3
MATTEO CICCOGNANI
IL PARADIGMA DELL’ANUMANO NELLE
FORME TESTUALI DEL CINEMA
CONTEMPORANEO
Introduzione
Alla luce del complesso di considerazioni speculative
analizzate nella mia tesi di laurea triennale, L’interazione del soggetto
con il cyberspazio, L’asse Lévy Žižek Lacan, ritengo pertinente
sviluppare in forma approfondita i concetti relativi alla dialettica
tra la cultura e i suoi prodotti testuali e all’evoluzione di nuove
“configurazioni di forze” che intervengono a modificare
l’approccio individuale coi nuovi mezzi di comunicazione. Il
taglio di una conseguente riflessione dovrà perciò attenersi nelle
sue strutture e contenuti a quello di un saggio inseribile nel
grande contenitore della teoria dei nuovi media, universo di
studio tanto ricco di spunti e argomenti da risultare un pozzo
ricolmo d’idee potenziali che insistono sulla realtà in forma per lo
più staminale e che sono lo specchio di un momento di grande
transizione verso cui un’impostazione, fin troppo arcaicamente
analitica, sembra vacillare nell’autodefinirsi in pieno nei propri
presupposti di chiarificazione, nelle forme di una determinazione
limpida e scientificamente dimostrabile. É come se ci si sporgesse
dal sublime scoglio di Caspar Friedrich, tentando, in un impeto
classificatorio, di fare ordine in quel mare nebbioso e indistinto;
ciò confonde e ingarbuglia la ragna di una mente che lo
storicismo e la scienza positiva avevano addomesticato nella
consuetudine di un approccio metodologico quasi dogmatico,
tanto che, ora, nell’immergerci in nuove configurazioni e strutture
di pensiero, ci viene svelata inesorabilmente la precarietà del
4
punto di partenza per l’osservazione. Il mare è la tecnica, che
giunge ad installarsi negli automatismi metabolici, nel linguaggio,
nel caleidoscopio di infinite Weltanschauungen, generate dalla
creazione di una nuova Soggettività, la quale si relativizza e
mostra un nuovo arcipelago di forme autonome e allo stesso
tempo connesse le une con le altre. Quindi ci si chiede se,
dominati dall’indistinto, convenga calarsi in nuovi panni scomodi
e tentare un approccio diverso, in cui la poetica e una certa
facoltà di libera associazione pervengano in aiuto all’elaborazione.
La tecnologia insegna l’automatismo ed è bizzarro come sia stato
l’uomo a inscrivere nei propri utensili e macchine questo ritmo
naturale del ritorno dell’uguale, della ripetizione; lo strumento è in
questo senso un reale prolungamento del nostro corpo, ma ciò
che forse è più interessante aprire qui, è una parentesi su un
legame che pone l’elemento biologico e psichico in profonda
affinità con quello tecnico.
Il fascino dell’automatismo costituisce l’impulso pre-razionale e meta
pratico della tecnica, il quale dapprima, e per molti millenni, si esplicò nella
magia – la tecnica del soprasensibile – fino a trovare solo in epoca molto
recente la sua completa espressione in orologi, motori e meccanismi
ruotanti di ogni genere. […] Si tratta precisamente di un fenomeno di
risonanza. Angustiato dall’enigma della sua esistenza e della sua stessa
essenza, l’uomo non ha altra risorsa che cercare di interpretarsi passando
attraverso un non io, attraverso qualcosa di diverso dall’umano. La sua
auto-coscienza è indiretta, il suo tentativo di trovare una formula propria si
svolge sempre nello stesso modo: egli si equipara a qualcosa di non umano,
e nell’equiparazione se ne differenzia. Non è difficile ravvisare tale verità
nei concetti che le grandi religioni monoteistiche e politeistiche hanno delle
divinità, oppure anche nei miti molto più primitivi sulla discendenza
dell’uomo da demoni animali, che una volta avevano larghissima
diffusione
1
.
1
Arnold Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica (1949) , Armando Editore, Roma
2003, p. 40.
5
Il concetto di risonanza viene qui introdotto da Gehlen,
esponente dell’antropologia filosofica, con mirato accento su un
suo ruolo nell’aspetto costitutivo dell’auto-coscienza umana, ne
parla infatti come se fosse l’espressione di «una specie di senso
interno»
2
, che proietta letteralmente l’aspirazione della genesi e
comprensione del sé all’esterno del guscio protettivo della nostra
pelle. Assistiamo qui ad un feedback continuo, ad una ricerca, mai
esaurita completamente, di collocazione nel mondo, la tendenza
ad un limite estremo di comprensione che è esso stesso in nuce a
provocare la nascita dell’Io; potremmo facilmente inquadrarlo
all’interno di un circolo vizioso in cui la ratio e l’auto-coscienza si
generano reciprocamente grazie all’avvento dell’Altro, della
reificazione nell’oggetto, a causa quindi di un’alienazione
costitutiva che per Lacan coincide esemplarmente con lo stadio
dell’immagine allo specchio
3
. Gehlen sembra voler dare una
sembianza, una riconoscibilità a questo oggetto di identificazione
e differenziazione, oggetto che a me sembra corrispondere in
pieno con l’anumano. Partendo da un’azione magica o pseudo
religiosa, i membri delle prime tribù sedentarie crearono idoli e
figure aventi sembianze animali e divine allo stesso tempo. Ciò
che l’uomo vide aldilà di se stesso fu un ibrido tra due sfere
ontologicamente separate che egli bramerà un giorno di
riassociare. La storia della nostra mente, della sua grana, è
strettamente intrecciata con quella tendenza filogenetica a
unificare un’istanza percettiva istintuale, terrena ed una
metafisica, trascendente e per certi versi soprannaturale. Gehlen
getta il proprio sguardo sulla tecnica, e sul principio di
automatismo che la genera, considerandolo dunque un impulso
pre-razionale, che passando per la magia, l’alchimia, arriva a
costituirsi come scienza dell’estremo; il motore tecnologico si
avvia senza morale verso la costruzione di un posto per l’animale
2
Ivi, p.41.
3
Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io, in Scritti,
Einaudi, Torino 1966.
6
nel pantheon della coscienza. Per chiarire questo punto diciamo
che, per Gehlen, l’uomo è un animale indebolito, nel senso che
esso ha sempre avuto una percezione della propria fisicità nuda
come un elemento che si prestasse difficilmente al perfetto
adattamento ad un certo habitat. E viene automatico pensare
come egli si fosse ingegnato il più possibile per adattare a sé la
realtà che lo circondava, impegnato in ogni istante a creare il
mondo dall’immondo, a razionalizzarlo, era come se sentisse il
bisogno di emendarlo, correggerlo dacché in esso non
riconosceva il proprio posto, sensazione che veniva alimentata
altresì dalla vista delle altre creature che sembravano
perfettamente integrate nel loro spazio d’azione.
Proprio questa necessità all’azione fu l’impulso che lo spinse
all’invenzione dell’utensile, della ruota e delle macchine, la
necessità di localizzare l’animale in un oggetto esterno e allo
stesso tempo così prossimo: l’elemento inorganico tecnologico, il
bastone di 2001 Odissea nello spazio (Kubrick S., Gran Bretagna,
Usa,1968), arnese che, alla luce di queste considerazioni, ci
sembra il primo vero trattato di ontologia della storia dell’uomo.
L’aspirazione al progresso tecnologico come ricerca del sé, o per
lo meno come corollario naturale di un impulso pre-razionale,
diremmo trascendentale, della nostra evoluzione biologica si
colloca in tal misura: Gehlen sembra porre questo antefatto per
accettare infine una mutua collaborazione tra campi sperimentali
come la tecnica, la fisiologia, la biologia, la psicologia con la
speranza di poter trasferire questioni e teorie da un settore
all’altro e parla, già nel 1957, del possibile costituirsi di una
scienza autonoma, “la cibernetica”, vedendola come il risultato di
«un programma scientifico di osservazione comune e reciproca
fecondazione di più rami del sapere»
4
. Sembra quasi di sentir
parlare un visionario Lévy, che vede nella realtà del cyberspazio la
creazione di un nuovo spazio antropologico, quello appunto del
4
Arnold Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 46.
7
sapere
5
, che include un salto di paradigma verso ciò che Jameson
definì come peculiare del Postmoderno
6
, verso una nuova
dominante culturale, aggiungeremmo biologica e psichica.
Mi sforzo con difficoltà di rintracciare un saggio che aderisca a
queste riflessioni meglio di Duplicità dell’immagine, discontinuità,
interattività, di Pietro Montani
7
, ma gli spunti iniziali in questa sede
vertono inevitabilmente a operare una preferenza sulle tematiche
di questo testo. C’è una comune linea di pensiero che ricollega il
discorso della tecnica come esplicitazione, oggettivazione, messa
in piega delle radici istintuali e la sua considerazione riguardo
all’avvento di una terza fase di fruizione nelle strutture compositive
della comunicazione umana. Premetto come l’oggetto di questa
comparazione iniziale sia asservito al non semplice compito di
delineare già da ora quelle che saranno le figure concettuali
portanti dello scritto che seguirà. La caratteristica fondamentale
dell’idea di Montani è pertinente rispetto all’evoluzione del
linguaggio che vede la genesi di una terza fase che si fa successiva
ad una prima, l’invenzione della scrittura e la seconda, quella che
McLuhan definì quale “Galassia Gutenberg”, fornendo il grande
apporto di ciò che si può chiamare una “visione alfabetica”
discontinua, «a cui si debbono far risalire alcune insorgenze
semiotiche»
8
. E aggiunge:
per molti secoli (il periodo della “seconda fase”) noi abbiamo avuto con
l’immagine un rapporto intimamente coinvolto con la nostra esperienza
(lineare, discreta, riflessiva) della scrittura. Il che significa […] che noi
abbiamo percepito nell’immagine un’intima duplicità cogliendovi aspetti
5
Pierre Lévy, L’intelligenza collettiva, per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli,
Milano 1999.
6
Frederic Jameson, Postmodern, ovvero, La logica culturale del tardo capitalismo
(1991), Fazi, Roma 2007.
7
Pietro Montani, Duplicità dell’immagine, discontinuità, interattività, in «Close-up»,
n. 14, anno 2003, p. 6.
8
Ivi, p. 7.
8
iconici (riferiti alla densità e alla simultaneità) e insieme aspetti scritturali
(riferiti alla discontinuità e alla successione)
9
.
La terza fase è quella dell’immagine elettronica e digitale che ha
ovviamente influito in maniera preponderante sullo sviluppo
successivo delle arti visive e soprattutto del cinema, ci riferiamo
come è evidente al nodo cruciale da cui è scaturita una delle
rivoluzioni più significative per la teoria estetica contemporanea,
generando dubbi e visioni, e furono veramente in pochi coloro
che pensarono si trattasse di un semplice nuovo apporto
tecnologico, magari evidenziando ad esempio il progressivo
fenomeno di democratizzazione dei mezzi e in generale la
tendenza ad una loro accessibilità totale grazie alla
maneggevolezza, alla duttilità e ad una immane diffusione
all’interno del mercato. Per tutti gli altri si aprirono le porte di
universo quasi sconosciuto che scardinava alcune certezze
semiotiche come alcune linee di evoluzione concettuale che
dapprima sembravano poter essere resistenti per il futuro. Ciò
che l’immagine digitale porta in grembo é una sorta di “antica
duplicità”, in realtà generata come sappiamo dall’elisione della
proprietà indessicale, della traccia fisica, il collante tra l’immagine
e l’impronta del reale. Questo passaggio ha favorito il crescere di
una rinnovata creatività per almeno due aspetti, anzitutto ha
evidentemente rafforzato l’autonomia di uno spazio che si
coordina sempre di più come virtuale, o più semplicemente sotto
il segno dell’apertura di una soglia ambientale alternativa e sempre
più scollegata dalla realtà. Pensiamo alle evoluzioni in luoghi
eterei e labirintici che sembravano richiamare in noi la presenza di
una seconda natura, che oltrepassa addirittura quella onirica,
figure architettoniche o paesaggi desertici in cui la visione si
tramuta in navigazione caotica ed errabonda, Arca Russa
(Sokurov A. Russia, Germania 2001), Gerry (Van Sant G.,Usa,
2002). In secondo luogo in una tale evoluzione configurativa si
9
Ibidem.
9
inscrive il rafforzamento del ruolo profetico del montaggio così
come lo intendeva Ejzenštejn nel considerarlo la base alfabetica
di un nuovo linguaggio, cioè quale
processo di articolazione e ricomposizione del materiale audiovisivo
effettuato attraverso tagli e giunture la cui funzione primaria è proprio
quella di organizzare il flusso delle immagini di un testo dotato di partizioni
riconoscibili. […] Ma questo pensiero si coordina all’immagine in virtù del
fatto che l’immagine stessa sa mostrarsi intimamente duplice, orientata al
flusso ma anche in ogni momento aperta alla discontinuità dell’elemento
scritturale e ai suoi specifici effetti di senso
10
.
Ma il vero apporto di una tale sottolineatura risiede in una
qualità esemplare del montaggio: essa esprime quell’innato spirito,
connaturato nell’oggettivazione artistica umana, di reificare in
forme il ritmo del vissuto. La scrittura cinematografica è, infatti,
una delle declinazioni più illuminanti mai partorite in
un’espressione creativa. Con questa procedura, l’artista, non fa
altro che perpetuare l’esigenza innata di ricerca di uno spazio, di
una configurazione in termini linguistici di un flusso immaginario.
Lynch ne è l’emblema, il regista americano riproduce
continuamente uno sforzo sovversivo all’interno del montaggio,
mirando ad una conclusiva disposizione arbitraria in piani
orizzontali tra fasi oniriche e psicologiche con altre di veglia
connesse maggiormente con una rappresentazione più o meno
classica della realtà. In questo modo egli non comunica forse la
necessità atavica di dover configurare in qualche modo le dinamiche
inconsce e fantasmatiche, i ritmi interiori, le percezioni mentali
attraverso un medium scritturale o peculiarmente linguistico? A
mio parere non assistiamo ad uno sforzo raziocinante, ma a un
disperato e riuscito tentativo di associare nell’immagine le
procedure fusionali e vaghe tipiche del suo immaginario con un
intento discorsivo e strutturante che assume dei caratteri metodici
di grande espressività, i quali entrano in paradosso evidente col
10
Ivi, p. 8.
10
risultato raggiunto nel comunicare direttamente il mondo dal suo
interno più profondo. Il ricettacolo di allusioni sull’inconscio e
frustrazioni psicologiche, viene sviluppato in una tale forma
discorsiva a partire dai cortometraggi giovanili proseguendo
attraverso film come Eraserhead, Velluto Blu, Strade Perdute,
Mulholland Drive, (Lynch D. Usa, 1977, 1986, 1997, 2001) fino a
raggiungere una summa espressiva con Inland Empire (2006), dove
il regista americano scompagina la realtà facendo della mente un
antro profondo da dissezionare, ma soprattutto da consumare
sulla scorta di un apprendistato rivolto ad uno spettatore ormai
abilitato all’interpretazione grazie alla conoscenza delle opere
precedenti. Ciò nonostante Inland Empire si presenta al pubblico
come un film criptico, di difficile assimilazione, poiché Lynch ha
spinto ai limiti estremi le articolazioni del proprio linguaggio,
trascinandoci nell’aleatorietà di sequenze radicalmente estranee le
une alle altre che rivendicano un’autonomia schiacciante,
quest’opera si profila in tal modo come un dono per posteri
automatizzati dal consolidamento di una cognizione dello spazio-
tempo quasi ipertestuale. Ecco che l’avvento dell’immagine
elettronica e del digitale, spostando l’interesse dello spettatore su
«quei tratti di immediatezza e simultaneità che “la visione
alfabetica” aveva saputo superare e integrare con complesse
mediazioni cognitive»
11
, ci propone un’apparente superamento
delle procedure scritturali classiche proprio per rammentare che
esiste una percezione diretta, deprivata dalla concezione classica di
tempo e racconto in cui i filtri della ratio e del linguaggio possono
essere ridotti al minimo, con una conseguente equivalenza tra la
coscienza e il flusso. E Montani aggiunge nell’abbozzare una tesi
provvisoria di carattere generale che
L’immagine elettronica tende a fluidificare; quando essa è ancora
riproduttiva (come nel digitale) questa fluidità è un criterio per orientarsi nel
11
Ivi, p. 9.
11
mondo; quando è solo produttiva (come nel numerico), la fluidità funge da
principio costruttivo di un mondo
12
.
E in seguito arriva ad un azzeccato parallelismo con Nietzsche
e La nascita della tragedia
13
prendendo spunto dall’idea di
montaggio venuta a delinearsi fin qui, associandola alla
rappresentazione tragica: un montaggio di musica e immagine,
una liason tra due mondi che vedono la luce tra le forme del
nascente spettacolo attico, parliamo dell’Apollineo e del
Dionisiaco. É come se tra di essi sussista un principio di
indiscernibilità, grazie al quale non solo l’uno si figura grazie
all’apporto dell’altro, ma ne deriva una sostanziale qualità di
scambio, «essa si presenta come coro dionisiaco che sempre di
nuovo si scarica in un mondo apollineo di immagini»
14
. Nietzsche
in tal modo cristallizza alla base del processo artistico,
proiettando questa struttura anche nelle forme moderne e
riponendone le sue fondamenta, questo legame necessario tra due
universi distinti, che si vengono incontro continuamente, in un
palleggio continuo di rimandi e intersezioni, quasi a garantire che
non ci sarebbe mondo per l’istintualità ritmica animale senza un
pensiero che marchi l’immagine dei suoi connotati razionali e
viceversa. Ma allora secondo Montani siamo forse di fronte
all’avvento di una nuova percezione della cultura in tutti i suoi
aspetti? Se è vero che la nascita della tecnica per Gehlen esplode
grazie all’azione, più o meno volontaria dell’uomo, mirata alla
ricerca di una sorta di adattamento peculiare e risiede nel più
intimo recesso degli impulsi pre-razionali, allora possiamo
serenamente asserire come la nascita della tragedia promosse
l’avvento del pensiero linguistico e apollineo in seno al più grande
esperimento di alfabetizzazione sociale mai avvenuto
12
Ivi, p.10.
13
Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, dallo spirito della musica, Demetra,
Verona 1996.
14
Ibidem.
12
nell’antichità e che l’arte in quanto τέχνη (téchne), subì altrettanto
la natura originaria di una spinta verso un’alienazione iniziale
dalle caratteristiche animali, asservita alla definizione di uno
spazio più o meno virtuale in cui poterle fissare e dal quale ci si
poté scorgere e sottendere alla genesi dell’Io. Sulla scorta di
queste considerazioni il rivelato getta le basi per la costruzione di
un progresso tecnico, un impulso artistico e una riflessione
ontologica. Ma la componente additiva di una evoluzione del
medium risponde al nome di proprietà interattiva tra l’utente
fruitore e l’immagine audiovisiva digitale o l’esteso cyberspazio
con le sue erranze ipertestuali. É l’aspetto fondamentale di questa
parentesi, il soggetto scopre un ambiente che lo chiama a mettere
in pratica il proprio volere, fronteggiando un oggetto, quello
digitale, che si presenta per le proprie caratteristiche in una forma
genetico-relazionale:
oggi si tratta precisamente di lavorare su questa richiesta di innalzamento
della soglia di interattività conformandola al criterio che ho già indicato,
vale a dire quello di una crescente sinergia tra la dimensione del flusso e
quella dell’articolazione, o, insomma, tra immagine e scrittura. Lo
spettatore interattivo in tal modo dovrebbe poter assumere crescenti
responsabilità di riscrittura (in senso forte) di un’immagine che non finisce
di ripresentargli la generosità (dionisiaca e musicale) del flusso
introducendovi modificazioni irreversibili
15
.
La versione dell’utente fruitore classica viene qui scardinata da
una storica passività, grazie al nuovo rapporto consolidato con un
oggetto tecno-artistico-interattivo
16
passibile di emendabilità e il
correlato naturale di un tale costrutto di forze risponde a criteri
rivoluzionari nei campi dell’utenza audiovisiva, dell’informazione,
della psicologia, dell’antropologia e, in generale, della maggior
parte degli aspetti socio-culturali. Una lettura coerente
chiamerebbe in causa l’idea di un possibile approdo per la cultura,
15
Pietro Montani, Duplicità dell’immagine, discontinuità, interattività, cit. p.13.
16
Ibidem.
13
almeno in una ben circostanziata configurazione dinamica: il
flusso dionisiaco e musicale che investe i nodi potenziali di un
immaginario istintuale si trova ormai nello schermo sotto forma
di materia modellabile ed esperibile attivamente dall’utente
fruitore. É l’avvento di una nuova interiorizzazione del mondo da
parte dei suoi abitanti. A questo proposito é del tutto pertinente
l’analisi di Gehlen sulla soggettività moderna sorretta da questa
paradigmatica dipendenza tra l’individuo e il composito milieu
esteriore che lo circonda, relazione che non può esimersi dal
comunicare una profonda dialettica inedita e inserita nel sostrato
di un mutamento culturale visibile a tutti. Parzialmente ignaro
degli sviluppi legati al progresso tecnologico negli anni a venire,
l’antropologo tedesco intravede tuttavia nelle pieghe di una
società frammentata e introspettiva, i segnali di una crescente
psichicizzazione, ne parla in un capitolo non a caso intitolato Il nuovo
soggettivismo
17
. La dimensione sociale assume per lui un carattere
talmente vincolante da suscitare nell’individuo un sentimento di
dipendenza assoluta verso le dinamiche esteriori che lo dominano
quotidianamente. Allo stesso tempo si registra una graduale
perdita di peso della realtà che si riflette nel momento catartico
della fine di un’impostazione soggettiva moderna, essa si esaurisce
infatti con il boom economico degli anni cinquanta logorandosi
nei barlumi dell’isolamento psichico e dei nuovi criteri di continua
autovalutazione che sono il riflesso di una domanda esterna
incessante. Qual è la specializzazione professionale che ti si
addice? Sei sicuro di sapere quello che vuoi? Questioni poste dal
mondo lavorativo e da una nascente società dei consumi.
Seguendo tali imposizioni le personalità moderne sentono la
necessità di far valere se stesse in un raggio di azione che la legge
della gratificazione meglio gli suggerisce, schiavi e autori di un
gioco perverso che li traghetta verso un pastiche tra serio e
ridicolo.
17
Arnold Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit. p.83.