4L’avvento della nuova codificazione ha segnato l’unificazione dei
codici e in particolare, con la scomparsa del codice di commercio, la
soppressione della distinzione tra contratti “civili” e contratti “commerciali”
(
3
). Nonostante ciò, la dottrina formatasi sul vigente codice civile si è
interrogata se sia possibile o meno ancora oggi individuare una categoria di
“contratti di impresa”.
soprattutto, rurali. Esso, elaborato sullo schema del Code Napoléon (1804), era incentrato
sulla proprietà e considerava tutte le regole in funzione della sua tutela. Il codice di
commercio del 1882 era, all’opposto, il codice della borghesia commerciale e della
nascente borghesia industriale: non più la ricchezza immobiliare e le esigenze della sua
conservazione e del suo sfruttamento venivano in considerazione, ma la ricchezza
mobiliare e le esigenze della sua valorizzazione. Il centro del sistema normativo si
spostava, quindi, nel codice di commercio, dalla proprietà ai contratti. Questi non erano
concepiti, come nel codice civile, alla stregua di un modo di acquisto o trasmissione della
proprietà, ma erano pensati quali strumenti di speculazione: la loro funzione era di
soddisfare, nel rapporto fra commerciante e consumatore, tra commerciante e fornitore,
fra commerciante e proprietario degli strumenti di produzione, esclusivamente
l’aspettativa del profitto. Nell’ipotesi in cui un contratto fosse intercorso fra un
“commerciante” e un “non commerciate”, prevaleva il codice di commercio: il tutto a
dimostrazione del fatto che, tra le antagoniste classi sociali, era predominante la
borghesia industriale e commerciale. Quale reazione a questa situazione iniqua, già alla
fine del secolo scorso si erano levate, in Italia, voci favorevoli ad una riforma che
unificasse il diritto privato. Mediante l’unificazione dei due codici si è inteso rimarcare
un fondamentale aspetto normativo, quale quello dell’eguale trattamento giuridico dei
rapporti tra i privati, indipendentemente dalla condizione sociale ed economica di questi;
così facendo si era disegnata l’immagine di una equilibrata società civile, nella quale
gli interessi della classe mercantile fossero coordinati con quelli dei proprietari, dei
consumatori e dei lavoratori. Il principio dell’eguale trattamento giuridico di tutte le
persone, indipendentemente dalle loro condizioni sociali o economiche, era già alla base
del code civil francese, detto anche Code Napoleon dal suo principale promotore e
ispiratore. A tale principio finì infatti per approdare, nella legislazione napoleonica,
l’istanza egalitaria sollevata dalla rivoluzione francese del 1789. Per un approfondimento
storico su quest’ultimo punto v. G. S. PENE VIDARI, Costituzioni e Codici, Appunti di
Storia del diritto italiano, Torino, 1996, p. 61 e ss.
(
3
) In precedenza si aveva una compravendita commerciale ed una compravendita civile,
una locazione commerciale ed una locazione civile, un mutuo commerciale ed un mutuo
civile, e più in generale obbligazioni commerciali ed obbligazioni civili. E’ chiaro che in
questi casi gli elementi economico-sociali sottoposti alla valutazione normativa nei due
campi erano identici. Se dunque il regolamento era diverso, ciò non poteva dipendere che
da una diversa valutazione che degli stessi elementi aveva fatto il legislatore, la quale a
sua volta era rivolta allo scopo di soddisfare esigenze diverse. Sul punto cfr. E. GLIOZZI,
Dalla proprietà all’impresa, Milano, 1991, p 21.
5La configurabilità dei contratti d’impresa, come categoria autonoma,
è stata affermata da alcuni autori (
4
) in base alla individuazione di una serie
di indici normativi ed extranormativi che sembrano conferire omogeneità
alle figure negoziali inserite nell’attività d’impresa, e attraverso la
rilevazione di un gruppo di disposizioni di carattere generale, che, facendo
riferimento ai contratti dell’imprenditore (
5
), paiono delineare «più
fattispecie collegate da momenti di disciplina comune per un loro carattere
comune» (
6
).
Un’altra parte della dottrina, al contrario, ha negato che i contratti
d’impresa possano costituire una speciale categoria a sé stante, in quanto le
norme regolatrici dei contratti in generale non fanno discendere
conseguenze particolari dal fatto che uno dei contraenti sia un imprenditore
o che la prestazione dedotta in contratto sia inerente all’esercizio di una
impresa (
7
).
E’ da rilevare, tuttavia, che a partire dagli anni ottanta, lo scenario
normativo ha cominciato a subire una metamorfosi per il concorso di una
pluralità di fattori - sia di diritto interno, sia di diritto internazionale -, che
pongono su basi differenti, rispetto al passato, la possibilità e l’utilità di
condurre un’indagine che cerchi di individuare quei contratti caratterizzati
(
4
) A. DALMARTELLO, I contratti delle imprese commerciali, Padova, 1962; V.
BUONOCORE, Contratti d’impresa, I, Milano, 1993, p. 3 ss.; G. OPPO, La contrattazione
d’impresa, in Dir. trasp., 1995; V. BUONOCORE, Contrattazione d’impresa e nuove
categorie contrattuali, Milano, 2000, p. 5 ss.
(
5
) In particolare ci si riferisce agli artt. 1330, 1368, 1370, 2112, 2558, 2610, 1722, 1824,
1341 e 1342 c.c.
(
6
) Le espressioni tra virgolette sono di A. LUMINOSO, Contrattazione d’impresa, in
Manuale di diritto commerciale, a cura di V. BUONOCORE, Torino, 2005, p. 517 ss.
(
7
) Per tutti, cfr., F. FERRARA– F. CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, 1992, p.
18 ss.
6dal fatto di realizzare l’esplicazione dell’attività d’impresa commerciale, al
fine di stabilire se esistano o meno norme riferibili esclusivamente alla
categoria dei contratti d’impresa.
Due concezioni, ovviamente accanto a quella che nega l’esistenza di
una categoria di contratti di questo tipo, si sono contese il campo.
La prima, che si potrebbe definire soggettiva, pone l’accento sul
particolare status soggettivo di uno dei contraenti che, in quanto
imprenditore, finisce per incidere sulla disciplina contrattuale.
La seconda concezione, definibile oggettiva, pone l’accento, invece,
sul fatto che la caratterizzazione negoziale avverrebbe non tanto e non solo
in funzione della partecipazione dell’imprenditore al contratto, quanto, e
soprattutto, per la circostanza che attraverso tali contratti si esplica e si
realizza l’attività d’impresa (
8
).
Dall’accettazione di una piuttosto che di un’altra delle due tesi ora
esposte c’è chi fa discendere anche la scelta della locuzione utilizzabile per
indicare l’insieme di tali contratti, ritenendo che all’opzione per la tesi
soggettiva meglio si adatti la locuzione “contratti delle imprese
commerciali” (
9
), che dovrebbe, invece, essere sostituita dalla locuzione
“contratti d’impresa” per chi scelga la tesi oggettiva (
10
).
Ulteriore problema è quello di stabilire poi se l’unificazione di tali
contratti comporti e giustifichi la creazione di un “sistema di diritto” o resti
esclusivamente a livello economico; ovvero, se siano la particolare struttura
(
8
) V. BUONOCORE, Contratti d’impresa, cit., p. 16; W. BIGIAVI, Recensione a
Dalmartello, I contratti delle imprese commerciali, in Riv. dir. civ., 1955, p. 89 ss.
(
9
) A. DALMARTELLO, op. ult. cit., p. 4 ss.
(
10
) F. GALGANO, Diritto commerciale. L’imprenditore, Bologna, 1991, p. 7.
7e le particolari caratteristiche che talora gli atti assumono, quando si
inseriscono in un’attività imprenditoriale, a determinare una specialità nella
disciplina giuridica, oppure, ancora, se ciò avvenga per “il fatto stesso della
inserzione dell’atto nell’esercizio di un’impresa” (
11
).
Appare opportuno per tutto ciò procedere a due tipi di verifiche:
a) se esistono nel nostro ordinamento contratti che obbligatoriamente
postulino la partecipazione in qualità di parte di un imprenditore e, in
ipotesi di risposta affermativa, per quale ragione ciò si verifichi;
b) se, anche a prescindere da una risposta affermativa a tale quesito,
esistano nel nostro ordinamento norme generali che si applichino
esclusivamente ai contratti conclusi da imprenditori.
Entrambe le verifiche servono proprio per stabilire se sia sufficiente
la mera partecipazione di un imprenditore alla stipulazione del contratto per
provocare conseguenze giuridicamente rilevanti o se, al contrario, occorra
un quid pluris rispetto a tale circostanza.
Riguardo al primo punto, quello cioè indicato sotto la lettera a),
occorre subito rilevare che nell’ambito di quei contratti che servono
all’imprenditore per l’organizzazione e soprattutto per esercitare l’attività
d’impresa, taluni di essi possono definirsi “necessariamente” di impresa,
perché almeno una parte contraente non può non essere che un
imprenditore, sicché la presenza dell’impresa nel rapporto giuridico
contrattuale assurge a presupposto dell’atto stesso.
(
11
) Così, G. FERRI, Manuale di diritto commerciale, a cura di C. ANGELICI e G.B. FERRI,
Torino, 1991, p. 581.
8Sono tali: il contratto di lavoro subordinato (art. 2094 c.c.), il
contratto di deposito in albergo o in analoghi locali d’impresa (artt. 1783 e
ss. c.c.), il deposito nei magazzini generali (art. 1787 c.c.), il contratto di
assicurazione (art. 1883 c.c.), i contratti bancari (art. 1834 ss. c.c.) e infine
il contratto di appalto (art. 1655 c.c.).
Con riguardo al secondo quesito e cioè all’esame di quelle norme di
carattere generale contenute nel codice civile che dettano per la generalità
dei contratti una disciplina particolare quando “parte” di essi sia un
imprenditore e servono all’esplicazione dell’attività d’impresa, vanno
segnalate per importanza:
1) il quinto comma dell’art. 320 c.c., rubricato “rappresentanza e
amministrazione”, a tenore del quale «l’esercizio di un’impresa
commerciale non può essere continuato se non con l’autorizzazione del
tribunale su parere del giudice tutelare»;
2) il primo e terzo comma dell’art. 397 c.c., che rispettivamente
consentono che il minore emancipato possa esercitare un’impresa
commerciale senza l’assistenza del curatore, se autorizzato dal tribunale e
che lo stesso minore possa compiere da solo gli atti che eccedono
l’ordinaria amministrazione (
12
);
3) l’art. 425 c.c., per il quale l’inabilitato può continuare l’esercizio
dell’impresa commerciale se autorizzato dal tribunale su parere del giudice
tutelare;
(
12
) Sulla capacità necessaria per l’esercizio dell’impresa, si rinvia a G. CAPOZZI,
Incapaci e impresa, Milano, 1992, p. 5 ss.