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La riforma costituzionale del 1999 sul “giusto processo” ha correttamente
considerato connaturale al sistema di garanzie proprie del modello processuale
accusatorio il principio della c.d. ragionevole durata del processo. Principio
enunciato espressamente, prima di allora, soltanto dalle convenzioni
internazionali, ed in particolare dalla Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 che – nel
definire i requisiti fondamentali del “fair process” – prevede, con una formula
attenta alla effettività delle garanzie (art. 6, comma 1), che la giurisdizione sia
attivata e giunga alla soluzione della controversia “entro un termine
ragionevole”.
Ed in effetti è dichiaratamente modellato sull’art. 6 comma 1 della
Convenzione europea (“ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza
entro un termine ragionevole…”) il principio stabilito dal comma 2 dell’art. 111
Cost. , secondo cui “la legge… assicura la ragionevole durata (del processo)”.
[…]Il nostro Paese ha l’imbarazzante leadership in Europa per essere lo
Stato più condannato dalla Corte di Strasburgo per violazioni della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo. L’escalation di condanne, caratterizzata da una
progressione quasi geometrica, ha raggiunto il suo apice nel 2000 in cui le
sentenze che accertavano l’eccessiva durata dei processi italiani sono state ben
233.
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L’arresto del trend negativo è attribuibile all’introduzione, sulla scia del
nuovo art. 111 Cost., di una “disciplina municipale della violazione del termine
di ragionevole durata del processo” che prevede, per le vittime dei c.d. processi
lumaca, la possibilità di adire l’Autorità giudiziale nazionale al fine di ottenere
un equo indennizzo. Disposizione centrale della legge Pinto è l’art. 2, per il
quale “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di
violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto
il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6 § 1,
della Convenzione, ha diritto ad un’equa riparazione (comma 1).
[…]non si può pensare che quello della celere definizione del
procedimento penale sia un valore in sé assoluto: la mera speditezza
dell'accertamento può significare che questo e’ stato superficiale, così come la
rinuncia al dibattimento presenta rilevanti “costi” in termini di mancata
pubblicità del giudizio, di rispetto della parità tra le parti, di analitica
ricostruzione di fatti anche gravi. Occorre trovare un punto di equilibrio fra le
contrapposte esigenze, di celerità ed approfondimento della decisione
giudiziaria, sottese ai vigenti parametri costituzionali: ma la via della fuga dal
dibattimento, con l'amplificata facoltà di concordare l'applicazione della pena
(come emergerà dalla analisi della l. 134 del 2003), non sembra quella più
idonea allo scopo, ben potendosi operare interventi in chiave acceleratoria che
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incidano direttamente sulla durata del dibattimento. Sarebbe sufficiente
sfrondarlo degli attuali tempi morti dovuti a momenti di apparente garanzia
formale nati in un contesto processuale di stampo inquisitorio ed ormai - di
fronte alle rilevanti innovazioni del giusto processo in punto di parità delle parti
e rispetto del contraddittorio - decisamente anacronistici. Su tale versante
vengono alla mente talune disposizioni concernenti “inutili passaggi di atti da un
organo all’altro, moduli comportamentali complessi, formalità superflue, quando
tutte queste previsioni non siano giustificate dal soddisfacimento di esigenze
difensive”. Certamente il criterio della ragionevolezza va inteso anche nel senso
della necessità di ridurre i tempi del processo con l’eliminazione di tutte le
garanzie inutili, di quelle garanzie cioè che non producono alcun vantaggio per
l’imputato e che sono potenzialmente idonee ad allungare i tempi di definizione
del processo.
Tenendo conto, peraltro, che “la ragionevole durata” pur essendo una
fondamentale condizione di efficienza del processo non si pone sullo stesso
piano delle altre garanzie contemplate dall’art. 111 Cost. ; mi sembra infatti del
tutto condivisibile l’affermazione di Ferrua che ritiene che il principio del
contraddittorio o della terzietà - imparzialità del giudice e quindi, ad es. il diritto
al controesame dei testi prodotti dall’accusa o il diritto al giudizio davanti a un
organo imparziale, non possa essere scalfito in nome di una generica esigenza di
celerità del procedimento.
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Acutamente Nappi ha rilevato che non è possibile ipotizzare un conflitto
tra il principio del contraddittorio nella formazione della prova e quello della
durata ragionevole del processo perché “deve ritenersi necessariamente
ragionevole, per definizione costituzionale appunto, la durata del processo
dovuta alla formazione della prova nel contraddittorio delle parti”; dal che si
deduce che non potendo essere poste in discussione le garanzie previste dalla
stessa Costituzione in relazione al giusto processo, “il criterio di ragionevolezza
pertinente deve essere quello c.d. intrinseco” nel senso che la disciplina del
processo deve essere adeguata e coerente in rapporto ai principi costituzionali
del “giusto processo”. Anche Chiavario ha sostenuto che il parametro della
ragionevole durata può essere impiegato per fornire un utile elemento di
riequilibrio nell’interpretazione e nell’applicazione di altri parametri
costituzionali alcuni dei quali, se isolatamente letti, potrebbero portare a
conseguenze sempre più deleterie dal punto di vista della “ragionevolezza“ dei
tempi processuali.
Quanto sopra, ovviamente, in relazione a un sindacato che
necessariamente deve riguardare non già l’eventuale patologia del singolo
procedimento ma la possibilità astratta che una determinata disciplina possa
incidere negativamente sulla durata del processo. Confermando la propria
giurisprudenza sul punto la Consulta, anche dopo la modifica dell’art. 111 Cost.,
ha affermato che “la violazione del principio della ragionevole durata non può
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essere collegata alla peculiare e contingente situazione del singolo ufficio
giudiziario ma deve essere dedotta quale conseguenza astratta e generale
dell’applicazione della norma impugnata”.
[…] I principi fondamentali del processo accusatorio comportano
necessariamente una maggiore complessità delle forme e, quindi, un
allungamento dei tempi complessivi del processo, soprattutto nella fase
dibattimentale di assunzione delle prove con il metodo dell’esame incrociato. Il
legislatore del 1988 configura un dibattimento garantista che, laddove tutti i
procedimenti pervenissero alla fase dibattimentale, comporterebbe in breve
tempo la paralisi dell’apparato giudiziario. E in tutti i paesi con modello
processuale accusatorio, la funzionalità del sistema è subordinata
all’utilizzazione di una pluralità di procedimenti semplificati. Anche in Italia,
con l’amara e realistica consapevolezza di non poter assicurare il procedimento
penale “ordinario” agli imputati di qualsivoglia reato, l’attenzione del
legislatore si è rivolta a modelli procedimentali nei quali il rapporto costo-
benefici si rivelava compatibile con i bisogni di certezza del diritto e con le
esigenze del giudizio penale.
Peraltro, la compatibilità di strumenti deflattivi del dibattimento è stata
riconosciuta anche a livello costituzionale: il nuovo comma 5 dell’art. 111 Cost.
permette al legislatore di derogare, su consenso dell’imputato, al principio del
contraddittorio nella formazione della prova.
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La norma chiaramente si riferisce ai riti semplificati che omettono il
dibattimento: il patteggiamento, il rito abbreviato e il decreto penale di
condanna. […] La modifica al patteggiamento, operata dalla L. n. 134 del 12
giugno 2003, “al di là delle sgradita impressione che ha suscitato per l’offerta di
una soluzione così benevola per reati di elevata gravità, e al di là dell’eccessiva
rilassatezza del regime transitorio”, (in)pone il rito in questione come strumento
essenziale per la sopravvivenza del nuovo modello accusatorio. Lascia tuttavia
in ombra una serie di problemi, altrimenti difficilmente eludibili, densi di
implicazioni concernenti principi di primaria importanza nella gestione della
giustizia penale quali l’obbligatorietà dell’azione penale e l’esigenza di non
incrinare il nesso tra accertamento giurisdizionale e condanna penale.
Inoltre, nella materia in questione, la prospettiva comparatistica si è
imposta a livello ufficiale come principale fattore di suggestione del legislatore
delegato dell’88 che, nella Relazione al Progetto preliminare, presenta
l’applicazione della pena su richiesta delle parti come corollario imprescindibile
per l’introduzione dello schema processuale accusatorio. […]L’introduzione del
patteggiamento, in un sistema di civil law come il nostro, impone un’analisi in
chiave comparata al fine di testarne l’effettiva capacità di tenuta rispetto ai
principi che governano il nostro sistema costituzionale, e rilevare gli eventuali
fenomeni di rigetto rispetto al sistema processual – penalistico.
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Il richiamo operato dal legislatore nella Relazione al Progetto preliminare
al modello statunitense del plea bargainig tradiva, già allora, facili entusiasmi
circa la taumaturgica capacità deflativa dell’istituto e denotava anche
un’insufficiente conoscenza delle effettive modalità d funzionamento del
fenomeno made in USA, dello specifico contesto processuale, ordinamentale e
costituzionale in cui esso opera da oltre un secolo. Al fervore riformistico che ha
animato la procedura penale negli anno ’80 si è contrapposto il versante del
diritto sostanziale, all’epoca, non interessato da alcun concreto progetto di
riforma a livello generale, “tale da consentire di dar vita ad un sistema integrato
di criminal justice in cui diritto sostanziale e processuale avrebbero potuto
finalmente esser «fatti l’uno per l’altro»”. Nessuna meraviglia se “la
scommessa” cui erano state affidate le sorti dl nuovo codice, fondata su un
massiccio utilizzo della giustizia negoziata, si è rivelata perdente al primo
contatto con la realtà.
[…] Mentre resta tutta da verificare la concreta portata dell’intervento di
riforma sotto il profilo della resa in termini di economia processuale, la nuova
disciplina, che in passato ha più volte impegnato gli organismi supremi, Corte
costituzionale e Sezioni Unite, nell’immediato non semplifica nulla anzi, come
pare evidente, profila impegnative questioni di carattere interpretativo, avuto
riguardo al regime transitorio, fonte di innumerevoli incertezze applicative e di
rinnovati contrasti giurisprudenziali.
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Oggi, più di ieri resta in vita il dubbio circa il comportamento
gnoseologico del giudice. In quest’ambito appare riduttiva e fuorviante l’iniziale
idea secondo cui l’operazione compiuta con l’introduzione del patteggiamento
fosse solo di tipo comparatistico, come se il plea bargaining fosse parente
prossimo dell’applicazione della pena su richiesta delle parti. Questa inesistente
ed abusiva assimilazione ha rappresentato il maggior ostacolo per la messa a
punto dei poteri del giudice in materia di patteggiamento e per convincere il
legislatore che la sentenza che lo applica è una vera e propria forma di giudizio.
La superficialità con cui è stato affrontato l’argomento è sintomatica di un
patologico sbilanciamento del legislatore verso esigenze di deflazione del carico
giudiziario a tutti i costi, più che su un organico e coerente intervento sui tempi
del processo. Un processo, peraltro, in netta crisi d’identità, continuamente
combattuto tra innegabili ascendenze inquisitorie e continue aspirazioni ad
modello accusatorio puro. […]Questa legge dimostra che il legislatore cerca di
realizzare l’economia processuale e l’efficienza dell’amministrazione della
giustizia soltanto mediante la giustizia negoziale. E’ una scelta errata e
produttiva di conseguenze estremamente negative. La via seria è data dal fornire
l’amministrazione della giustizia di mezzi adeguati, dal realizzare una
depenalizzazione veramente effettiva e da una drastica riduzione dell’ambito di
operatività dei mezzi di impugnazione.
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A voler fare piena luce sulla messe di problemi che propongono i riti a
connotazione negoziale, nel cahier des doléances devono iscriversi anche le
deviazioni ravvisabili sul piano dei principi generali. Basti sottolineare il
superamento strisciante del principio di legalità, e “l’inserzione clandestina di un
principio di opportunità cui di fatto viene modulato l’esercizio dell’azione,
proprio in paesi di civil law dove, stando ai canoni ispiratori del sistema,
quest’ultima dovrebbe essere esercitata obbligatoriamente, non potendo il
pubblico ministero, data la natura pubblica dell’interesse in gioco, disporre a suo
piacimento dello ius puniendi”.
Questo non è un giusto processo poiché questa prassi giudiziaria vanifica
non solo il principio di legalità in tema di applicazione della pena e l’efficacia
intimidatrice che la pena dovrebbe avere ma rende il nostro sistema processuale
di una incoerenza del tutto paradossale.
[…]Da questa contrattualizzazione della giustizia deriva una totale perdita
di fiducia collettiva nei confronti dello ius dicere del giudice a cui non può che
seguire un generale affievolimento (per non dire spegnimento) del senso di
legalità. Se si considera, poi, la cassa di risonanza che i media, spesso in maniera
strumentale, rappresentano ogniqualvolta un reato particolarmente odioso o
efferato venga sanzionato con pene di molto inferiori a quelle che sono le
aspettative della collettività, il cortocircuito tra società e palazzi di giustizia è
assicurato.
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Il patteggiamento, come in genere la giustizia negoziata non appaga la
“sete di giustizia” del popolo, in nome del quale la stessa giustizia deve essere
amministrata. La pubblicità delle udienze è anche questo. Rifuggire dallo
strepitus fori per “rintanarsi” nella tranquillità della camera di consiglio è
indubbiamente appagante per l’imputato ma socialmente frustrante per la
comunità in cui si è consumato il delitto.
La giustizia negoziata è rasserenante: è pienamente coerente con questa
indifferenza sociale del risultato; dal lato del reo, la giustizia negoziata è
addirittura gratificante, e non solo per gli aspetti di premialità in sé considerati.
Essa illude anche il suo destinatario: gli fa credere di essere fuori dal circuito
colpa-sanzione, anzi di non esserne mai entrato e, quindi, gli fa smarrire,
definitivamente, la percezione di significato dell’accertamento giudiziale .Ed in
queste condizioni, una condanna può essere persino gratificante quanto
un’assoluzione, perché è intrigante la stessa strategia con cui ad essa si perviene
e c’è quasi il senso di aver carpito comunque qualcosa alla giustizia. Ma, proprio
per questo, una condanna così subita “alleggerisce definitivamente il reo dal
complesso reticolo di colpa individuale/espiazione sociale, che solo il processo
“ordinario” può innescare”.
La pena è artificiale, scissa da qualsiasi evenienza rieducativa proprio
perché un patteggiamento è vissuto al di fuori di ogni stigma sociale: un
infortunio di percorso presto emendato, senza conseguenze, una sorta di day
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hospital giudiziario, in grado di economizzare sì , ma anche di minimizzare
l’entità del male, banalizzando completamente l’importanza ed il senso della
cura, cioè della pena.