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INTRODUZIONE
Il XXI secolo si è aperto con un’importante presa di coscienza da parte della Comunità
Internazionale, che si è concretizzata nell’adozione, nel settembre del 2000, da parte
dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, di un Patto Globale, che prende il nome
di Dichiarazione del Millennio.
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Essa, ispirata ai principi di libertà, uguaglianza,
tolleranza, solidarietà e giustizia sociale, rispetto della natura e responsabilità condivisa,
dà origine agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, che costituiscono un accordo a
livello planetario fondato sul reciproco impegno, da parte dei Capi di Stato e di Governo
di tutti gli Stati membri dell’ONU, a fare ciò che è necessario per costruire un mondo
più sicuro, più equo e più prospero per tutti. Gli otto Obiettivi di Sviluppo del Millennio
sono finalizzati, pertanto, a liberare ogni essere umano dalla condizione abietta e
disumana della povertà estrema, nonché a rendere il diritto allo sviluppo una realtà
concreta per ogni individuo del pianeta.
Alla luce di ciò, lo scopo di questa tesi è quello di illustrare l’impegno, i risultati e gli
ostacoli a cui deve far fronte la Comunità Internazionale per perseguire gli Obiettivi di
Sviluppo del Millennio, evidenziando, in particolar modo, il contributo che i progetti di
Partenariato Pubblico-Privato possono apportare per il loro conseguimento.
Considerando che esistono una pluralità di strumenti a disposizione della Comunità
Internazionale per rendere questi otto obiettivi concreti e raggiungibili a tutti gli effetti,
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Risoluzione dell’Assemblea Generale A/RES/55/2 (2000) del 20 settembre 2000.
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l’elaborato focalizza la sua attenzione sulle Partnership Pubblico-Privato, descrivendole
sia dal punto di vista teorico, inquadrandole nel contesto internazionale odierno e
descrivendone le diverse tipologie esistenti, sia dal punto di vista pratico, illustrando,
attraverso due casi studio, degli esempi concreti di collaborazione tra il settore privato e
il settore pubblico, finalizzati al miglioramento del benessere fisico e sociale delle
popolazioni che, già in condizioni di povertà estrema, hanno dovuto far fronte a
disastrose calamità naturali.
Data l’attualità dell’argomento, ancora in continua evoluzione, le fonti utilizzate per la
stesura del presente lavoro includono monografie e articoli scientifici dedicati al tema,
documenti e report elaborati da organismi internazionali, ed infine siti web, che
aggiornati in tempo reale hanno permesso una maggiore precisione delle informazioni
raccolte.
L’elaborato è strutturato in tre capitoli e segue una logica deduttiva.
Nel primo capitolo viene ricostruita brevemente l’evoluzione degli sforzi della
Comunità Internazionale verso la cooperazione allo sviluppo, partendo dal concetto di
cooperazione bilaterale, e finendo per citare gli ultimi impegni assunti nell’ambito delle
più importanti e recenti Conferenze internazionali: il Millennium Summit (che ha dato
vita agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio), la Conferenza internazionale sul
finanziamento allo sviluppo (da cui è nato il Monterrey Consensus) ed infine il World
Economic Forum (da cui sono emersi i dieci principi del Global Compact). Il capitolo
procede illustrando il tema della Responsabilità Sociale d’Impresa, mettendo in luce i
suoi aspetti più innovativi e sottolineando come il crescente interesse ad esso, da parte
del settore privato, abbia contribuito ad accrescere l’impegno nell’intraprendere delle
collaborazioni con il settore pubblico in un ottica di rispetto e di promozione dei diritti
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umani e ambientali, non soltanto a livello locale e nazionale, ma anche internazionale.
La presa di coscienza da parte delle imprese di includere nei loro piani di business
comportamenti etici e sostenibili, con una maggiore attenzione nei confronti di tutti gli
stakeholder rientranti nella catena del valore aziendale, diviene così lo strumento che sta
alla base di una sana e proficua partnership tra settore pubblico e privato. Il capitolo si
chiude illustrandone il concetto e descrivendone le tipologie maggiormente in uso, così
come descritte nel Libro Verde della Commissione Europea del 2004, dedicato ai
Partenariati Pubblico-Privati e al diritto comunitario degli appalti pubblici.
Il secondo capitolo è dedicato alle partnership intraprese tra le imprese e le Nazioni
Unite, ponendo un focus particolare sulle collaborazioni tra i due attori finalizzate a
mitigare i rischi di catastrofi naturali nelle zone maggiormente esposte al rischio. Nel
fare ciò il capitolo inizia spiegando in che modo e per quale motivo il settore privato e
le Nazioni Unite hanno iniziato a indirizzare le loro rispettive attività e i loro rispettivi
obiettivi verso uno sforzo comune, e quali impegni sono stati assunti a tal fine. In
conformità con le Linee Guida per la collaborazione tra ONU e settore privato, emanate
dalle Nazioni Unite nel novembre del 2009, vengono illustrati le modalità esecutive per
la riuscita di tali partenariati, prendendo in considerazione le tre tipologie di partnership
maggiormente utilizzate negli ultimi anni e fornendo degli esempi concreti. Infine,
soffermandosi nello specifico sui partenariati tra Nazioni Unite e imprese nella
riduzione di rischio di calamità naturali, si evidenzia il ruolo dei rispettivi attori in tali
progetti e le strategie per migliorare sempre di più la riuscita della collaborazione nella
riduzione del rischio di catastrofi.
Al fine di mostrare concretamente come operano le imprese in questo settore, nel terzo e
ultimo capitolo vengono presentati due casi studio che vedono protagonista l’azienda
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Coca-Cola Company, in qualità di partner attivo in due progetti di partenariato con le
Nazioni Unite per risollevare la situazione post disastro in due aree gravemente colpite
da calamità naturali, rispettivamente: i Paesi dell’Oceano Indiano colpiti dallo tsunami
del 2004, e il territorio di Haiti che nel 2010 ha subito un terremoto devastante. I due
case study mirano a dare al lavoro un riscontro concreto, cercando di portare il lettore ad
avere un quadro completo e ben chiaro di quanto detto nei capitoli precedenti, al fine di
non lasciare l’argomento nell’ambito del teorico, ma cercando di dare una visione
generale in merito a cosa sono i Partenariati Pubblico-Privati, alle motivazioni che
stanno dietro l’azione, ai risultati che ne possono venire fuori, ai rischi e ai vantaggi che
essi generano per i partner, ai benefici per la società localizzata nell’area in cui essi
operano ed infine a come possono essere migliorati in futuro.
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CAPITOLO PRIMO
L’IMPORTANZA DEI PARTENARIATI PUBBLICO–
PRIVATO COME SUPPORTO ALLA COOPERAZIONE
INTERNAZIONALE
1.1 Breve storia della cooperazione internazionale allo sviluppo
La nascita della cooperazione internazionale allo sviluppo viene normalmente fatta
risalire al secondo dopoguerra quando, con l’elaborazione del Piano Marshall,
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gli Stati
Uniti decidono di erogare aiuti umanitari e finanziari per la ricostruzione dell’Europa
occidentale, stravolta e devastata dalle terribili conseguenze della seconda guerra
mondiale. Analogamente si comporta l’Unione Sovietica con i Paesi del Patto di
Varsavia, costruendo all’interno della propria area d’influenza un sistema d’integrazione
economica basato sulla specializzazione dei rispettivi sistemi di produzione:
COMECON (Consiglio di mutua assistenza economica) costituito nel gennaio del 1949
e sciolto nel 1991 con il crollo del regime sovietico.
Nasce così, a metà degli anni Novanta, il concetto di cooperazione bilaterale, cioè quel
sistema di relazioni create tra le autorità centrali di due Paesi dove uno, il donatore,
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A. Cossetta, Sviluppo e cooperazione. Idee, politiche e pratiche, Milano, 2009, p. 47. Divenuto operativo il 5 aprile
1948, il Piano Marshall, avendo stanziato circa 17 miliardi di dollari, rappresenta tuttora il più esteso ed
efficace programma di cooperazione alla ricostruzione e allo sviluppo mai attuato.
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aiuta l’altro, il beneficiario, trasferendogli soldi, beni o conoscenze tecniche attraverso
un dono oppure un credito agevolato.
Il secondo dopoguerra rappresenta un periodo di grandi cambiamenti per gli sforzi verso
la cooperazione internazionale non solo da un punto di vista pratico e prettamente
economico, ma anche da un punto di vista regolamentare: in quegli anni, infatti, iniziano
a prendere forma le principali istituzioni internazionali impegnate, sin da subito, a
promuovere una Comunità Internazionale sempre più integrata e orientata allo sviluppo
nel rispetto dei diritti umani fondamentali.
Dalla Conferenza di Bretton Woods del 1944 nascono il Fondo Monetario
Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM), con compiti complementari: il FMI si
prefigge l’obiettivo di garantire prestiti ai Paesi in difficoltà economiche ed a mantenere
l’equilibrio finanziario internazionale, mentre la BM doveva sostenere piani di sviluppo
nazionali.
A distanza di un anno, sulle orme dell’ormai desueta Società delle Nazioni ma con la
volontà di rompere col passato e dar vita ad un nuovo ordine mondiale, viene istituita
l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Il 26 giugno 1945 alla Conferenza di S.
Francisco cinquanta Paesi approvano la Carta delle Nazioni Unite, formalizzando così la
nascita della più importante ed estesa organizzazione intergovernativa di tutti i tempi.
Come sancito dalla Carta, le Nazioni Unite si prefiggono, tra gli altri obiettivi, il
conseguimento della cooperazione internazionale in materia di sviluppo economico,
progresso socio-culturale, diritti umani e sicurezza internazionale.
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Art. 1 comma 3 dello Statuto delle Nazioni Unite: «i fini delle Nazioni Unite sono: (…) conseguire la cooperazione
internazionale nella soluzione dei problemi di carattere economico, sociale e culturale ed umanitario e nel promuovere ed
incoraggiare il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di
religione».
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È con queste premesse che si avvia la cooperazione multilaterale, quella cioè attuata
dalle diverse istituzioni sovranazionali cui gli stessi Stati danno vita. Le principali fanno
capo al sistema delle Nazioni Unite, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità
(WHO), il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF), il Programma delle
Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati (UNHCR) o l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO).
Lo sviluppo operativo della cooperazione multilaterale coincide da un lato con la
costruzione del sistema universale dei diritti umani,
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che fissa gli obblighi di intervento
per la Comunità Internazionale davanti a violazioni e mancanze dei singoli Stati, e
dall’altro con il processo esaltante e difficile della decolonizzazione, ossia
dell’indipendenza nazionale raggiunta da numerosi Paesi in Africa e Asia.
Non potendo affrontare i temi caldi della sicurezza, per i vincoli imposti dalla guerra
fredda, l’ONU e le sue Agenzie trovano spazio nel campo relativamente meno politico
dello sviluppo. Sorgono così strutture operative multilaterali, con personale e culture
non solo occidentali, finalizzate a promuovere gli interessi comuni e non solo quelli dei
singoli Stati.
Inizialmente la cooperazione, tanto bilaterale quanto multilaterale, si basa per lo più su
interventi centralistici, fatti attraverso i governi nazionali. Il fine ultimo è
l’industrializzazione accelerata e la diffusione di opere pubbliche come strade, dighe,
ponti, bonifiche. A partire dagli anni Sessanta, però, si fa strada una forma di
cooperazione diversa, su base volontaria. Associazioni, gruppi, movimenti laici o
religiosi, ma comunque privati, occupano uno spazio fino ad allora di esclusiva
4
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo fu firmata a Parigi il 10 dicembre 1948, con Risoluzione
217A (III) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
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competenza dei governi e degli organismi sovranazionali. Nascono così le
Organizzazioni Non Governative (ONG).
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Lo spazio crescente conquistato negli anni dalla cooperazione non governativa
rispecchia, in parte, le difficoltà di operare in questo ambito da parte dei governi. La
crisi petrolifera e l’innalzamento dei tassi di interesse negli anni Ottanta fanno esplodere
la crisi del debito estero, perché molti Paesi impoveriti non riescono a restituire i prestiti
ricevuti. Ciò svela quanto le politiche di sviluppo sostenute dalle istituzioni finanziarie
internazionali e gran parte della cooperazione governativa aggravino nei fatti la loro
situazione. Frequente poi si rivela l’insostenibilità degli investimenti in infrastrutture e
grandi opere, pianificate senza conoscere a sufficienza la realtà locale.
Queste contraddizioni raggiungono il loro apice negli anni Novanta. In questo decennio
il mondo non governativo ottiene pieno riconoscimento come nuovo attore globale, ma
paradossalmente questo successo arriva quando la fine del sistema bipolare diminuisce
l’interesse strategico verso la cooperazione internazionale.
Guerre e terrorismo portano in primo piano nell’agenda politica e nell’opinione
pubblica mondiale i temi della sicurezza e del peacekeeping, offuscando quelli
tradizionali dello sviluppo. Diminuiscono così progressivamente le risorse per la
cooperazione, nonostante gli impegni e i proclami a raggiungere percentuali minime tra
Prodotto Interno Lordo (PIL) e Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS).
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A. Cossetta, Sviluppo e cooperazione ecc., cit., pp. 141 ss. Le ONG portano nella cooperazione internazionale un
grande contributo, sperimentando l’impegno personale sul campo. Migliaia di volontari partono alla volta dei
Paesi impoveriti oppure si mobilitano in campagne e ricerche fondi. Lo stile di lavoro iniziale ha un’impronta
caritatevole: raccogliere quanti più beni o soldi possibili e inviarli a chi ne ha bisogno. Ben presto però esso
evolve verso azioni più definite e strutturate, introducendo l’uso dello strumento progettuale. Il progetto è un
intervento su scala ridotta – villaggio o quartiere – deciso assieme tra partner del Nord e del Sud del mondo,
dopo un’analisi preventiva dei bisogni e del contesto territoriale, e condotto con un preciso programma di
lavoro. Le stesse istituzioni governative finiranno per assumerlo come proprio strumento operativo, al fianco
degli abituali interventi pianificatori su macro-scala, e inizieranno pure a finanziare direttamente le ONG,
riconoscendo la loro capacità di stare maggiormente a contatto con le comunità locali.
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Per di più l’attenzione della solidarietà internazionale si sposta sull’intervento
umanitario e sulla risposta immediata a guerre, carestie o disastri naturali. La cultura
dell’emergenza soppianta quindi gli interventi strutturali di lungo periodo e le lotte per
un riequilibrio planetario nell’accesso alle risorse.
In questo quadro emerge, negli stessi anni Novanta, l’impegno diretto di nuovi soggetti
nella cooperazione internazionale: enti locali, associazioni non tradizionalmente
impegnate nello sviluppo, comitati locali, cooperative sociali, imprese, organismi di
categoria e professionali, mondo del lavoro, mondo accademico e semplici gruppi di
cittadini danno vita a quella che nel tempo viene chiamata cooperazione decentrata.
Un’azione, cioè, che si svincola dal livello centrale dei governi e mette in rapporto
diretto comunità e persone di luoghi diversi. Il principio guida è il co-sviluppo, secondo
cui i problemi planetari vanno affrontati congiuntamente e non riguardano solo i Paesi
impoveriti. La cooperazione decentrata ha, infatti, la capacità di attivare nuove forme
sia di partenariato territoriale - imperniate su accordi-quadro tra territori diversi che
cooperano insieme coinvolgendo tutti gli attori delle rispettive comunità locali in un
impegno organico e prolungato -, sia di partenariato tematico - basato sulla creazione di
reti tra soggetti del Nord e del Sud finalizzate alla risoluzione di determinati problemi.
6
A prescindere da quali siano la modalità della cooperazione, diventa dunque urgente
fare un salto di paradigma per superare l’idea tradizionale di aiuto.
6
M. Biggeri, F. Volpi, Teoria e politica dell’aiuto allo sviluppo, Milano, 2007, p. 46.
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1.2 Considerazioni generali sull’Aiuto Pubblico allo Sviluppo nel
contesto internazionale odierno
Le istituzioni pubbliche del Nord e del Sud vengono sempre più spesso criticate perché
ritenute incapaci, malgrado oltre mezzo secolo di Aiuto Pubblico allo Sviluppo, di
affrontare il tema della povertà nel mondo e dell’accesso a servizi vitali in modo
risolutivo. Sempre più attori si chiedono quindi se non sia il caso di coinvolgere
direttamente il settore privato nella lotta contro la povertà, sfruttando le risorse
finanziarie, l’expertise e le vaste conoscenze tecniche che lo caratterizzano.
Di fatto, quella che viene normalmente riassunta con la sigla PPP, ovvero la Partnership
Pubblico-Privato, è una realtà che stiamo già vivendo in gran parte dei Paesi del Nord
del mondo e che permea ormai molti aspetti della nostra vita quotidiana. La stragrande
maggioranza delle nostre necessità di base sono infatti soddisfatte da sistemi integrati
pubblico-privato, che vanno dalle costruzioni di infrastrutture nelle grandi opere,
all’erogazione e gestione di molteplici servizi essenziali.
Quello che possono (e devono) fare gli Stati, le istituzioni internazionali e gli enti no
profit non è quindi decidere se fare entrare o meno i privati nel settore della
cooperazione, ma capire quale tipo di relazione vogliono instaurare con loro, sapendo
che solo in una situazione win-win l’eventuale collaborazione sarà sostenibile.
La riduzione, negli ultimi due anni, dei flussi di Aiuto Pubblico allo Sviluppo da parte
dei Paesi ricchi pone seriamente in pericolo il raggiungimento degli Obiettivi di
Sviluppo del Millennio. I governi dei Paesi occidentali si stanno dimostrando incapaci
di stare al passo con il progressivo incremento di aiuti richiesto dalla drammatica
situazione in cui vivono milioni di persone, nonostante le numerose occasioni in cui
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hanno promesso di impegnarsi nella lotta contro la povertà.
In ambito UE, il contributo apportato dai Paesi membri e dalla stessa Unione Europea
può rivelarsi soddisfacente, seppur non ancora ottimale.
Nel 2010 l’APS dei donatori dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
Economico (OCSE), del Comitato per l’Assistenza allo Sviluppo (CAS) e dell’UE
ammontava complessivamente a 97,2 miliardi di euro in termini nominali. L’UE,
considerata nel suo insieme, erogando 53,8 miliardi di euro (ovvero il 58% di questi
aiuti), ha rappresentato il maggiore donatore al mondo di APS. Nonostante tale cifra
record rappresenti un rapporto APS/PIL dello 0.43%, l’UE e i suoi membri hanno di
fatto fallito il raggiungimento dell’obiettivo dello 0.56%, che si erano impegnati a
raggiungere in ambito ONU entro il 2010.
Il mancato raggiungimento dell’impegno preso deriva, oltre che dalla recessione
economica che ha colpito ogni singolo Stato (europeo e non), da problemi endogeni che
da sempre rappresentano un ostacolo per la coesione dell’UE a livello di policy: le
differenze tra i vari Stati membri. Infatti, mentre alcuni di essi si sforzano di fare la loro
parte per raggiungere gli accordi presi in ambito comunitario, altri (tra cui rientra
l’Italia, che nel 2010 ha destinato all’APS lo 0.15% del proprio PIL) non rispettandoli,
minacciano la coesione dell’intera Unione.
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L’impegno preso dall’UE per il 2015 è quello di fornire lo 0.7% del suo PIL collettivo
in APS. Considerando che tale obiettivo potrà raggiungersi solo se ciascuno Stato
membro farà la sua parte, il fatto che alcuni governi nazionali abbiano già iniziato a
tagliare fondi destinati all’APS desta perplessità sulla riuscita dell’impegno.
7
Comunicazione della Commissione Europea, Aumentare la responsabilità dell’UE relativamente al finanziamento
dello sviluppo nei confronti della valutazione inter pares sull’aiuto pubblico allo sviluppo dell’UE, Bruxelles 19/04/2011,
COM (2011) 218 definitivo.