5
Stato
1
, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e
con quello delle altre Regioni”
2
; mentre la competenza attuativa dell’ ultimo
comma dell’ art. 117 fu rimessa alla sola discrezionalità dello Stato, il quale con le
proprie leggi poteva demandare alle Regioni il potere di emanare norme di
attuazione delle leggi statali.
All’ interno dell’ ordinamento italiano, nato dall’ assetto costituzionale originario,
le Regioni assunsero il ruolo di enti territoriali pubblici autonomi a rilevanza
costituzionale, in quanto espressamente previsti e garantiti appunto dalla
Costituzione, dalla quale traevano i loro poteri e la loro autonomia. La Repubblica
si ripartiva così nelle Regioni, Provincie e Comuni, secondo il disposto dell’
articolo 114 Cost. (formulazione originaria), pur essendo una ed indivisibile ex
articolo 5 della Costituzione
3
. Tale articolo, già nella posizione che assunse
all’interno del testo della Costituzione
4
, fu inserito infatti fra i principi
fondamentali, ma soprattutto per la sua proclamazione dell’ indivisibilità e dell’
unità della Repubblica, pur con la garanzia, il riconoscimento e la promozione delle
autonomie locali e del decentramento, si pose quale punto di partenza per
interpretare le norme riguardanti i rapporti fra lo Stato e le Regioni e assunse il
ruolo di un valore fondamentale attraverso il quale leggere le norme del Titolo V
della parte seconda.
1
“Si tratta di un limite peculiare che si differenzia da quello dei principi generali dell’
ordinamento in base a criteri quantitativi.”. In ANZON A., I poteri delle Regioni dopo la riforma
costituzionale. Il nuovo regime e il modello originario a confronto, Giappichelli Torino, 2002,
pag. 84.
2
Era questa la formulazione originaria del primo comma dell’ art. 117 della Costituzione.
3
“...l’indivisibilità e l’ unità devono la loro introduzione nella Costituzione all’ intenzione dei
Costituenti di consacrare l’identità comune e l’unità politica da poco ricostruita, nonché
proclamare la contrapposizione dello Stato italiano allo stato federale.”. In ANZON A., I poteri
delle Regioni dopo la riforma costituzionale. Il nuovo regime e il modello originario a confronto,
Giappichelli Torino, 2002, pag. 68.
4
-Si tratta di una disposizione che, originariamente collocata in apertura del Titolo V della parte II
della Costituzione, nella redazione definitiva fu scorporata e collocata nella parte iniziale della
Costituzione dedicata appunto ai “Principi Fondamentali”.- Così in ANZON A., I poteri delle
Regioni dopo la riforma costituzionale. Il nuovo regime e il modello originario a confronto,
Giappichelli Torino, 2002, pag. 69.
6
Le Regioni si trovarono, perciò, da una parte, a rivendicare nei confronti dello
Stato la propria autonomia, dall’ altro a doversi uniformare e qualche volta
sottostare a questo in nome dell’ indivisibilità e dell’ unità dalla Repubblica.
La Regione, come ente territoriale, fonda la sua esistenza su tre elementi
costitutivi: il territorio, che ne caratterizza non solo i confini geografici ma anche
quelli politici e giuridici; una comunità stanziata nel medesimo territorio, che l’ente
è capace di sottoporre alle proprie regole; infine una organizzazione politica
autonoma da quella statale, in quanto dotata di organi direttamente eletti dalla
comunità regionale. Questi elementi determinano il carattere locale della Regione
rispetto a quello nazionale dello Stato, e la scelta dell’ Assemblea Costituente fu di
amplificare tale carattere, ponendo alle potestà regionali una serie di limiti la cui
ratio era giustificata proprio dalla loro regionalità.
Per valutare complessivamente il ruolo delle Regioni all’interno della Repubblica
bisogna valutare l’intero ordinamento giuridico italiano, che basa la propria
esistenza sul sistema delle fonti del diritto e cioè su quegli atti o fatti giuridici
capaci di produrre, modificare e rinnovare il diritto stesso. Tale sistema,
descrivibile in termini piramidali, è un sistema caratterizzato da una rigidità,
dovuta dalla rigidità della Costituzione, per cui le fonti che si trovavano più in alto,
nella scala piramidale, sono capaci di condizionare, in quanto gerarchicamente
superiori, quelle più in basso; mentre lo stesso non vale nel caso contrario. Questo
sistema è, infatti, strutturato secondo uno schema che trova al suo vertice la
Costituzione, la quale non può essere condizionata dalle altre fonti che può essa,
invece, condizionare. La Carta Costituzionale impone alle fonti ad essa
subordinate una serie di limiti e, nel disciplinare il rapporto fra quelle statali e
quelle regionali, dispone che queste siano distintamente competenti a legiferare
nelle materie da essa indicate. Il principio della competenza, che può assumere
7
diverse forme, si aggiunge a quello gerarchico, ci si combina e lo rispetta, operando
nei limiti e nei confini segnati da quest’ ultimo. La competenza opera nei confronti
del principio gerarchico in modo tale che quando la Costituzione conferisce
esclusivamente ad una fonte il potere normativo in determinate materie, questa
possa intervenire a disciplinarle senza l’ ingerenza delle altre (questo è ciò che
accade quando vi è una competenza esclusiva); ovvero due diverse fonti possono
essere entrambe competenti a disciplinare, con apporti diversi, la stessa materia
(questo è quanto che accade nella competenza concorrente); può infine essere che
una fonte demandi ad un’ altra fonte, che trae la sua legittimazione proprio dalla
delega, il potere legislativo di cui essa é stata dotata, potendosi in questi casi
sottoporre la fonte gerarchicamente inferiore a tutti i limiti che si ritengono
opportuni non avendo quest’ ultima un potere legislativo proprio (e questo accade
nella competenza delegata).
Da ciò discende che per la Costituzione (e quindi per la Corte costituzionale
5
) la
legge statale e quella regionale siano legittime quando abbiano rispettato i limiti
gerarchicamente imposti. Il giudizio di validità-invalidità delle norme, quali
prodotti delle fonti
6
, opera nel senso di una verifica del rispetto dei limiti imposti,
che possono essere di due tipi: sostanziali ovvero formali. Per i limiti sostanziali il
giudizio si basa su una verifica del contenuto dell’ atto esaminato, per quelli
formali si basa su un controllo delle regole imposte per la sua formazione. Per la
competenza il giudizio si effettua attraverso un controllo sul contenuto dell’atto,
ossia se l’ oggetto rientra nelle materie affidate alla competenza di quell’ organo o
di quel soggetto (quale limite sostanziale), ma, anche, attraverso un controllo sul
soggetto, in quanto deve essere competente a produrre quel determinato atto nel
5
Essendo l’ organo costituzionale a cui compete tale giudizio.
6
“ Il discorso sulle condizioni di esistenza, di validità e di efficacia delle fonti si muove su un
piano diverso e separato (se pur non indipendente) dall’ analogo discorso che si dovrà svolgere
relativamente alle norme che ne sono il prodotto.”, Così SORRENTINO F., Le fonti del diritto,
Ecig Genova, 1997, pag. 14.
8
rispetto della regola procedurale imposta (limite formale); questo perché il
principio della competenza come limite si pone idealmente a metà fra i limiti
sostanziali e quelli formali.
L’ atto di legislazione primaria regionale è lo Statuto regionale. Nel sistema come
delineato dai Costituenti erano, e sono ancora oggi, previsti due diversi tipi di
statuti, in considerazione della loro diversa natura.
L’ art. 116 della Costituzione prevedeva che “Alla Sicilia, alla Sardegna, Al
Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d’Aosta sono attribuite
forme e condizioni particolari di autonomia, secondi statuti speciali adottati con
leggi costituzionali”. L’approvazione degli statuti per le Regioni ivi previste con
legge costituzionale comportava che questi atti-fonte potessero essere considerati
alla stregua del criterio gerarchico formalmente al pari della Costituzione, per cui
sottoposti solo ai limiti impliciti che discendono dalla lettura della Costituzione in
senso materiale, primo fra tutti l’art. 5.
Diverso, invece, era il discorso relativo agli statuti delle Regioni ordinarie, i quali
venivano adottati dal Consiglio regionale e approvati con legge della Repubblica
7
,
se pur si dubitò della natura di tale approvazione, in quanto poteva considerarsi
quale forma di controllo statale ovvero quale atto formale di recezione
8
. Per questi
atti la Costituzione, sempre nell’ art. 123, prevedeva che essi si armonizzassero non
solo con la Costituzione stessa ma anche con le leggi della Repubblica. Questi atti-
fonte si trovavano in rapporto con la legge regionale, atto che concerneva il vero
perno della legislazione locale in quanto idoneo a garantire gli interessi particolari
di cui la Regione si faceva carico, di sovrapposizione gerarchica per cui la legge
doveva sottostare alle norme fissate dallo statuto; ma anche, in un certo senso, in
7
Era questo l’iter deliberativo previsto dal secondo comma dell’ art. 123.
8
“In altri termini, le leggi statali di cui al capoverso dell’ art. 123 presentano un carattere
meramente formale, nel senso che le Camere non possono emendare.”. In PALADIN L., Le fonti
del diritto costituzionale,Il Mulino Bologna, 1996, pag. 303.
9
un rapporto di separazione delle competenze, essendo attribuito allo statuto il solo
potere di emanare norme relative all’ organizzazione interna della Regione, nonché
“lo statuto regola l’ esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e
provvedimenti amministrativi della Regione e la pubblicazione delle leggi e dei
regolamenti regionali”
9
.
La legge regionale oltre ai vincoli strutturali imposti dallo statuto era logicamente
sottoposta alla Costituzione che dettava una serie di limiti generali, discendenti da
quella unità politica proclamata dall’ art. 5.
Innanzitutto veniva dettato il limite del territorio, ossia quel limite di natura logica
che vedeva l’ interesse dell’ ente autonomo a disciplinare solo le situazioni
verificabili nello spazio geografico e politico di cui aveva avuto attribuita la
potestà
10
; in secondo luogo i limiti del diritto privato e del diritto penale. Questi
due ultimi limiti, giustificati dall’ importanza delle materie in vista dell’ esigenza
di unità, non consentivano al legislatore regionale di adottare norme che
rientrassero nella disciplina del codice civile ovvero di stabilire proprie norme
incriminatici. Un ulteriore limite generale imposto alla legge locale era quello del
rispetto dei precetti emanati dallo Stato in ottemperanza agli obblighi internazionali
che aveva assunto con gli altri Stati, soprattutto da quando l’ Italia era divenuta
membro della Comunità europea, la quale era capace di dettare norme che, se pur
facenti parti di un ordinamento separato, avevano acquistato una grande rilevanza
nell’ ordinamento interno.
9
Articolo 123, 1 comma, Costituzione
10
Martines scriveva“ Il c.d. limite territoriale si specifica nell’ art. 120 Cost., a norma del quale la
Regione non può istituire dazi d’ importazione o esportazione o transito tra le Regioni; non può
adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e
delle cose tra le Regioni e può, altresì, limitare il diritto dei cittadini di esercitare in qualsiasi parte
del territorio nazionale la loro professione, impiego o lavoro. Il limite ha poi assunto una
dimensione più ampia, e risulta ulteriormente specificato e garantito, a seguito della costituzione
della Comunità/Unione Europea, della quale, come si sa, il nostro Paese fa parte”. In MARTINES
T., Lineamenti di diritto regionale, Giuffrè Milano, 2000, pag. 186.
10
A questi limiti generali seguivano, poi, quei limiti fissati dall’ art. 117 della
Costituzione il quale, nel conferire la potestà legislativa alle Regioni, attribuiva una
competenza concorrente per le materie tassativamente indicate ed un’ eventuale
competenza attuativa demandata dallo Stato. Lo schema dell’ art. 117 stabiliva al
primo comma che le Regioni avessero una competenza per le materie che
seguivano nel rispetto dei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge dello
Stato
11
, da cui risultava una competenza concorrente fra lo Stato e le Regioni che
legittimava lo Stato a dettare i principi fondamentali e le Regioni, nel rispetto di
questi, la normativa di dettaglio. Il rapporto tra queste due fonti fu inteso, al fine di
non creare vuoti legislativi, nel senso che i principi statali potessero essere desunti
dalle Regioni non solo da leggi cornice emanate esclusivamente a questo scopo, ma
anche attraverso un’ interpretazione della normativa statale vigente. Quando poi
intervenivano le norme di principio, si sollevavano molti quesiti di legittimità
costituzionale di fronte alla Corte costituzionale in quanto, spesse volte, la
legislazione statale, da normativa di principio si tramutava in normativa di
dettaglio. I problemi sorgevano soprattutto considerando che il rapporto di
subordinazione gerarchica fra norme di principio e norme di dettaglio potesse far si
che le prime (i principi) condizionassero le seconde (norme di dettaglio) al punto
da non poter essere rintracciata nessuna discrezionalità in quest’ ultime, con
contestuale annullamento della competenza regionale; nonché infine molti dubbi
sorgevano nella difficile ricostruzione e definizione dei confini di molte materie
previste dall’ art. 117 Costituzione (previgente).
Discorso a parte merita, invece, il limite dell’ interesse nazionale e quello delle
altre Regioni, limite ulteriore rispetto a quello dei principi fondamentali delle leggi
11
“ I principi in esame (l’autore si riferisce ai principi generali dell’ ordinamento) attengono all’
ordinamento visto nel suo complesso e non settorialmente come è, invece, per i principi
fondamentali stabiliti per ciascuna materia di competenza legislativa ripartita”. In MARTINES T.,
Lineamenti di diritto regionale, Giuffrè Milano, 2000, pag. 199.
11
dello Stato, previsto sempre dall’ art. 117 e dall’ articolo 127 della Costituzione
(testo originario) che, nel disciplinare l’ azione per la questione costituzionale
proposta dal Governo avverso una legge regionale, prevedeva anche l’ ipotesi di
conflitti di merito, relativi appunto al rispetto dell’ interesse nazionale e di quello
delle altre regioni, da risolversi davanti le Camere. Tale limite configurato dai
Costituenti quale limite negativo di merito
12
in grado di conferire al Parlamento un
sindacato politico sulle scelte regionali in ragione dell’ unità nazionale, fu
trasformato dalla Corte in un limite di legittimità attraverso un ragionamento
secondo il quale “.. nel quadro dell’ unità e della indivisibilità dello Stato,
sussistono limiti alla potestà legislativa regionale per assicurare il rispetto degli
interessi nazionali, (omissis) tali limiti funzionano non soltanto in senso negativo,
nel senso, cioè, che la legge regionale non può oltrepassarli, ma anche nel senso
che essi offrono la base per il legittimo esercizio della potestà legislativa e
amministrativa dello Stato.”
13
. La sede naturale di risoluzione dei contrasti fra lo
Stato e le Regioni, in relazione a tale limite, era destinata a divenire il giudizio di
legittimità costituzionale
14
piuttosto che quella politica. La Corte costituzionale
attraverso l’ utilizzazione dell’ interesse nazionale, quale limite di legittimità, come
si vedrà nel corso di questo lavoro, trovò il mezzo idoneo per definire, in ipotesi di
contrasto, i problemi concernenti la definizione e gli ambiti delle materie rientranti
nella competenza concorrente attribuita alle Regioni, muovendo dall’
argomentazione secondo la quale nella stessa materia, potevano essere presenti due
diversi livelli di interesse: uno locale delle Regioni, l’altro nazionale dello Stato; se
12
“ … come limite negativo di carattere politico, e cioè come ostacolo da non superare, non come
fine da perseguire”. In ANZON A., I poteri delle Regioni nella transizione dal modello originario
al nuovo assetto costituzionale, Giappichelli Torino, 2003, pag. 100.
13
Sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 1966, in Giurisprudenza costituzionale, 1966, pag.
684.
14
Rinvio a capito IV.
12
pur così configurato l’ interesse nazionale risultava essere vago e non di
definizione certa.
Il limite dell’interesse nazionale si prestò quale strumento capace di rendere
dinamico un assetto costituzionale statico, infatti secondo la Corte “A differenza di
tutti gli altri limiti imposti (…) l’interesse nazionale non presenta affatto un
contenuto astrattamente predeterminato nè sotto il profilo sostanziale nè sotto
quello strutturale. Al contrario, si tratta di un concetto dal contenuto elastico e
relativo (omissis) che acquista un significato concreto soltanto in relazione al caso
da giudicare, l’interesse nazionale può giustificare interventi del legislatore statale
in ordine tanto generale e astratto quanto dettagliato e concreto.”
15
.
Se la valenza dell’ interesse nazionale delineata dalla Corte costituzionale dava la
possibilità al legislatore statale di intervenire, anche in maniera penetrante, nel
diritto regionale, i rapporti tra i due enti si strutturavano anche con il riferimento a
dati extra-costituzionali, tra i quali il principio di leale collaborazione. Il principio
traeva la sua origine
16
, non essendo di esplicita previsione costituzionale, dall’art. 5
Cost. nella parte in cui garantisce il riconoscimento delle autonomie e il
decentramento, ed operava nel senso di necessaria collaborazione fra i due enti. Il
principio cooperativo, quindi, si muoveva nella direzione di un limite che
imponeva una azione coordinata allo Stato con le Regioni, quando attraverso il
ricorso all’ interesse nazionale il legislatore statale si trovava legittimato ad
intervenire in ambito locale.
Il modello costituzionale originario risultava, così, un modello ibrido caratterizzato
da una parte da una netta separazione delle ipotesi in cui lo Stato e le Regioni
15
Sentenza della Corte Costituzionale del 1988 n. 177, in Giurisprudenza Costituzionale, 1988,
pag. 623.
16
“Non è previsto dalla Costituzione che designa il modello regionale italiano, ma costituisce, sia
pure sulla base di spunti offerti dalla normativa costituzionale, una creazione della giurisprudenza
costituzionale, della dottrina e della prassi legislativa ordinaria.”, Così ANZON A., I poteri delle
Regioni nella transizione dal modello originario al nuovo assetto costituzionale, Giappichelli
Torino, 2003, pag. 135.
13
avevano la possibilità d’intervento, un regionalismo, cioè, di tipo “duale”, che si
stemperava, dall’ altra, attraverso l’utilizzo dell’ interesse nazionale e del principio
di leale collaborazione verso un regionalismo di tipo “cooperativo”
17
.
Tuttavia il modello regionale cooperativo verso cui l’ Italia si stava muovendo,
poteva funzionare se la collaborazione fosse avvenuta fra enti che fossero
considerati e trattati come enti di pari dignità; tale parità nel disegno costituzionale
originario però non vi era, in quanto la scelta, operata dai Costituenti, inerenti i
ruoli che dovevano assumere gli enti territoriali, era stata condizionata dall’
esigenza di garantire l’ unità nazionale da poco conquistata. La posizione primaria
che assunse il legislatore nazionale rispetto a quelli regionali, consentì a questo di
effettuare scelte politiche di stampo difensiviste
18
piuttosto che garantiste, nel senso
cioè di scelte che muovevano spesso considerando gli enti territoriali più come un
limite ai poteri del Parlamento che come elementi necessari della Repubblica.
La prova più evidente della mancata equiparazione fra lo Stato e le Regioni si
trovava nello stesso dato testuale della Costituzione e nelle norme da esso
discendenti. Infatti rilevava in primo luogo la terminologia usata dal Costituente
che, nell’ attribuire la competenza legislativa concorrente alle Regioni, conferiva il
potere di emanare norme legislative senza un riferimento esplicito ad una vera e
propria potestà, quasi a dimostrare che la potestà legislativa fosse attribuibile solo
allo Stato.
17
“ Il regionalismo garantista, dunque, non poteva funzionare appieno in Italia. Ma anche il
regionalismo cooperativo sembrava destinato non a sorte migliore.” LUCIANI M., Un
regionalismo senza modello, in le Regioni n. 5, 1994, pag. 1322.
18
“Questo (abbozzo di) modello (il regionalismo garantista) –l’ autore si riferisce al modello
delineato dai Costituenti- era del resto perfettamente coerente con quel tanto d’ intenzioni di fondo
che un po’ tutti i costituenti avevano in comune, quando, dopo l’ esperienza autoritaria del
fascismo, miravano anche sul piano del rapporto Stato ed autonomie territoriali ad arginare i
possibili eccessi di potere. Come ha scritto lucidamente Crisafulli:-alla Costituente, dominante e
determinante risultò la concezione liberal-garantista delle autonomie regionali: le Regioni come
limite al potere (dello Stato), e pertanto garanzia di libertà contro ogni avventura autoritaria
(omissis).- Questa concezione “difensivista” del regionalismo era conseguentemente in armonia
anche con l’ impianto generale della forma di governo, nella quale si erano privilegiati il controllo
e la limitazione del potere, piuttosto che l’ efficacia del suo giudizio”.LUCIANI M., Un
regionalismo senza modello, in le Regioni n. 5, 1994, pag. 1317-18.
14
La disparità fra i due enti risultava anche attraverso la lettura delle disposizioni
relative all’ esercizio dell’ azione per vizio di legittimità costituzionale delle leggi
regionali e statali ad opera rispettivamente dello Stato e della Regione. L’articolo
127 Cost., nella formulazione originaria, consentiva allo Stato sia un controllo di
merito –di scarsa rilevanza pratica in quanto mai usato- sia il normale giudizio
costituzionale, qualora la legge regionale risultasse eccedere le competenze ad essa
conferite (e quando contrastava con l’interesse nazionale o quello delle altre
regioni); alla Regione era consentito, dalla legge costituzionale n. 1 del 1948,
proporre il giudizio solo successivamente alla pubblicazione della legge statale (e
di altre regioni) e solo se questa aveva leso le proprie competenze, confermando
un’ asimmetria delle posizioni dei due enti
19
, che anche la Corte costituzionale
confermava, così da dichiarare nella sentenza n. 302 del 1988 che “Con
giurisprudenza costante e da tempo consolidata (omissis), questa Corte ha
affermato che nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale la regione,
agendo a tutela di una propria competenza che si assume violata, può impugnare le
leggi dello Stato (o quelle di altre Regioni) soltanto ove deduca che queste siano
lesive di una propria sfera di competenza costituzionalmente garantita.”
20
.
19
“Che questa limitazione dell’ impugnativa regionale fosse una spia della condizione di minorità
delle Regioni lo dimostra, se si vuole, la stessa evoluzione della giurisprudenza costituzionale, che
proprio nel tentativo di riequilibrare i rapporti di forza fra lo Stato e le Regioni ha offerto in tempi
più recenti numerosi segnali di minore rigidità.” LUCIANI M., Un regionalismo senza modello, in
le Regioni n. 5, 1994, pagg. 1323, 1324 .
20
Sentenza della Corte costituzionale n. 302 del 1988, in Giurisprudenza Costituzionale, 1988,
pag. 1236.
15
Paragrafo II. Le funzioni amministrative e il decentramento amministrativo.
La formulazione originaria dell’ articolo 118 Cost. prevedeva che alle Regioni
fossero attribuite le funzioni amministrative attraverso il principio del parallelismo,
secondo il quale a queste spettavano le funzioni amministrative nelle stesse materie
elencate dall’ articolo precedente, relativo alle potestà legislative regionali. I dubbi
circa gli ambiti di competenza amministrativa regionale logicamente erano gli
stessi inerenti la definizione delle materie oggetto di competenza legislativa e
medesimi i limiti, anche se la previsione del primo comma dell’ articolo
aggiungeva la possibilità che il legislatore statale potesse attribuire alle Province, ai
Comuni o ad altri enti locali funzioni amministrative di interesse esclusivamente
locale, dove il termine esclusivamente fu legato, attraverso un’opera interpretativa,
ai criteri di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Il quadro d’ insieme dell’
assetto amministrativo originario, era completato dalla disposizione del secondo
comma dell’articolo 118 Cost. (versione previgente), dalla funzione di indirizzo e
coordinamento e dal potere sostitutivo statale; per cui se da una parte la norma
costituzionale, da ultimo richiamata, prevedeva la possibilità di una delega statale
alle Regioni per materie ulteriori rispetto a quelle parallele all’ articolo 117, dall’
altra la funzione di indirizzo e coordinamento e il potere sostitutivo statale
consentivano un ridimensionamento dei poteri regionali amministrativi attuabili
mediante il ricorso alla previsione costituzionale.
La funzione di indirizzo e coordinamento e il potere sostitutivo statale non
trovavano la loro diretta derivazione nella Costituzione, ma erano previsti da atti di
legislazione ordinaria (in particolare dalle leggi delega nn. 281 del 1970 e 382 del
1975 e dal d.P.R. n. 616 del 1977, in relazione al trasferimento delle funzioni
amministrative alle Regioni).