CAPITOLO I
ACCENTRAMENTO E SPINTE CENTRIFUGHE
1. La legge ed i costumi
Ferdinando Villani, nel discorso inaugurale per la riapertura della Cattedra di diritto
penale che si ebbe nel novembre del 1860, affronta il tema delle riforme che, di lì a
poco, si sarebbero rese necessarie per raggiungere quella che egli definisce una <<
rigenerazione .....nella grand’opera delle leggi >>. In auspicio è un’Italia << principe nei
dettami della legislazione >>, ma il giurista, quasi profeticamente aggiunge che << le
leggi non possono nulla senza i costumi >> e che << le leggi senza i costumi van
facilmente tradite >>.
Il messaggio, in effetti, era estremamente chiaro: i problemi che derivavano dalla
diversità dei costumi, non sarebbero stati superati semplicemente attraverso
l’emanazione di leggi, ma sarebbe stato necessario prima impartire una << educazione
pubblica universale >>. Essa nel tempo avrebbe portato a costumi simili, se non
identici, che avrebbero richiesto solo in questa fase << un ultimo ricorso alle leggi per
conservarsi >>. L’identità dei costumi poteva infatti risultare solo da un processo lungo
e spontaneo di << emulazione di illustri, classici e straordinari educatori >> che
sarebbero stati di esempio. Il giurista sembrava presentire le difficoltà che sarebbero
sorte in seguito all’unificazione e consigliarne anticipatamente la soluzione.
Difatti, pur successivamente alla proclamazione di Vittorio Emanuele II quale re
d’Italia, non si poteva di certo affermare che la nazione avesse trovato una propria
identità. I costumi erano molteplici, gli schieramenti confusi, la mentalità era
particolaristica, le spinte clientelari e municipalistiche non erano cessate, dunque
evidenti erano i limiti dell’eredità risorgimentale.
Considerare la difformità, a volte enorme, tra i costumi e la frammentarietà delle
istituzioni è fondamentale per capire perché l’identità non potesse acquisirsi “svoltato
l’angolo”. Gli ostacoli, anziché essere superati, vennero semplicemente elusi grazie ad
una << accentuata formalizzazione giuridica delle strutture statali unificate >>. Tale
strada però si rivelò inefficace, poiché le diversità culturali e sociali non potevano
essere eliminate attraverso l’imposizione di istituzioni identiche.
Nell’Italia che stava per sorgere, un ruolo fondamentale sarebbe stato svolto dal
sovrano. Il Principe, per Villani doveva essere << quasi il modello di rappresentanza
del carattere tipico nazionale >> e le riforme dovevano avvenire nel nome di Vittorio
Emanuele II.
Quanto fosse errato riporre una tale fiducia in lui, lo fa intendere Mack Smith, che
scrive di come
<< una sola settimana fu sufficiente a dimostrare come questo sovrano rozzo e sgraziato
fosse sotto ogni aspetto inferiore al carismatico dittatore radicale e anche al poco stimabile
Borbone .....il re aveva troppo poco calore e genialità .....poca cortesia e persino poca
maestosità per poter piacere >>.
Il giudizio di Mack Smith è duro, ma sottolinea l’avversione dei napoletani che
invece avevano accolto con entusiasmo Garibaldi.
Vittorio Emanuele fece, invero, qualche “sforzo” per ingraziarsi i nuovi sudditi e
su consiglio di Farini si recò a venerare il sangue di S. Gennaro, ma l’evidente
insoddisfazione dei napoletani
<< portò allo scoperto i tratti più meschini del suo carattere ...In privato, e quel ch’è peggio
anche in pubblico, parlava dei napoletani come di spregevole canaille >>.
L’atteggiamento nei confronti delle genti meridionali, sembrava ricalcare
l’analogo giudizio dei Romani verso i popoli germanici, che, nel secolo v, stabilendosi
nelle terre romane provocavano il disgusto di Sidonio Apollinare.
Il giurista foggiano esprime, nonostante tutto ciò, fiducia nel Regno sabaudo
conformandosi alle idee giobertiane espresse in “Del rinnovamento civile d’Italia” dove
Gioberti riserva al Piemonte il compito di unificare progressivamente l’Italia. Egli è
inoltre altrettanto convinto, nel 1860, della necessità di attendere prima una integrazione
morale e sociale, di popoli dai variegati costumi e dalle diverse leggi; solo
successivamente potevano “darsi” norme comuni, che sarebbero state il riflesso di
costumi ormai omogenei. Così, come Seneca, Villani afferma: << Date costumi, non
leggi >>, ed ancora a proposito di queste ultime, sostiene che esse
<< senza i costumi sono come i vecchi palizzati che ogni corrente o slarga o atterra >>.
Richiamando Borghi poi, dice della fallacità della credenza che tutto si possa
ottenere con le leggi, queste ultime essendo invece << nulla senza i costumi >>. Bisogna
dire, per vero, che queste velate tendenze autonomistiche non saranno più riscontrabili
negli scritti successivi all’unificazione, poichè il Villani sembrerà ( ma è più di una
apparenza ) averle abbandonate in favore della visione accentratrice perseguita dallo
schieramento liberal - moderato di cui faceva parte. Ma si tratta di un aspetto su cui
occorrerà soffermarsi ancora.
Similmente al Villani, un giurista meridionale di spicco, Luigi Capuano, metteva in
evidenza che il diritto fosse un derivato della realtà, e solo quando fosse emersa una
concreta comunanza d’interessi tra popoli che erano stati divisi da secoli, potessero
modificarsi le legislazioni preesistenti. Sosteneva quindi, senza mettere in discussione
l’Unità, che la normazione sarebbe stata la logica conseguenza di una raggiunta
uniformità di costumi.
L’Unità, in quanto linfa vitale di forze fisiche, morali ed economiche della nazione
indipendente, era indispensabile, ma per preparare tale nazione sarebbe stato opportuno
attendere, rispettare le varietà. Era tutt’altro che saggio affrettare il processo unitario,
mentre, a tempi maturi, le stesse popolazioni avrebbero reclamato istituzioni comuni. In
un Paese in cui il commercio era più facile tra Napoli e Parigi che tra Napoli e Torino; in
cui i Napoletani ignoravano i costumi piemontesi ed avevano mode parigine; nelle cui
biblioteche era più facile la consultazione di opere francesi ed inglesi che di opere
italiane, dare leggi comuni sarebbe stato arduo.
Dunque il Capuano ed il Villani parlavano della necessità di un amalgama sociale
prioritario rispetto ad una unificazione solo giuridica.
Non erano i soli. Tra gli altri, avendo il motivo di riprendere questi temi,
ricorderemo adesso il neoguelfo Savarese, per cui l’organizzazione dello Stato doveva
basarsi su costumi, su sentimenti, su credenze comuni. Anch’egli ravvisava una
prevalenza della società sulla potestà governativa.
In effetti, non solo i costumi erano diversi. Ancora nel 1859 le varie regioni erano
divise politicamente, avevano diverse tradizioni storiche di governo e legislative. Pesi,
misure, monete variavano da regione a regione: ducato a Napoli, oncia siciliana, scudo
papale, lira piemontese. Esistevano lungo il corso del Po decine di barriere doganali <<
esempio significativo di quel municipalismo o campanilismo che impediva
l’unificazione nazionale >>. Scrive Mack Smith che lo stesso Cavour << confessò ad un
amico di conoscere l’Inghilterra molto meglio di Napoli >>.
Per Procacci l’Italia meridionale << con i suoi galantuomini e le sue campagne
devastate dalla siccità , era ben altra cosa del Piemonte e della Lombardia, coi loro
agricoltori - imprenditori, i loro canali, la loro relativa proprietà >>.
Nonostante tali considerazioni sulle differenze economiche, politiche, istituzionali,
morali, tra le regioni della costituenda Italia, gran parte dei giuristi del tempo sostennero
però la necessità di adottare un solo diritto che elidesse ogni diversità, anche culturale.
In questo clima si sviluppano alcune problematiche fondamentali, dipanando le
quali, cercheremo di capire se il tempo trascorso abbia offerto risposte agli interrogativi
che sorsero ( ed ancora oggi sorgono ) intorno a decentramento, Unità da preservare,
progetti federalisti, riforme.
2. Decentramento e riforme
Il discorso inaugurale del Villani è del novembre 1860. Il 21 ottobre si erano tenuti
i plebisciti nel Napoletano ed in Sicilia e si erano trionfalmente risolti con l’annessione
al Piemonte. Solo alcuni mesi dopo, il 17 marzo 1861, il Parlamento subalpino
proclamava Vittorio Emanuele II << re d’Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione
>>. Secondo, e non primo, ad indicare la continuità col passato; il nuovo Stato aveva
semplicemente allargato i suoi confini.
Dopo l’Unità, il problema che si pose immediato fu quello della scelta tra
unificazione e decentramento. In molti, tra questi lo stesso Cavour, propendevano
inizialmente verso la “discentralizzazione”. Ciò si ricava da una lettera inviata nel
gennaio del 1861 al Marchese di Montezemolo. Scrive Cavour:
<< Il Prof. E. Amari, dottissimo giureconsulto, com’egli è, riconoscerà, io lo spero, che noi
siamo non meno di lui amanti della discentralizzazione >>.
In ossequio a tali orientamenti, il 24 giugno 1860 era stata istituita una
Commissione straordinaria presso il Consiglio di Stato che si occupasse di elaborare un
programma a tal proposito. Farini e Minghetti ne erano a capo. Un primo progetto di
decentramento amministrativo, proposto da Farini, ministro dell’Interno del Regno
sardo, si fondava sull’istituzione di sei regioni che rappresentassero gli antichi stati
indipendenti. Per Farini doveva trattarsi di semplici circoscrizioni amministrative, senza
materie di autonoma competenza e senza rappresentanza elettiva. Tutto ciò perché da
una parte si temeva che autonomia regionale potesse significare disintegrazione
nazionale; dall’altra, che dar vita a nuovi centri di controllo, quali le regioni, avrebbe
soffocato i comuni. Questi infatti comprendevano che avrebbero conservato maggiore
autonomia da Firenze, da Napoli, e dalle altre capitali regionali, se il potere fosse stato
attribuito al governo centrale e non alle regioni. Paradossalmente il municipalismo
conduceva all’accentramento.
Questo primo progetto era avversato da molti dei commissari, che desideravano
regioni con a capo un corpo amministrativo deliberante, composto da membri eletti da
consigli comunali; e non regioni intese come semplici divisioni governative, che
avrebbero dato vita solo ad un decentramento burocratico.
Quando Farini assumeva la Luogotenenza nelle province napoletane, Minghetti
prendeva l’iniziativa di un progetto di legge, presentato il 13 marzo del 1861, fondato
anch’esso sul sistema regionale. Egli spiegava agli elettori che il progetto consisteva
<< nel riunire insieme in consorzi obbligatori e permanenti quelle province che fossero più
affini fra loro per natura di luogo, per comunanza di interessi, di leggi, di abitudini. Ed aveva
un duplice scopo. Primieramente era questo il mezzo di recare il discentramento
amministrativo, dando a questi consorzi tali uffici che alle province disconverrebbero .....Il
quale discentramento si operava eziandio in altro modo col delegare ai funzionari governativi
della regione poteri più vasti, cosicché moltissimi affari potrebbero compiersi localmente senza
ricorrere al governo centrale. Il secondo scopo era quello che il trapasso dagli ordini presenti
agli ordini nuovi si facesse con misura e gradatamente, conciliando la unità sostanziale delle
leggi con una certa varietà accomodata alle tradizioni e alle abitudini >>.
I consorzi permanenti di province, dovevano avere autonomia di competenza nel
campo dell’istruzione e delle opere pubbliche.
Minghetti sostiene che questa sua idea fu fortemente oppugnata, poiché il
sentimento dell’unità politica era talmente dominante, da non permettere l’esame di una
proposta di sistema regionale come da lui prospettato, così
<< il progetto fu ritirato .....e la camera procedette alla unificazione la più completa e la più
rigorosa di tutti gli ordini amministrativi >>.
In effetti questo progetto era respinto poiché la maggioranza dei commissari
propendeva per regioni con attribuzioni più ampie, con possibilità di voto in materie
politiche, regioni che, a detta di Pavone, corrispondevano alle << grandi divisioni degli
Stati che con la loro fusione vennero a formare il regno italiano >>. Si trattava di
regioni con maggiori attribuzioni di quelle volute dal Minghetti, il quale era sì per
un’apertura a favore del decentramento, ma che non fosse troppo ampia.
Evidentemente, la questione del decentramento, seppur rilevante, non trovò sbocchi
concreti, ma aprì solo sterili dibattiti parlamentari e poco proficue speculazioni
dottrinali. Eppure, la speranza nelle riforme era del tutto normale, se si pensava a quelle
interne al Piemonte volute dal Cavour. Ivi infatti negli anni dopo il 1850 ( sino ad allora
pesava sul Piemonte l’arretratezza della sua amministrazione ) i codici furono riformati;
le immunità ecclesiastiche ridotte; le tariffe doganali abbassate al punto da far triplicare
il valore delle importazioni ed esportazioni tra ’50 e ’59; il Piemonte poteva vantare alle
soglie del 1860 la metà del chilometraggio ferroviario complessivo di tutta l’Italia.
Pensando a ciò Villani afferma che la migliore garanzia delle riforme era fornita dal
<< governo piemontese ormai invecchiato sulle libere istituzioni, e che andrà fuso nel
governo di tutta Italia. Le imprese più illustri sono riservate ai governi nuovi, ed ai popoli
nuovi >>.
Cavour era peraltro convinto che il progresso si potesse perseguire solo nell’ordine;
e solo grazie alle riforme si potesse resistere al socialismo. Così poteva affermare:
<< Vedete dunque, o Signori , come le riforme compiute a tempo, invece di indebolire
l’autorità la rafforzano >>.
Egli non era un democratico, ma si rendeva conto che la democrazia era a lunga
scadenza inevitabile, e per questo era pronto ad estendere il suffragio a tutti coloro che
accettassero le istituzioni costituite, pur non ravvisando alcun diritto naturale del popolo
a partecipare al governo della cosa pubblica.
Nella attività riformatrice del Piemonte si nascondevano però voci dissenzienti
poiché la Corte era ancora piena di generali reazionari d’oltralpe. Tra clericali,
reazionari e radicali fu solo il buonsenso a permettere allo Stato sabaudo di assurgere a
guida del nuovo Paese.
Cavour, come già detto, non era completamente ostile alle libertà locali, ma sapeva
anche di non poter abbandonare di colpo il passato centralista subalpino, temendo ciò
che sarebbe potuto accadere qualora fossero state messe in discussione le istituzioni
fondamentali dello Stato. Di qui il suo atteggiamento ansioso di evitare fratture con la
tradizione.
3. Accentramento e particolarismi
Il Piemonte, in quanto vero e proprio laboratorio in cui si erano sperimentate scelte
amministrative ed istituzionali diveniva un modello ispiratore per molti. Esistevano però
sistemi finanziari diversi che attendevano di essere unificati, metodi di imposizione e
contabilità differenti, città e regioni si contendevano le linee ferroviarie. Siracusa
esigeva di essere riconosciuta come capoluogo contro Noto. A Napoli, Nigra, giunto in
qualità di governatore, descriveva la situazione da lui trovata, in questo modo:
<< Si è gridato e si grida continuamente: si migliori, si semplifichi .....si reprimano le ostilità
clericali e borboniche, si organizzino i municipii .....Da altri si grida: si cammini speditamente
nella via della unificazione, si distrugga ogni vestigio di autonomia, passi al governo centrale
l’intera responsabilità e l’azione dell’amministrazione locale. Infine si dice da altri: si rispetti lo
spirito autonomistico del paese, si rispettino le tradizioni e le istituzioni locali >>.
In ciascuna delle regioni recentemente annesse erano stati danneggiati degli
interessi. Oligarchie locali erano state soppiantate da famiglie più veloci a cambiar
casacca; era grande il numero di impiegati pubblici licenziati; gli avvocati avrebbero
dovuto usare un codice che non era a loro familiare; le autorità locali sarebbero state a
disagio per la dipendenza da Torino; a Torino i ministeri centrali erano sconcertati dalla
varietà dei problemi locali; giudici e ministri sedevano nello stesso tribunale o nello
stesso gabinetto con uomini che essi stessi avevano contribuito a condannare in passato.
In Toscana nasceva un movimento antiunitario che si nutriva dell’avversione dei
gruppi democratici e reazionari verso l’accentramento unitario.
In Emilia ci furono identiche resistenze localistiche << all’ assimilazione delle
strutture legislative e amministrative delle province modenesi e parmensi >>.
In Sicilia alla vigilia del plebiscito, il 16 ottobre, Michele Amari, propose la
convocazione di un << Consiglio di siciliani >>, con membri nominati dal governo
prodittatoriale al fine di evitare elezioni ed << apparenze di costituente >>; un Consiglio
che esprimesse << i voti dell’Isola intorno all’ordinamento amministrativo da istituirsi o
piuttosto da conservarsi nella nuova condizione politica >>. La proposta che era stata
accolta dal prodittatore Mordini, fu avanzata quando i moderati, creando agitazione
contro il governo garibaldino, e inviando l’esercito piemontese verso il sud, posero tutte
le premesse per liquidare le posizioni che il movimento democratico aveva conquistato
contro i Borboni. Questa iniziativa di Amari, può essere considerata come integrativa
della linea cavouriana ( se la si considera in rapporto al tentativo del governo garibaldino
di giungere all’elezione di un’assemblea regionale ) e destinata ad agevolarne il successo
ed attenuare i risentimenti provocati dall’annessione incondizionata. L’iniziativa di
Amari, per Villari, era intimamente contraddittoria: gli stessi gruppi che rivendicavano
l’autonomia siciliana, fiduciosi nei progetti di “discentralizzazione”, avevano voluto e
preparato il plebiscito. Avevano creato, con l’annessione, le premesse per la sconfitta
della battaglia autonomistica.
Il governo garibaldino, in precedenza, aveva proposto l’elezione di un’assemblea
politica regionale, che avrebbe dovuto discutere e stabilire i modi dell’annessione, ed
aveva così offerto una nuova piattaforma allo sviluppo dell’azione per la difesa
dell’autonomia dalla Sicilia. Anche questa iniziativa, sarebbe stata coinvolta nella
sconfitta dall’alternativa democratica, insieme agli obiettivi di una guerra rivoluzionaria
fino alla liberazione di Roma e della convocazione di un’assemblea costituente
nazionale. Secondo Villari nel corso delle vicende conclusive dell’unificazione, non
mancarono tentativi di salvaguardare << le basi di un processo autonomo di sviluppo
dell’Italia meridionale >>, ma legati alle prospettive della rivoluzione democratica,
oppure espressione di interessi ed orientamenti politici se non filoborbonici, almeno
tiepidamente nazionali, suddetti tentativi furono travolti con la sconfitta del movimento
garibaldino. Avremo modo di analizzare più a fondo questo scenario nelle pagine
successive. Ora ci preme notare, con Villari, che alcuni degli stessi fautori
dall’annessione incondizionata << non accantonarono i motivi autonomistici >>. Molti
autonomisti siciliani, infatti pur aderendo all’annessione incondizionata, contavano nel
progetto di ordinamento amministrativo decentrato di Farini, di cui abbiamo parlato.
La fiducia in tale progetto era espressa in una relazione redatta dal Consiglio
straordinario di Stato per la Sicilia, in cui Amari ebbe un ruolo di spicco. In quella
relazione, il Consiglio straordinario si compiaceva delle idee espresse dal Farini e così si
esprimeva: << Usando la parola felicemente adoperata dal Farini, noi chiameremo
Regioni le grandi divisioni territoriali dell’Italia >>. Ricordava inoltre nella relazione
che l’Isola era differente per indole, usi, costumi, nonché per << le tradizioni di una
legislazione propria >>, e che tali condizioni << producono e giustificano l’antica ed
universale brama de’ siciliani alla quale si può soddisfare nell’ordinamento regionale
>>; richiedeva che le Regioni si occupassero dei << propri negozi loro >>, quelli che
non interessassero << la grande associazione dello Stato ......né le minori che si
addimandano Province e Comuni >>; proponeva ancora libertà delle Province dalla
Regione, pur ogni provincia guadagnando dall’associazione con le altre nella Regione la
possibilità << per soddisfare a tanti bisogni a’ quali non basterebbe da sé sola >>.
Il Consiglio sosteneva che non potesse considerarsi offeso l’interesse delle
province se << degli affari regionali si occupavano deputati eletti dalle province stesse,
né poteva offendersi il potere centrale dello Stato, se venivano ad esse tolte attribuzioni
regionali >>. Ma il punto più interessante è proprio quello delle attribuzioni regionali, le
quali
<< dar si dovrebbero alle autorità regionali, in vece del potere centrale che le esercita in
Francia o nei reami .....come furono gli Stati d’Italia scomparsi adesso nell’Unità
.....attribuzioni, diciamo noi lungi dal rinvigorire i poteri dello Stato, sia il legislativo, sia
l’esecutivo, li impacciano entrambi >>.
Il Parlamento italiano ne avrebbe guadagnato, perché gli interessi locali lo
avrebbero riempito di << avvocati de’ Comuni e delle Province anziché rappresentanti
genuini della volontà del popolo >> e lo avrebbero distolto dalla sua << più alta
missione >>.
Si chiedeva rappresentanza regionale elettiva, sulla base circoscrizionale prevista
per i deputati al parlamento ( 1 per 50.000 abitanti ) e con elezione diretta, anziché i tre
deputati per provincia eletti indirettamente tramite i Consigli provinciali come proposto
dalla Commissione di Torino. Ciò per eliminare la disuguaglianza nelle decisioni su
interessi comuni ( mancando la proporzione tra deputati e popolazioni delle province ).
Si richiedeva pieno potere dell’autorità regionale sull’istruzione pubblica, salvi il
diritto supremo dello Stato, delle Province, dei Comuni, e dei privati ( così da far
intervenire le regioni in caso di carenze delle province anche nella istruzione primaria e
secondaria ). La Commissione torinese era invece per attribuzioni solo agli Istituti di
istruzione pubblica superiore, Università ed Accademie di belle arti, e per Province e
Comuni attribuzioni limitate alla istruzione primaria e secondaria.
Si richiedevano maggiore libertà ai Comuni e riforme nella elezione dei sindaci e
nel numero delle sessioni ordinarie dei Consigli comunali (non più due all’anno, ma una
al mese).
La Relazione considerava anche l’inopportunità di applicare i dazi dell’alta Italia
poiché i redditi delle classi medie ed infime in Sicilia, e la scarsezza di capitali li
rendevano iniqui.
Come si può intendere, nessun governo poteva riuscire a placare tanti interessi
contrastanti e non c’era tempo per essere del tutto coerenti, così se da un lato si
prometteva decentralizzazione, dall’altro si attuava una maggiore centralizzazione.
Così i pubblici impiegati, vecchi e nuovi, quelli di Francesco di Borbone e quelli di
Garibaldi dovevano essere conservati in carica malgrado i costi, anziché essere sostituiti.