I
Introduzione
Questo lavoro si propone di analizzare l’atteggiamento che il Partito Comunista Italiano
ha mantenuto nei confronti del processo di democratizzazione avviato dal regime
comunista in Cecoslovacchia agli inizi del 1968, noto come la “Primavera di Praga”, e
la risposta del PCI all’intervento militare dell’Unione Sovietica e degli altri paesi del
Patto di Varsavia che nell’agosto dello stesso anno pose fine al tentativo riformatore.
Ho tentato di approfondire in particolare le ripercussioni che questo evento ha avuto sui
rapporti tra il PCI e lo “storico” alleato sovietico attraverso lo studio e l’analisi degli
articoli e degli editoriali apparsi sul quotidiano del PCI tra il 1968 e il 1969. «L’Unità»
infatti costituisce un osservatorio privilegiato per comprendere le dinamiche interne al
partito e le conseguenti prese di posizione pubbliche di quei mesi.
Il progetto di esaminare questa fase della storia del PCI nasce dalla consapevolezza
dell’importanza che gli avvenimenti cecoslovacchi del 1968 hanno avuto per il
principale partito comunista dell’Europa occidentale. Testimonianza di ciò è anche
l’intenso dibattito storico e politico che si è sviluppato in Italia nel 2008 in occasione
del quarantesimo anniversario della Primavera di Praga con l’organizzazione di
numerosi convegni. Significativo, in questo senso, l’incontro-dibattito organizzato dalla
Fondazione della Camera dei Deputati alla presenza del Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano, uno dei protagonisti delle vicende di quei mesi in quanto dirigente
di primo piano del PCI
1
. Napolitano stesso nella sua autobiografia politica ricorda come
le scelte compiute dai comunisti italiani, in seguito alla brutale repressione nei confronti
della Primavera di Praga, hanno modificato in maniera irreversibile il rapporto con il
PCUS e posto fine all’illusione di una possibilità di riforma dei paesi del “socialismo
reale”
2
. Con il mio studio ho cercato di mettere a fuoco questo passaggio cruciale per il
PCI in quanto esso ha costituito un punto di arrivo di un processo di evoluzione della
politica del partito all’interno del movimento comunista internazionale, iniziato alla fine
degli anni Cinquanta, ma che, allo stesso tempo, ha rappresentato un primo passo verso
l’acquisizione di una maggiore autonomia politica ed economica dall’URSS che sarebbe
maturata pienamente durante la segreteria di Berlinguer con l’esperienza, se pur di
1
AA.VV. Eredità ed attualità della Primavera cecoslovacca, Fondazione della Camera dei Deputati,
Roma 2009.
2
G. Napolitano, Dal PCI al socialismo europeo: un’autobiografia politica, Laterza, Roma 2005, p. 112.
II
breve durata, dell’ “eurocomunismo” e in seguito nello “strappo” con Mosca verso la
fine degli anni Settanta.
Nel primo capitolo ho cercato di contestualizzare la “Primavera di Praga” all’interno di
un anno denso di avvenimenti come il 1968, dando un quadro sintetico dello sviluppo
del movimento di protesta giovanile che ebbe origine negli Stati Uniti dalla protesta
contro la guerra del Vietnam. Approdato in seguito in Europa, esso assunse un carattere
decisamente più “politico” e orientato verso una rivolta di tipo generazionale contro le
istituzioni politiche, scolastiche, universitarie, sociali come la famiglia. L’influenza del
movimento del Sessantotto non si limitò però solo all’America e all’Europa occidentale,
ma si fece sentire, in forme diverse, anche oltre la cortina di ferro, come nel caso della
Polonia. In questo senso non si deve sottovalutare il ruolo del mondo intellettuale, in
particolare degli scrittori, e giovanile nella nascita e nello sviluppo della Primavera di
Praga. L’abolizione della censura diede vita infatti ad un intenso dibattito politico e
culturale di cui l’intellighenzia e gli studenti universitari furono protagonisti. Nella
seconda parte del capitolo, dopo un breve excursus sulla nascita del regime comunista
cecoslovacco nel 1948, ho ripercorso gli eventi che dai processi politici del periodo
stalinista portarono il paese sotto una cappa di rigido controllo imposta dal regime di
Novotný, che per più di un decennio conservò il doppio incarico di Presidente della
Repubblica e segretario del Partito Comunista Cecoslovacco, dimostrando un
atteggiamento di rifiuto verso ogni apertura in senso riformistico. Queste furono le
premesse che, all’inizio del 1968, portarono allo svilupparsi della Primavera di Praga
con l’elezione di Alexander Dubček a segretario del PCC, guida di un nuovo gruppo
dirigente riformista che diede una scossa ad un paese intorpidito da anni di regime.
Nella parte conclusiva del capitolo ho seguito il percorso irto di ostacoli dell’azione
riformatrice che coinvolse diversi ambiti: da quello economico, con la ricerca di una
“terza via” tra il mercato e la pianificazione centralizzata, all’introduzione di una
maggiore trasparenza nella gestione del governo e del partito anche grazie alla libertà di
stampa, fino alle aperture in politica estera soprattutto verso la Germania Occidentale.
Dopo una lunga fase di trattative e scontri con la dirigenza cecoslovacca i sovietici il 21
agosto del 1968 poserò fine a questa breve stagione di riforme occupando militarmente
il paese, con il pretesto di fermare un inesistente tentativo “controrivoluzionario”. A
spingere in realtà Breţnev e la dirigenza sovietica fu il timore che il processo
III
riformistico cecoslovacco potesse influenzare e diffondersi negli altri paesi del blocco e
portarli ad un progressivo distacco da Mosca. Nei mesi seguenti la “normalizzazione”
del paese, con la progressiva esclusione dei protagonisti della Primavera, pose fine alle
speranze che questa breve stagione aveva suscitato, dimostrando l’impossibilità di
autoriformarsi del mondo comunista. Gli storici hanno poi individuato nella Perestrojka,
tardivo tentativo di riformare quel mondo, molte similitudini con la Primavera di Praga.
Nel secondo capitolo ho cercato di delineare lo svilupparsi della politica interna ed
estera del PCI nel corso degli anni Sessanta, attraverso l’ultima fase della segreteria di
Palmiro Togliatti, leader storico del partito, e del suo successore Luigi Longo. Dopo il
celebre “rapporto segreto” di Chruščëv al XX congresso del PCUS nel 1956, e l’avvio
della conseguente politica di “destalinizzazione”, anche il PCI si vide costretto ad
avviare una riflessione sulle proprie posizioni politiche, a partire dalla celebre intervista
di Togliatti alla rivista «Nuovi Argomenti». Tuttavia la crisi ungherese del 1956 portò il
partito a serrare le fila e a schierarsi nettamente a fianco dell’URSS, limitando per
alcuni anni il dibattito sulle problematiche interne al mondo comunista. A partire dai
primi anni Sessanta ci fu però la spinta da parte del leader comunista verso la
riaffermazione di alcuni concetti cardine che costituivano la base dell’azione del partito
e che si ritrovano nel “Memoriale di Yalta”, il testamento politico redatto nel 1964
pochi giorni prima della sua morte. Innanzitutto si ribadiva la necessità per ogni paese o
partito comunista di trovare la propria “via nazionale al socialismo”, che nel caso del
PCI si connotava come una “via italiana democratica e parlamentare”. In secondo luogo
la possibilità di esprimere opinioni diverse all’interno del movimento comunista,
salvaguardandone allo stesso tempo la compattezza, raggiungere cioè l’“unità nella
diversità”. Infine il PCI avviò con Togliatti un percorso nuovo in politica estera,
proseguito sotto la segreteria di Longo, basato su una maggiore intraprendenza e
autonomia dal PCUS e su una nuova forma di organizzazione, di tipo “policentrico”, del
movimento comunista che implicava la possibilità di creare dei raggruppamenti di
partiti o stati comunisti su base regionale. Il tentativo di creare un nuovo più stretto
rapporto di collaborazione con altri partiti comunisti, in particolare con quelli
dell’Europa occidentale, fu una costante del PCI lungo tutto il decennio, ma implicava il
rifiuto netto dell’esistenza di un partito o “stato guida” all’interno del movimento
comunista internazionale ed entrava in aperto conflitto con la posizione sovietica. Negli
IV
stessi anni il PCI di Togliatti e Longo dovette affrontare in politica interna una fase
difficile nel rapportarsi con la nuova alleanza di centro-sinistra tra DC e PSI, verso cui i
comunisti in un primo momento mantennero un atteggiamento di prudenza, ma che in
seguito divenne fortemente critico, anche a causa del fallimento di questa esperienza di
governo.
Analizzando le dinamiche interne al partito ho potuto verificare come dopo la morte di
Togliatti si aprì una discussione molto vivace che sarebbe culminata nell’ XI congresso
con lo scontro tra la “sinistra” di Ingrao e la “destra” di Amendola, mentre Longo e
Berlinguer cercavano un difficile punto di mediazione.
Negli anni che precedettero gli accadimenti cecoslovacchi i rapporti tra PCI e sovietici
si fecero progressivamente più complicati, viste le differenze di carattere strategico.
Nelle frequenti riunioni preparatorie in vista di una Conferenza mondiale dei partiti
comunisti emerse nel PCI la figura e la capacità di leadership di Berlinguer, che si
dimostrò l’unico dirigente, dopo Togliatti, in grado di trattare alla pari con i sovietici.
Questo lungo percorso politico compiuto dal comunismo italiano in un decennio,
avrebbe poi trovato il suo sbocco coerente nell’atteggiamento assunto nei confronti
della Primavera di Praga.
Nel Terzo e ultimo capitolo, attraverso le pagine de «l’Unità», ho cercato di esaminare
mese per mese l’atteggiamento del PCI verso la Primavera di Praga e di coglierne
l’evoluzione. La lettura del quotidiano mi ha fornito un quadro completo non solo
grazie ai resoconti ed agli editoriali degli inviati a Praga, ai documenti e comunicati
ufficiali del partito pubblicati, ma ho potuto individuare alcuni dei passaggi più critici
per il PCI, anche attraverso quelle notizie che vennero pubblicate in maniera parziale o
in modo tale da minimizzarne la portata, o ancora riportate in maniera testuale senza
nessun commento.
Nel PCI dopo una fase iniziale di prudente interesse nei confronti del “nuovo corso”
cecoslovacco, in particolare nel corso del mese di marzo, andò maturando la scelta di
appoggiare con convinzione l’azione di Dubček e dei riformatori. I motivi di questa
decisione erano anche di carattere interno: il segretario Longo riaffermò più volte che il
modello di socialismo portato avanti dal PCC con le misure di rinnovamento e
democratizzazione era molto simile a quello che da tempo i comunisti italiani andavano
perseguendo, e comunque rispecchiava il diritto di ogni paese di tracciare la propria via
V
al socialismo. Gli avvenimenti della Primavera potevano quindi dare più forza anche
alla via italiana al socialismo. Testimonianza dell’intesa politica tra i due gruppi
dirigenti e momento di massimo appoggio all’azione di rinnovamento, furono i mesi di
aprile e maggio con l’intervista di Dubček all’Unità, la prima concessa ad un giornale
straniero, e la scelta “irreversibile” del PCI di schierarsi a favore del nuovo corso con la
visita di Longo a Praga, proprio nel momento culmine della campagna elettorale per le
elezioni politiche italiane. Il periodo più critico per il PCI fu quello dei mesi che
precedettero l’invasione sovietica, in cui si tentò a lungo, attraverso «l’Unità», di
minimizzare lo scontro in atto tra Cecoslovacchia e URSS, mentre emergevano
all’interno del partito alcune differenziazioni. Non tutti i dirigenti infatti erano così
convinti della capacità da parte dei leader cecoslovacchi di mantenere il controllo della
situazione, e anche nella base del partito emergevano posizioni filosovietiche.
Nonostante i dubbi e un certo imbarazzo il PCI non arretrò dalle sue posizioni, facendo
chiaramente comprendere ai sovietici la sua netta contrarietà ad un intervento militare.
Al momento dell’invasione il partito si trovò davanti ad uno dei passaggi più critici
della sua storia, per alcuni dirigenti fu un momento traumatico, per la prima volta il
partito espresse pubblicamente il suo «grave dissenso e la riprovazione» nei confronti di
Mosca. L’evoluzione politica degli anni precedenti portò quindi a quella che, pur con
tutti i limiti e le incertezze, specialmente nella successiva fase della normalizzazione,
può essere definita come una prima “svolta”, un passaggio storico per il partito. Tra il
1968 e il 1969 in vari incontri il PCUS cercò con forti pressioni di convincere il PCI a
riallinearsi sulle proprie posizioni e in particolare ad accettare la “dottrina Breţnev”
sulla sovranità limitata dei paesi e dei partiti comunisti e di conseguenza la
normalizzazione della Cecoslovacchia. A differenza della maggior parte dei partiti
comunisti occidentali, che, dopo il dissenso iniziale, nel corso dei mesi andarono
riallineandosi progressivamente sulle posizioni di Mosca, il PCI riuscì a mantenere un
certo grado di autonomia e a far accettare alla dirigenza sovietica questa situazione,
senza peraltro, occorre ribadirlo, giungere ad una rottura netta.
1
1. Il Sessantotto e la Primavera di Praga
1.1 Il 1968 in Europa.
Il 1968 fu un anno denso di avvenimenti che avrebbero avuto conseguenze importanti
non solo sui mesi seguenti ma su tutto il decennio successivo. Il mondo dovette
imparare a convivere con gli “eventi globali”, singoli episodi, le cui conseguenze per la
loro portata politica e sociale non potevano restare confinate all’interno di un singolo
Stato, ma finivano per interagire con la vita di milioni di persone su tutto il pianeta.
Le premesse per gli accadimenti del 1968, soprattutto per la nascita dei grandi
movimenti di protesta giovanili, si erano già poste negli anni precedenti, negli Stati
Uniti, con le prime grandi manifestazioni studentesche
3
contro il crescente impegno del
paese nella guerra del Vietnam. Proprio sul fronte della guerra nel Sud-Est asiatico il
1968 si rivelò come uno degli anni più duri del conflitto. Il 31 gennaio la guerriglia
vietnamita aveva lanciato infatti la grande offensiva del Tet (dal nome del capodanno
buddista) che aveva messo in notevole difficoltà l’imponente apparato militare schierato
dagli USA portando ad un’ulteriore escalation del conflitto. Senza dimenticare episodi
come il massacro di civili compiuto da militari americani a My Lay il 16 marzo
4
, la cui
notizia, oltre a provocare l’indignazione del mondo intero, accrebbe l’opposizione alla
guerra dell’opinione pubblica americana tanto che il presidente Johnson a fine marzo
decise la sospensione dei bombardamenti e contemporaneamente annunciò la sua
intenzione di non ripresentarsi alle elezioni di novembre, che vedranno la vittoria del
repubblicano Nixon.
Ma gli Stati Uniti, nella prima parte dell’anno, furono sconvolti anche dalla lotta per i
diritti civili della popolazione di colore che si andò ben presto a congiungere ai
movimenti studenteschi contro la guerra del Vietnam, provocando numerosi scontri
nelle principali città del nord. Così il 4 aprile quando venne assassinato Martin Luther
King, guida del movimento dei neri che lottavano contro la discriminazione razziale, la
3
Il primo episodio può essere considerato l’occupazione del campus universitario di Berkeley, sede
dell’università della California il 20 novembre 1964, a cui seguirà cinque mesi dopo, il 17 aprile 1965, a
Washington la prima manifestazione contro il crescente impegno militare degli USA in Vietnam.
4
O. Bergamini, Specchi di Guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi, Laterza, Roma-
Bari, 2009.
2
rivolta dilagò a New York, Chicago, Detroit e Washington dove l’esercito dovette
intervenire a difesa della Casa Bianca. Il bilancio di questi scontri sarà pesantissimo.
Questo però non fu l’unico assassinio “politico” in quell’anno negli USA, il 5 giugno
durante un comizio venne infatti ucciso Robert Kennedy, candidato democratico alle
elezioni presidenziali che era sceso in lizza il 14 marzo contro Johnson, con un suo
preciso impegno pacifista: far cessare la guerra in Vietnam. Anche su questo omicidio,
come già su quello del fratello, il presidente degli Stati Uniti John Kennedy nel 1963,
ancora oggi non è sta fatta piena luce
5
. Il movimento di rivolta sviluppatosi in America,
amplificato da questi tragici avvenimenti di inizio ’68, era il primo nella storia mondiale
con una chiara matrice generazionale, una rivolta dei giovani contro la guerra del
Vietnam voluta dai “grandi” ed imposta alle nuove generazioni con la coscrizione
obbligatoria. Una rivolta contro il potere in mano a una gerontocrazia, ma anche un
movimento la cui dimensione esistenziale si fondava sulla libertà intesa come
trasgressione e assenza di regole. Il ’68 infatti fu anche una rivoluzione sociale e
culturale, al cui interno confluirono tante spinte diverse, dalla lotta contro le
discriminazioni razziali a una maggiore libertà sessuale degli individui, fino alle
avanguardie dei movimenti femminista e omosessuale che si svilupperanno nei decenni
successivi. La protesta giovanile inoltre si legò a quelle filosofie che esprimevano un
rifiuto radicale dei principi della società capitalista e consumistica, nata con la crescita
economica che proprio alla fine degli anni Sessanta andava esaurendo la sua spinta
propulsiva; i giovani con i loro gusti e le loro mode (i jeans, la musica, il cinema)
proponevano una vera e propria “controcultura” che influenzò profondamente negli anni
seguenti quella stessa economia di mercato che essi rifiutavano
6
.
Questi movimenti giovanili di protesta già dai primi mesi del ’68 finirono per contagiare
l’Europa che divenne, proprio in quella primavera, il centro di rivolte caratterizzate da
scontri molto violenti con la polizia e le autorità statali
7
. In Europa infatti il movimento
si presentò con caratteristiche diverse da quello americano: negli USA l’elemento
cardine era il rifiuto della guerra del Vietnam, quindi il “pacifismo” era alla base dei
grandi raduni oceanici, tanto che l’immagine forse più nota della protesta fu il più
5
Ibid.
6
M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, Il Mulino, Bologna, 2003.
7
G. De Luna, Il 1968, in A. Agosti, Enciclopedia della sinistra Europea nel XX secolo, Editori Riuniti,
Roma 2000, pp. 768 – 777.
3
grande raduno per un concerto rock degli anni Sessanta che si tenne in una immensa
fattoria nei pressi di Woodstock nell’agosto del 1969. La manifestazione verrà ricordata
come una “tre giorni di pace, amore e musica
8
” concetto che riassume bene il
movimento dei giovani hippy
9
americani; i movimenti giovanili europei invece, pur
presentando alcuni tratti simili per quanto riguarda i costumi e le mode, erano
profondamente diversi, sicuramente più “politicizzati” e orientati a sinistra, ma non
certo la sinistra tradizionale rappresentata dai partiti comunisti dell’Europa occidentale
o dai partiti socialdemocratici, in quanto si trattava di movimenti di ispirazione marxista
e rivoluzionaria che puntavano nel loro idealismo a un reale sovvertimento delle
gerarchie esistenti e alla creazione di una “nuova società” i cui caratteri rimanevano
però alquanto vaghi e indistinti.
I modelli di queste nuove generazioni di giovani europei erano vari ma con aspetti in
comune: c’era la Cina comunista di Mao, con la sua “rivoluzione culturale” che proprio
nel ’68 raggiunse il suo apice, un comunismo che dal suo interno era capace di rimettere
in discussione assetti di potere e rendite di posizione e quindi molto diverso da quello
sovietico che veniva visto come immobilizzato nel suo dogmatismo rigido e finalizzato
al semplice esercizio del potere (da qui nascevano le incomprensioni con i partiti
comunisti occidentali); c’era quindi maggiore attenzione e interesse verso quei nuovi
modelli di comunismo che venivano visti come autenticamente rivoluzionari o che, a
differenza di quello sovietico, non avevano perso la loro spinta rivoluzionaria.
Il concetto di organizzazione politica come “movimento permanente” e allo stesso
tempo di “conflitto permanente” rientra in questo modo di intendere l’impegno civile, e
non è quindi un caso che gli studenti europei adottarono la figura del rivoluzionario
argentino Ernesto Che Guevara come simbolo di questa concezione della politica.
Guevara, dopo essere stato uno dei protagonisti della rivoluzione cubana del 1959,
aveva intrapreso la carriera di ministro sotto il potere castrista; dopo qualche tempo,
però, deluso da questa esperienza, aveva ripreso le armi. Ritornato all’attività di
guerrigliero aveva cercato di ampliare la rivoluzione ad altri paesi dell’America Latina,
dominati dall’imperialismo americano, con l’obbiettivo di “creare due, tre…molti
8
Titolo del film documentario dell’evento, il titolo completo è Woodstock -Tre giorni di pace amore e
musica, regia di Michael Wadleigh, USA 1970.
9
Parola in gergo che vuol dire letteralmente “uno che ha mangiato la foglia”, in seguito ribattezzati “figli
dei fiori”, poiché la loro unica arma erano appunto i fiori.
4
Vietnam” secondo lo slogan da lui lanciato pochi mesi prima di venir ucciso il 9 ottobre
del 1967, in Bolivia, dall’esercito regolare e alla vigilia di quel movimento sessantottino
europeo che avrebbe fatto della sua figura idealizzata di rivoluzionario romantico e on
the road un’icona del mondo giovanile
10
. Altro punto di riferimento per i protagonisti
delle manifestazioni del ’68 era indubbiamente il Vietnam di Ho Chi Minh, che con un
esercito di guerriglieri stava tenendo in scacco la grande superpotenza imperialista; ma
mentre in America si contestavano le ragioni, ritenute sbagliate o inesistenti, della
guerra, in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, membri con gli Stati Uniti della
NATO, si svolgevano imponenti manifestazioni di giovani che parteggiavano
apertamente per i vietnamiti contro gli USA. Ma non solo, mentre alcuni partiti
comunisti, in particolare quello francese, pur appoggiando pubblicamente la lotta
vietnamita, dietro le quinte seguivano la linea sovietica, a favore della fine della guerra
e di una pace negoziata che riconoscesse il regime di Hanoi, i gruppi più intransigenti
del movimento trotskisti, maoisti e anarchici sostenevano che la guerriglia dovesse
continuare con l’appoggio cinese fino alla sconfitta definitiva del Vietnam del sud.
Grande influenza, soprattutto sui giovani ebbero le opere di pensatori marxisti, non
comunisti, come Herbert Marcuse, appartenente alla cosiddetta Scuola di Francoforte,
un filone di pensiero che si era dedicato all’analisi e alla critica della società di massa. Il
filosofo tedesco alla critica di una società caratterizzata da opulenza, consumismo e
etica borghese del potere, affiancava un giudizio pessimistico sulle capacità
rivoluzionarie della classe operaia che riteneva ormai integrata in un sistema di potere
(tanto in occidente quanto ancor più nell’est europeo) e guardava al mondo degli
emarginati delle grandi metropoli e soprattutto alla vitalità dei popoli del Terzo Mondo
come unica possibilità di trasformazione rimasta.
L’episodio più noto del ’68 europeo si verificò nella Francia del “maggio”, anche se si
sviluppò in un arco di tempo abbastanza breve e si andò esaurendo altrettanto
velocemente in giugno. In poco più di un mese di manifestazioni e aspri scontri nei
quartieri parigini si sfiorò una vera e propria crisi nazionale; il “maggio francese” si
caratterizzò infatti per la sua violenza e perché ad un certo punto assunse caratteri quasi
di insurrezione contro lo Stato e il governo del generale De Gaulle presidente della
Repubblica e del suo primo ministro Georges Pompidou.
10
G. De Luna, Il 1968, in A. Agosti, Enciclopedia della sinistra Europea nel XX secolo, Editori Riuniti,
Roma 2000.
5
La protesta prese il via nei mesi precedenti e partì anche qui dal mondo della scuola e
dell’università. Essa ebbe origine dall’approvazione di un piano governativo di riforma
che prevedeva la razionalizzazione delle strutture scolastiche, mirante a renderle più
rispondenti alle esigenze dell’industria. La risposta da parte delle masse studentesche
contro lo spirito tecnocratico della riforma fu immediata, gli studenti decisero di
occupare l’università di Nanterre, la protesta si allargò rapidamente e il 22 marzo si
ebbero le prime grandi manifestazioni con gravi incidenti e feriti tra gli studenti e le
forze dell’ordine. Il 2 maggio l’università di Nanterre occupata dagli studenti viene
chiusa, il giorno successivo nel Quartiere latino di Parigi, che sarebbe divenuto uno dei
luoghi simbolo del maggio francese, si verificarono violenti scontri e si innalzarono le
prime barricate. Le giornate più calde furono quelle del 10 e 11 maggio, quando le
autorità decisero lo sgombero forzato dell’università della Sorbonne occupata dagli
studenti. L’intervento della polizia si rivelò però un grave errore infatti gli studenti,
prima asserragliati nelle singole facoltà, successivamente si riversarono nelle piazze e
nelle strade in numero sempre maggiore, e nell’assalto al Quartiere latino chiuso dalle
barricate si verificarono gli scontri più gravi.
Nel frattempo la sinistra “ufficiale” rappresentata dai partiti in parlamento, tra cui il più
consistente elettoralmente era il Partito Comunista Francese (PCF) con il suo braccio
sindacale la CGT
11
, trovò, in questa fase iniziale, grossissime difficoltà ad entrare in
sintonia con il movimento studentesco e a comprenderne la cultura e i suoi strumenti
d’azione. La difficoltà maggiore era rapportarsi con quei gruppi della “nuova sinistra”
che invece avevano cavalcato da subito la protesta; in particolare, come abbiamo visto, i
movimenti trotskisti, maoisti e anarchici, questi ultimi erano poi tra i più attivi
all’interno di queste prime manifestazioni, anche perché il leader studentesco più
popolare, Daniel Cohn-Bendit, era dichiaratamente un anarchico libertario. Il PCF era
arrivato a definire questi gruppi come gauchistes, termine spregiativo che voleva servire
a ridimensionarne il ruolo, ma che in realtà nascondeva un timore verso questi nuovi
soggetti che mettevano in discussione il suo monopolio sulla politica rivoluzionaria
12
. Il
PCF cominciò a modificare il suo atteggiamento verso la rivolta giovanile proprio in
conseguenza degli avvenimenti di metà maggio, ed in seguito anche ad alcune
11
Confédération générale du travail.
12
Sul rapporto tra PCF e il “maggio francese” si veda, M. Bracke, Quale socialismo, quale distensione? Il
comunismo europeo e la crisi cecoslovacca del ’68, Carocci, Roma 2008, pp. 124-138.
6
considerazioni opportunistiche: innanzitutto le reazioni inizialmente empatiche
dell’opinione pubblica, poi l’adesione dell’organizzazione giovanile del partito, di molti
intellettuali e progressivamente del sindacato e del mondo operaio, infine la brutale
repressione poliziesca della contestazione dopo la prima “notte delle barricate” del 10-
11 maggio; a questo punto il partito cercò di incanalare le proteste e convertirle in
rivendicazioni economiche e sociopolitiche convenzionali.
In effetti una svolta reale si verificò qualche giorno più tardi quando la protesta
studentesca si saldò con la protesta sociale e gli operai presero il controllo del
mobilitazione. Il 13 maggio i principali sindacati la CGT, la CFDT (sindacato della
sinistra più vicino da subito agli studenti) e “Force ouvrière” proclamarono lo sciopero
generale e 500.000 manifestanti sfilarono per le strade di Parigi. Fu lo sciopero più
grande che la Francia avesse mai visto, prolungatosi per più di una settimana e che
coinvolse più di 9 milioni di lavoratori. Nei giorni seguenti il conflitto continuò a salire
di tono con l’occupazione delle grandi fabbriche: la lotta ormai si era spostata dalle
università alla società e le rivendicazioni si facevano sempre più direttamente politiche.
Il 24 si raggiunse il culmine dalla tensione con gli scontri più cruenti nel Quartiere
latino e ci furono i primi morti, tanto che la protesta sembrava ad un passo dalla rivolta
insurrezionale. La crisi rischiò di investire lo stesso potere del generale De Gaulle che
inizialmente aveva forse sottovalutato la portata degli avvenimenti, infatti il presidente
si trovava in quei giorni all’estero per un viaggio ufficiale in Romania (14-19 maggio),
tornato precipitosamente in Francia arrivò a minacciare un intervento dell’esercito nella
capitale per ristabilire l’ordine.
Ma il movimento, dopo aver raggiunto il suo apice proprio nella giornata del 24,
cominciò lentamente a rifluire su se stesso; il 27 maggio venne raggiunto un accordo tra
governo e sindacati che riconosceva agli operai significativi aumenti salariali, la
riduzione dell’orario di lavoro e nuovi diritti sindacali. Questo risultato chiaramente
accontentava i partiti tradizionali, in particolare il PCF, mentre fu respinto da una parte
della sinistra e dal movimento studentesco che aveva portato avanti rivendicazioni ben
più radicali; qui iniziarono le divisioni del fronte della protesta, tra gli operai e gli
studenti, tra socialisti e comunisti. Di questa frammentazione subito approfittò la destra
di De Gaulle che per l’ennesima volta riuscì a presentarsi come il salvatore della patria,
in questa caso contro una presunta minaccia eversiva anarchica e comunista (di cui in
7
realtà non c’erano le premesse). Il 30 maggio De Gaulle sciolse il parlamento per indire
nuove elezioni politiche; in quegli stessi giorni sfilavano per Parigi migliaia di
sostenitori del presidente inneggiando alla Repubblica e scandendo slogan contro gli
studenti; le sinistre erano divise e spiazzate dalla mossa elettorale di De Gaulle, la destra,
sfruttando anche l’ondata di paura diffusasi nella borghesia in seguito alle giornate di
maggio, trionfò nelle elezioni del 23 giugno che segnarono un grande successo per
l’Unione democratico-repubblicana (UDR, il partito gollista) che raggiunse la
maggioranza assoluta, mentre lo schieramento di sinistra in tutte le sue componenti,
comuniste come socialiste, registrò un generale arretramento perdendo nel complesso
più di cento seggi in parlamento. Così giungeva a conclusione il “maggio francese” con
una sostanziale sconfitta, ma il ’68 non esauriva qui la sua forza propulsiva.
Il movimento del Sessantotto ebbe pure in Germania un certo peso, dato che anche qui
si svilupparono violente agitazioni studentesche, concentrate in particolare a Berlino
ovest. La protesta si indirizzò in particolare contro alcune misure repressive poste in
essere dal governo di “grande coalizione”, formata dall’alleanza tra la SPD
13
e i
cristiano-democratici della CDU-CSU. In particolare i provvedimenti più contestati
erano quelli che prevedevano la possibilità di sospensione delle garanzie democratiche e
la proclamazione dello stato di emergenza in caso di non troppo specificate minacce
sovversive, ma numerosi attacchi erano rivolti contro la grande stampa controllata dalla
destra (gruppo editoriale Springer). Il leader della protesta era Rudi Dutschke,
esponente dell’SDS (organizzazione degli studenti socialisti tedeschi), che venne
gravemente ferito da colpi di pistola l’11 aprile 1968, evento dopo il quale le agitazioni
raggiunsero l’apice con grandiose manifestazioni. Così come in Francia, il governo
lanciò appelli alla popolazione per isolare i provocatori, e in maggio vennero approvate
le tanto temute “leggi di emergenza”, che prevedevano di far intervenire l’esercito per
stroncare le rivolte, l’approvazione di questi provvedimenti però ebbe l’effetto finale di
placare gli animi.
1.2 Il Sessantotto in Italia.
La protesta studentesca fin dai primi mesi del 1968 dilagò anche in Italia anticipando
per certi versi gli avvenimenti del resto d’Europa, ma nel nostro paese la protesta,
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Il partito socialdemocratico tedesco, guidato da Willy Brandt.
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accanto ai temi classici che abbiamo già visto (anti-imperialismo e protesta contro la
guerra del Vietnam, antiautoritarismo e critica della società dei consumi), presentava
alcuni elementi di specificità: innanzitutto durò molto più a lungo facendo sentire i suoi
effetti per tutti gli anni Settanta, in secondo luogo coinvolse in maniera molto più
organica il movimento operaio, e infine, anche in conseguenza di questo suo carattere
operaista, mostrò, in alcune sue componenti, una maggiore ideologizzazione in senso
marxista e rivoluzionario, in cui la critica verso la società borghese si trasformò in un
vero e proprio rifiuto della prassi politica tradizionale, compresa quella rappresentata
dai partiti di sinistra come il PCI e il PSI e sfociò nella nascita di gruppi
“extraparlamentari” come Potere Operaio, Lotta Continua, Avanguardia Operaia,
Sinistra Proletaria e altri simili tra le cui fila, in parte, si possono ritrovare le origini
della violenza terrorista del decennio successivo.
In Italia le prime lotte universitarie erano iniziate già negli ultimi mesi del 1967, con
l’occupazione di alcune università del nord come Trento, Milano e Torino. Queste
prime azioni furono motivate principalmente da rivendicazioni relative allo studio, in
particolare gli studenti contestavano i contenuti arretrati e parziali dell’istruzione e
rivendicavano l’estensione del diritto allo studio anche ai giovani di condizione
economica disagiata
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. A partire da fine gennaio del 1968 il movimento si andò
politicizzando e crebbe gradualmente, le occupazioni ripresero in maniera massiccia con
i primi interventi della polizia che sgomberò le facoltà che spesso venivano rioccupate
poco dopo; gli scontri più duri si registrarono a Pisa e Firenze e numerosi furono gli
arresti. A febbraio era la volta di Roma che vide numerose facoltà occupate, in un
crescendo di tensioni si arrivò al primo marzo con l’episodio culmine della
contestazione studentesca italiana: l’intera cittadella universitaria di Roma era occupata
da ormai più di un mese e in autogestione con l’appoggio dato agli studenti da quella
parte del mondo accademico più progressista, mentre la parte più conservatrice spingeva
per chiamare la polizia e far sgomberare con la forza le facoltà. Alla fine il Rettore
D’Avack, sotto queste spinte, chiese l’intervento delle forze dell’ordine che fu
massiccio e molto duro, l’università fu sgomberata e presidiata dalla polizia. A quel
punto gli studenti si riversarono nelle strade con grandi manifestazioni di protesta e
furono caricati dalla polizia che impedì che si avvicinassero al parlamento. Il giorno
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M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, cit., 2003.
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seguente, dopo una notte di presidio in Piazza di Spagna, gli studenti si organizzarono
per dare l’assalto alla facoltà di Architettura, diventata un vero fortino per la presenza di
numerosi presidi della polizia; così nei vialetti intorno a Villa Borghese si scatenò
un’autentica guerriglia urbana che vide in conclusione numerosissimi feriti sia tra gli
studenti che tra le forze dell’ordine e solo per puro caso non ci furono morti. L’episodio
che passerà alla storia come la “battaglia di Valle Giulia” rimane ad oggi quello più
noto di tutto il ’68 italiano, ma non ne fu certamente la conclusione. Nei giorni seguenti
le occupazioni e gli sgomberi forzati si susseguirono in tutta Italia, il 5 marzo anche a
Milano si ripeté l’errore dello sgombero forzato dell’Università Cattolica, scatenando
asprissimi scontri e una vera e propria guerriglia per le strade. Lo sgombero poi del
liceo Parini occupato, non richiesto dal suo preside che invece solidarizzava con la lotta
degli studenti e per questo venne subito rimosso, causò l’allargarsi della contestazione a
molte scuole superiori e addirittura medie in tutta Italia.
La crescita economica degli anni precedenti aveva portato all’interno del paese anche
notevoli diseguaglianze sociali, beneficiando in particolare la borghesia, mentre le classi
sociali più basse non avevano visto un adeguato aumento del loro livello socio-
economico. Comunque le trasformazioni e le contraddizioni non avevano caratterizzato
solo l’ambito economico. Infatti l’Italia aveva intrapreso un processo di
modernizzazione che era partito proprio dal mondo della scuola, dal dopoguerra infatti
l’accesso al mondo scolastico aveva avuto un incremento notevolissimo e se nel 1946
gli studenti universitari erano poche migliaia nel 1968 erano mezzo milione, la stessa
cosa vale per gli altri livelli di istruzione. Tuttavia si trattava di un ambiente che
necessitava di profonde riforme, ma l’intera classe politica non comprendeva questa
esigenza che era alla base delle contestazioni. Negli anni Sessanta si era dimostrata
inadeguata e le speranze di riforma suscitate dai governi di centro-sinistra (alleanza DC-
PSI) erano andate deluse, tanto che proprio le elezioni del maggio ’68 avevano segnato
il fallimento del progetto politico. Non è quindi un caso che la guida della contestazione
nelle sue fasi iniziali fu assunta dagli studenti universitari, ma quasi subito anche il
mondo operaio cominciò a manifestare solidarietà con la lotta studentesca e allo stesso
tempo ad avanzare le proprie rivendicazioni: tra marzo e ottobre le agitazioni operaie
coinvolsero alcune tra le più grandi imprese del paese, dalla Fiat di Torino, al
Petrolchimico di Porto Marghera, alla Pirelli di Milano.