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raccomandazioni agli Stati membri, perché siano questi ultimi a
intraprendere adeguate misure collettive.
In ciò si evidenzia come il ruolo degli Stati membri sia affiancato a quello
dell’Organizzazione. La Carta delle Nazioni Unite è infatti un trattato
sottoscritto da Stati, che si impegnarono a perseguire obiettivi comuni, ma
non ne ha affatto deciso l’estinzione quali indipendenti soggetti di diritto
internazionale. Essi anzi continuano a rivestire una posizione di primo
piano, non subordinata gerarchicamente a quella dell’Organizzazione, che
ad essi si affianca, oltre ad essere da essi costituita.
Questa configurazione dei rapporti tra Stati e Organizzazione ha importanti
conseguenze proprio nell’ambito degli sforzi per la realizzazione della
pace.
Con l’avvento della Carta, il Capo VII ha contrapposto al ricorso
individuale all’uso della forza una nuova garanzia dei diritti degli Stati.
Tuttavia solo il corretto funzionamento del sistema di sicurezza è in grado
di conferire effettività a tale garanzia, e a questo si giunge solo qualora si
realizzi l'accordo tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Essi,
secondo la Carta2 devono tutti votare a favore della decisione da prendere.
Secondo la prassi consolidatasi, tuttavia, il cosiddetto diritto di veto dei
membri permanenti si manifesta solo attraverso il loro voto contrario,
mentre la semplice astensione non impedirebbe di prendere una decisione,
con il voto favorevole di nove membri del Consiglio di Sicurezza.
2
Articolo 27: “Le decisioni del Consiglio di Sicurezza su ogni altra questione
[rispetto a quelle di procedura] sono prese con un voto favorevole di nove
membri, nel quale siano compresi i voti dei membri permanenti”.
3
Vi è poi l’Articolo 513, che ritaglia lo spazio per la legittima difesa, nel
caso di attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite; ma tale
previsione trova applicazione solo “fintantoché il Consiglio di Sicurezza
non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza
internazionale”.
Alla luce di queste considerazioni è quindi valutabile l’atteggiamento
tenuto dagli Stati Uniti prima della seconda guerra del Golfo, quando
decisero di intervenire militarmente in Iraq, a scopo latamente difensivo e
al di fuori del sistema di sicurezza collettiva. È allora interessante notare
che non si trattò propriamente di un caso di mancata autorizzazione
all’utilizzo della forza, quanto piuttosto di una mancata domanda di
autorizzazione ad agire. Una scelta probabilmente preferita, per ragioni di
politica estera, piuttosto che come soluzione giuridicamente più
accettabile, di fronte al rischio (o, meglio, alla certezza) di trovarsi ad agire
nonostante il contrario avviso del Consiglio di Sicurezza. Un successivo
intervento delle Nazioni Unite, configurabile come costruzione della pace,
necessita dunque, per quella situazione, di un’attenta analisi del ruolo
rivestito da ciascun soggetto internazionale coinvolto.
Un’analisi di tal tipo è tuttavia sempre auspicabile, per quanto complessa.
Se le vicende del 1990/914 hanno infatti precisato come il nuovo ordine
nato dal crollo del muro di Berlino sarebbe stato un ordine internazionale a
3
“Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di
legittima difesa individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco
armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di
Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la
sicurezza internazionale.”
4
Laura Picchio Forlati, Le Nazioni Unite (a cura di), G. Giappicchelli Editore,
Torino 2000; pag. 47
4
guida unitaria assicurata da una particolare potenza, gli eventi del nuovo
millennio hanno parzialmente scosso gli equilibri internazionali, forse
anche il valore dell’Articolo 2 paragrafo 45, e certo l’autorevolezza delle
Nazioni Unite. Esse tuttavia continuano ad essere guardate come il
possibile deus ex machina che ponga fine nel migliore dei modi possibili a
vicende tormentate, che sembrano non trovare altrimenti una soluzione.
In effetti, non è affatto presentando un quadro desolante, rispetto agli
obiettivi posti, che si descrive nel modo più corretto l’attività
dell’Organizzazione: sebbene si sia ben lungi da un Governo mondiale,
l'Articolo 1 paragrafo 4 della Carta attribuisce alle Nazioni Unite il ruolo di
centro per armonizzare l'azione degli Stati membri nel perseguimento dei
fini di cui si è detto. Si tratta di un ruolo umile dell’Organizzazione,
un’ammissione della sua impossibilità di agire senza gli Stati, ai quali
l’apparato si affianca; ciò nondimeno è un riconoscimento della centralità
dell’Organizzazione, strumento, della cui capacità gli Stati si servono per
promuovere i propri fini, così come espressi dalla Carta, e quindi almeno
nella misura in cui i fini degli Stati coincidano con quelli delle Nazioni
Unite.
Le potenzialità del sistema in tal senso sono emerse in misura notevole
specialmente dopo il crollo del muro di Berlino, che ha segnato la fine del
ricorso sistematico al veto in seno al Consiglio di Sicurezza, aprendo così
la strada ad azioni collettive dell’Organizzazione. Esse, infatti, non
5
“i Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o
dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di
qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle
Nazioni Unite.”
5
avevano trovato applicazione in tanto in quanto potevano comportare
l’utilizzo della forza e dunque avrebbero richiesto un’autorizzazione che il
Consiglio, paralizzato nel suo funzionamento, non era in grado di
concedere. Erano praticabili solo soluzioni che non implicassero l’utilizzo
della forza militare. Esse potevano essere così sviluppate al di fuori del
sistema di sicurezza: in quest’ambito nacque il peacekeeping, che ha base
consensuale.
I cambiamenti degli anni Novanta hanno portato alla rinascita
dell’Organizzazione nel senso che hanno posto fine al ricorso sistematico
al diritto di veto. Sono stati legati anche a una generale rinascita, rispetto al
passato, delle relazioni e delle organizzazioni internazionali a diversi
livelli6.
Di come nel 1990 si fosse intuita la portata del grande cambiamento in atto
e la sua influenza sull’attività dell’Organizzazione, sono significative
testimonianze le prefazioni agli annuari delle Nazioni Unite del 1990 e
1991, preparate rispettivamente da Javier Pérez de Cuéllar e Boutros
Boutros-Ghali, entrambi Segretario Generale in carica all’epoca della
pubblicazione7.
Per il primo, il 1990 segna uno spartiacque nella storia delle Nazioni Unite,
con la fine della Guerra Fredda a indicare una significativa opportunità per
l’Organizzazione di affrontare nuovi compiti e nuove sfide, alcuni senza
precedenti.
6
Laura Picchio Forlati, Le Nazioni Unite (a cura di) G. Giappicchelli Editore,
Torino 2000; pag. 46
7
La pubblicazione degli Yearbooks avviene, di regola, l’anno successivo a quello
considerato.
6
Boutros-Ghali continua su quella medesima traccia, dichiarando che il
1991 vide la definitiva fine della Guerra Fredda e dell’era del bipolarismo.
Al tempo stesso constata come un nuovo spirito di speranza e di fiducia
nella rilevanza di un’azione comune cominciasse a prendere forma. Uno
dei segni più chiari del cambiamento, afferma, era il chiaro consenso tra gli
Stati che fosse giunta l’era delle Nazioni Unite. Le Nazioni Unite, infatti, si
scoprirono improvvisamente libere dalla paralisi della lotta tra i due
blocchi, mentre il mondo guardava all’Organizzazione come mai prima di
allora. Ad essa veniva richiesto in modo crescente di portare avanti e di
realizzare la storica missione della Carta: “that of guardianship of peace
and hope.”
Furono queste premesse a spingere il Segretario Generale a redigere, nel
1992, l’Agenda for Peace, al cui interno trova per la prima volta menzione
il termine peace-building.
La maggior parte delle riflessioni sul peace-building come concetto nuovo
e sulle prospettive delle operazioni di pace in generale si sono in effetti
sviluppate proprio a partire dal 1992.
Secondo la nuova visione storica, la missione delle Nazioni Unite deve
andare al di là delle tradizionali missioni di peacekeeping e peace
enforcement.
Il fallimento di alcuni Stati, caratterizzato dallo sfasciarsi delle strutture
democratiche e dal regresso dell'economia in molti casi al di sotto delle
soglie dell’autosufficienza sono, secondo l'Agenda, stati le conseguenze
della guerra tra etnie e tra tribù, divampata con forza dirompente allo
sgretolarsi delle ideologie che l’avevano mascherata. In questo scenario il
7
peace-building è indissolubilmente legato allo scopo di ricostruire degli
Stati, fermare la rovina delle istituzioni e quindi promuovere i concetti di
rule of law e good governance.
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2-Il peace-building e gli altri tipi di azioni collettive delle Nazioni Unite
Le operazioni per la costruzione e il mantenimento della pace delle
Nazioni Unite comprendono quattro principali attività: la prevenzione dei
conflitti e il peacemaking; il peacekeeping; il peace-building. Apparsa per
ultima rispetto alle altre, l’attività di peace-building può essere compresa in
modo completo solo in un’ottica di confronto e interazione con le altre
tipologie di presenza collettiva.
Come ottimamente sintetizzato nel rapporto Brahimi, di cui infra, la
prevenzione a lungo termine dei conflitti è indirizzata alle fonti strutturali
di scontro, al fine di costruire un solido fondamento per la pace. Il
peacemaking è rivolto invece a conflitti tra Stati, nel tentativo di fermarli
attraverso l’utilizzo degli strumenti della diplomazia e della mediazione. Il
termine peacemaking, spesso misinterpretato, non si riferisce quindi all’uso
della forza militare. Per questo motivo viene considerato, assieme alla
prevenzione dei conflitti, nell’ottica del Capo VI della Carta delle Nazioni
Unite.
Il peacekeeping è invece un’operazione di pace, la quale ha luogo solo
dopo che un cessate il fuoco è stato già raggiunto tra le parti combattenti.
Nel Supplemento all’Agenda for Peace, del 1995, l’allora Segretario
Generale Boutros-Ghali spiega: “tre principi particolarmente importanti
sono il consenso delle parti, l’imparzialità, e il non uso della forza se non
per legittima difesa.” È un tipo di iniziativa che, pur non trovando esplicita
menzione nella Carta, perdura da un cinquantennio, lungo un cammino
intrapreso per primo da Hammarskjöld nel 1956 con l’UNEF I. Tuttavia il
peacekeeping si è evoluto con accelerazione crescente nell’ultimo decennio