alla Normale di Pisa, dove è chiamato da Gentile a fare il
segretario economo e dove diventa assistente volontario di
Momigliano, Capitini si unisce ad una cerchia di amici con i quali
approfondisce i temi di carattere etico-religioso e di opposizione al
fascismo. Tra questi conosce Claudio Baglietto
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con cui condivide
l’insoddisfazione per la religione tradizionale, la prospettiva della
nonviolenza, e un teismo di tipo etico-kantiano che distingue tra
realtà e valore, tra essere e dover essere. Proprio grazie al dialogo con
Baglietto, Capitini si avvicina a Kant
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.
Come detto sopra, il perugino si definisce spesso “kantiano-
leopardiano” trovando in entrambe un recupero della finitezza e un
esempio di come la fede, la coscienza di Dio, il senso della religione
potessero trovarsi anche in un soggetto laico e consapevole del
proprio limite
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. Della filosofia di Kant, che ha liberato la morale da
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Assistente volontario di Armando Carlini, Baglietto aveva ottenuto attraverso l’intervento e la garanzia di Gentile
presso la questura, un visto per recarsi a Friburgo a studiare con Heidegger, (la sua tesi di laurea in filosofia verteva
infatti sul filosofo tedesco). Verso la fine del 1932 Baglietto annuncia la decisione di non tornare in Italia per rifiutarsi
al servizio militare e dalla Germania passa in Svizzera dove si occupa della “Giovane Europa” e di teorie economiche e
dove muore esule a Basilea nel 1940. Con la decisione di non entrare in Italia, la rinuncia alla borsa di studio, l’esilio
volontario nella più ospitale terra elvetica, d’Orsi fa notare come Baglietto “fornisce uno dei primi esempi di assoluta
coerenza nella storia dell’intellettualità italiana, un esempio di rinuncia alla carriera e alla stessa autorealizzazione
personale in nome di un’etica dei principi. (…) Quale il senso della rinuncia di uno studioso a cui si aprono brillanti
prospettive di carriera? Semplice: Baglietto è il primo obiettore di coscienza, ante litteram, della storia d’Italia” (A.
d’ORSI, Il persuaso. Ritratto di Aldo Capitini, in Intellettuali nel novecento italiano, cit., pp. 82-84). Anche per
Baglietto, come per Capitini, fondamentale è l’importanza che dà alla coscienza, causa di ogni nostra azione. In una
lettera indirizzata a Claudio Varese (da Friburgo, 1 novembre 1932, Baglietto scriveva: “Ognuno deve andare per la sua
via, fare quello che dopo avervi ben pensato, gli pare giusto, e poi quello che verrà sarà sempre bene. Nessuno ha il
dovere di arrivare a persuadere altri delle sue idee. Si starebbe freschi! Quindi può essere per me di importanza molto
limitata e particolare quello che idee da me accettate possono produrre in altri. In senso assoluto anzi, io non ho da
occuparmi affatto di ciò. Come ogni uomo, anch’io ho un solo dovere, quello di cercare di chiarirmi le idee (quello che
si dice cercare la verità) e di agire senza transigere conforme a quelle che mi sembrano migliori: e le due cose (e questo
è molto importante) sono una cosa sola. Questa è poi per ogni uomo anche l’unica via alla felicità, intesa nel senso vero
della parola: e se sarà tutta mia fortuna e vantaggio mio, non di altri, se io lo farò” (A. CAPITINI, Antifascismo tra i
giovani, cit., pp. 31-32).
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Anche Piero Martinetti indirizzò Capitini nella lettura del filosofo di Königsberg: mentre gli idealisti lo
consideravano il capostipite dell’idealismo tedesco, il filosofo milanese, al contrario, evidenziò in particolare la
dimensione metafisica e religiosa dell’etica kantiana.
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“Se si dovesse accennare a vicinanze culturali ne nominerò tre: la filosofia etica del Kant; una ripresa (più spontanea
che derivata) dei temi “morali” di alcune figure del primo ventennio: Michelstaedter, Boine, Clemente Rebora;