proprio contesto politico e quello internazionale.
1
Quel sistema fece dell’Italia uno dei paesi fondamentali del blocco
occidentale antisovietico e fruttò una crescita economica di tali
proporzioni da giustificare l’uso del termine “miracolo economico” per
definirla. Tuttavia il “miracolo economico”, che in termini quantitativi
produsse una così grande ricchezza, non servì a superare i tradizionali
“dualismi” dell’economia italiana. I vecchi squilibri e la diffusa arretratezza
della struttura produttiva italiana furono anzi paradossalmente gli artefici
del “miracolo”, giacché sarebbe stato impossibile il successo della grande
industria del nord senza la riserva di manodopera a basso prezzo fornita
dal sud e senza che le tradizionali piccole attività industriali e artigianali
continuassero a impiegare una grande massa di lavoratori senza diritti,
pur tuttavia fungendo da calmiere dei conflitti sociali.
Gli anni del miracolo cambiarono certamente la struttura produttiva
del paese, ma non abbastanza da incidere sulla sua natura oligarchica.
Tra i tanti risultati, ci fu dunque anche quello di un rafforzamento del
consenso della sinistra, al punto che essa si rese fondamentale
all’esercizio del potere (come sarebbe accaduto, ma solo in parte con i
governi di centrosinistra), nonostante il suo carattere antisistema.
Con l’inizio degli anni Sessanta il sistema economico e politico,
spinto dai tipici processi di modernizzazione frutto della
industrializzazione, entrò in crisi. L’urbanizzazione, il cambiamento della
struttura occupazionale, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa,
la diffusione dell’istruzione, la crescita del reddito, furono tutti fattori di
destabilizzazione delle basi culturali, sociali ed economiche del paese.
L’aumento dell’occupazione, soprattutto, mise in discussione il regime di
“bassi salari e bassi consumi”, su cui si era fondato il miracolo, e migliorò
le condizioni degli operai, ora più consci dei propri diritti e attratti dalla
“società dei consumi”. Questi – chiedendo una giusta redistribuzione della
1
F. De Felice, Doppia lealtà e doppio Stato, in “Studi Storici”, 1989, n. 3, pp.
493-563
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ricchezza prodotta – e le loro organizzazioni sindacali – che non si sarebbe
più potuto emarginare dal potere – costrinsero la DC ad allargare l’area
governativa per permettervi l’ingresso almeno del PSI, cioè della parte della
sinistra disposta ad accettare i vincoli (peraltro allentatisi con l’inizio della
fase di “distensione”) conseguenti all’appartenenza al blocco internazionale
filoamericano.
Per superare la crisi politica e quella economica, dunque, bisognava
che la classe dirigente democristiana trovasse il consenso socialista su un
nuovo programma di governo. Esso, oltre a risolvere i tradizionali problemi
italiani – la questione meridionale, l’arretratezza del sistema produttivo, la
ristrettezza del mercato interno e la conseguente dipendenza dalla
congiuntura internazionale, gli scarsi consumi sociali – avrebbe dovuto
soddisfare le “aspettative crescenti” dei cittadini, frutto del miracolo
economico e dei nuovi modelli culturali e sociali. Inoltre
l’industrializzazione delle aree arretrate sarebbe dovuta diventare – anche
in conseguenza della liberalizzazione degli scambi all’interno del MEC che
imponeva all’economia italiana una maggiore competitività – una sua
priorità: un paese povero di materie prime come l’Italia non poteva
permettersi la perdita del proprio ruolo nel mercato internazionale.
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II. Il progetto del centrosinistra si formò, a cavallo tra la fine degli anni
Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, per l’impulso delle correnti riformistiche
dei principali partiti che ad esso diedero vita – cioè della sinistra DC e
della maggioranza “autonomista” del PSI di Nenni – oltre che del PRI,
attraverso il contributo fondamentale di Ugo La Malfa, e del PSDI;
all’opposizione di quel progetto si poneva invece un blocco sociale
conservatore che trovava espressione politica all’interno della DC nella
corrente dei “dorotei”.
3
Quest’ultimo cercò fin dall’inizio di ridurre il
2
A. Graziani (a cura di), L’economia italiana dal 1945 a oggi, Il Mulino,
Bologna 1989
3
, pp. 11- 162
3
Y. Voulgaris, L’Italia del centro-sinistra, 1960- 1968, Carocci, Roma 1998, pp.
83- 95
8
centrosinistra semplicemente ad una nuova formula politica, utile solo al
proseguimento, con un più largo appoggio popolare, della vecchia linea
politica ed economica di servizio agli interessi della classe dominante.
Tuttavia nella fase di avvicinamento della DC al PSI anche all’interno del
gruppo doroteo prevalsero i toni riformatori e le esigenze di reale
cambiamento della società italiana.
La DC iniziò il suo cammino di rinnovamento programmatico nella
prospettiva del centro-sinistra alla fine del 1961, con un convegno di
studio organizzato a S. Pellegrino per tentare, attraverso una valutazione
dei processi di trasformazione in atto nel paese, di delineare il profilo di
una nuova politica economica. Una delle relazioni più interessanti fu
quella di Pasquale Saraceno che, in un quadro storico, analizzò lo sviluppo
economico italiano individuando nel “dualismo” il suo carattere particolare
e negativo e nella politica di piano per mezzo di un forte intervento dello
Stato nell’economia ciò di cui aveva bisogno per migliorarsi. Non era
possibile infatti, secondo lo studioso cattolico, incidere positivamente sul
Meridione senza cambiare radicalmente il meccanismo di mercato del
Nord-Italia con un progetto di sviluppo organico del paese, e per questo si
poneva l’esigenza di una politica di piano nazionale in luogo degli
interventi straordinari della Cassa per il Mezzogiorno. Tali posizioni, di
stampo decisamente riformista, furono ribadite da Moro all’VIII Congresso
DC ma inserite, dal segretario democristiano, in un contesto che poneva
l’accento sulla necessità politica dell’allargamento della maggioranza più
che su un reale cambiamento del sistema politico ed economico.
Il PSI, alla ricerca di un’identità autonoma dal PCI e dal blocco
sovietico, era già dalla metà degli anni Cinquanta sulla via di una
revisione del proprio impianto culturale: il lento avvicinamento all’area
governativa non poteva fare altro che accelerare il suo passo. L’elemento
fondamentale del nuovo corso socialista fu la rottura con la tradizione
rivoluzionaria del movimento operaio e l’acquisizione di una concezione
gradualista della lotta per l’instaurazione dello Stato socialista. Ciò, nella
9
concretezza della politica italiana, si sarebbe tradotto nella strategia delle
riforme di struttura (nazionalizzazione dell’industria elettrica, riforma
urbanistica e scolastica, attuazione delle regioni, ecc.) e nella
contrapposizione al capitalismo per mezzo della pianificazione economica.
Si trattava, insomma, di sostituire al criterio assoluto del profitto quello
dell’utile collettivo e, mediante ciò, di sconfiggere l’egemonia della classe
borghese e imporre un nuovo sistema di sviluppo economico e di
benessere. I più coerenti interpreti della nuova linea socialista furono
Riccardo Lombardi e gli uomini della sua corrente, tra i quali l’ex
comunista Antonio Giolitti; il segretario Nenni si dimostrò invece
maggiormente preoccupato di ritagliare per il proprio partito uno spazio
politico autonomo a sinistra e di entrare nella “stanza dei bottoni”, che di
realizzare un programma riformista. La “sinistra” del PSI, infine, fu
contraria per principio ad ogni tipo di rottura del movimento operaio e
continuò a sperare nel proseguimento dell’unità d’azione con il PCI.
4
Nel novembre ’61, l’iniziativa socialista si configurò come vera e
propria alternativa di governo col convegno organizzato a Roma, al Teatro
Eliseo, da alcune riviste democratiche. L’incontro fra tendenze liberali,
radicali, socialisti, produsse una proposta che era centrata sulla
possibilità di utilizzare l’intervento dello Stato nell’economia e il controllo
sugli investimenti, sulla produzione, sui prezzi e sui consumi, per la
realizzazione di una programmazione economica in grado di risolvere i
problemi dell’economia italiana e soprattutto di modernizzare il paese.
Tale prospettiva era in realtà fondata su ciò che si sarebbe rivelato un
ingiustificato ottimismo nella valutazione della cultura economica e degli
interessi della classe dominante, e soprattutto non faceva i conti sulla
debolezza che avrebbe avuto la direzione politica di un processo realmente
innovatore senza il coinvolgimento del PCI. Tuttavia rappresentò un
importante momento di elaborazione culturale riformista.
4
M. Carabba, Un ventennio di programmazione 1954- 1974, Editori Laterza,
Roma-Bari 1977, pp. 20- 26
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Il dibattito comunista sui temi della politica di piano e delle riforme
di struttura fu, all’inizio degli anni Sessanta, ricco di analisi sui nuovi
sviluppi del capitalismo occidentale, attento soprattutto alle sue negative
conseguenze sociali e aperto alla possibilità di un cambiamento reale, di
una “svolta a sinistra”, della politica italiana. Nonostante il PCI temesse
che il centrosinistra si sarebbe rivelata una operazione trasformista e che
nessun cambiamento di direzione politica sarebbe stato possibile in un
“sistema bloccato” dall’esistenza della guerra fredda e dunque fondato
sulla pregiudiziale anticomunista, la sua iniziale tattica politica fu quella
di assecondare la formazione del centro-sinistra e la realizzazione delle
riforme di struttura, nella prospettiva di una rottura del blocco capitalista
dominante, di un superamento dei “blocchi” (che non sembrava allora
impossibile) e della possibilità di una conseguente formazione di una
nuova maggioranza – con la rottura della DC – che lo comprendesse.
5
Per svolgere una funzione pienamente positiva e premere per un
reale cambiamento del sistema italiano, i comunisti avrebbero avuto
soprattutto bisogno di un adeguamento del proprio bagaglio teorico alla
realtà capitalista italiana e ai suoi processi di trasformazione: ciò
implicava l’abbandono di una rigida interpretazione dottrinaria del
marxismo. Il PCI non ebbe però la forza di rinnovarsi ideologicamente e ne
pagò il prezzo, innanzitutto in termini di insufficiente capacità di
interpretazione della realtà. Il boom economico aveva colto il partito di
sorpresa dimostrando la sua difficoltà nel cogliere i cambiamenti del
modello di socializzazione delle masse, quelli delle identità individuali e
delle appartenenze sociali e politiche. I comunisti ( fatta eccezione per
alcuni “ingraiani”, che rappresentavano comunque una posizione
minoritaria e poco concreta) non si avvidero dunque delle potenzialità del
“neocapitalismo” e del rischio di integrazione nel sistema di tutte le classi
sociali.
5
R. Gualtieri, Il PCI, la DC e il “vincolo esterno”, in R. Gualtieri (a cura di), Il
PCI nell’Italia repubblicana, 1943- 1991, Fondazione Istituto Gramsci, “Annali”, 1999,
XI, Carocci, Roma 2001, pp. 68- 69
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Il partito comunista, d’altra parte, comprese bene, dati i propri
referenti sociali, i limiti del miracolo, la persistenza dello sfruttamento
delle classi deboli, l’arretratezza del sistema produttivo, la dipendenza
dell’intervento statale dalla grande impresa privata e l’esistenza di “ceti
parassitari”.
6
Fu su queste basi che esso poté manifestare un esplicito
consenso con le analisi compiute al convegno dell’Eliseo e a quello di San
Pellegrino e svolgere, pure tra molti limiti, una funzione di stimolo al
cambiamento.
III. Nonostante la mancanza di un’alternativa, la preparazione del
centrosinistra fu lenta e difficile e ciò a causa delle divergenze politiche tra
i futuri alleati oltre che delle resistenze da parte del Vaticano e degli Stati
Uniti. Moro riuscì infatti a convincere il suo partito della necessità di
aprire la nuova fase politica solo all’VIII Congresso, cioè dopo avere
incassato il nullaosta di Papa Giovanni nel ’61 e quello di Kennedy
nell’anno successivo, ma fu costretto comunque a puntare tutto sul
carattere conservatore e anticomunista della sua proposta; dall’altra parte
i socialisti si rassegnarono ad entrare nella “stanza dei bottoni” con il
preciso intento di realizzare un programma innovatore che marcasse in
modo forte la discontinuità con il passato.
Dal punto di vista del quadro di governo l’avvicinamento al centro-
sinistra si può ridurre a due fasi: la prima, dopo il fallimento del governo
Tambroni, fu quella del governo monocolore DC (luglio 1960) guidato da
Fanfani e detto delle “convergenze parallele” per l’astensione dei
monarchici da un lato e dei socialisti dall’altro; la seconda si delineò nel
’62 con un nuovo governo Fanfani senza il PLI ma con l’appoggio
parlamentare del PSI. Per un governo con la presenza organica dei
socialisti si sarebbe dovuto attendere la fine del ’63, ma a quella data era
già stata sepolta, come vedremo in seguito, ogni velleitaria intenzione di
6
E. Taviani, Il PCI nella società dei consumi, ivi, pp. 292- 293
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riformare realmente il sistema italiano.
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Y. Voulgaris, L’Italia del centro-sinistra, cit., p. 97
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