molto tempo considerate semplicemente come delle associazioni
volontaristiche, che non producono reddito e non possiedono
patrimonio, e non come delle vere e proprie imprese capaci di
produrre ricchezza e che necessitano, pertanto, di una vera e
propria imprenditorialità per svilupparsi.
A partire da questa impostazione si è cercato di ritagliare
nella normativa italiana, tanto civilistica quanto fiscale, uno
spazio per queste organizzazioni etichettate come terzo settore o
non profit.
Si è trattato per lo più di normative non organiche in base
alle quali la disciplina degli enti non profit va ricostruita sulla
base di lacunose disposizioni di carattere generale e sulla base di
leggi di settore. Questa situazione contribuisce a rendere confuso
lo scenario e la confusione è aggravata da alcune farraginosità che
ostacolano non poco la concreta esplicazione delle attività non
profit. Mi riferisco, per fare solo qualche esempio, all’iter per
accettare donazioni, per acquistare immobili, per il
riconoscimento della personalità giuridica e così via.
Questo tipo di intervento ha perso di vista la natura di
qualsiasi organizzazione non profit: essi sono organismi
intermedi tra Stato e singolo cittadino che costituiscono una
componente essenziale, l’ossatura di ogni democrazia.
La scarsa attenzione che il Potere Politico ha sempre
riservato alle non profit può essere un segnale di una mentalità
statalista ed accentratrice, che ha ben compreso come lo sviluppo
delle non profit, comprimendo largamente la sfera dell’azione
statale, riduce inevitabilmente anche la sfera di influenza del
Potere Politico stesso.
Il passo da fare oggi è un mutamento culturale
nell’approccio al non profit.
È questo che invocano innanzitutto i cittadini che
liberamente sulla base dell'art. 2 della Costituzione si aggregano
per rispondere alle loro esigenze; ma lo chiedono anche gli
operatori impegnati nell’ambito non lucrativo che hanno
acquisito una maggior consapevolezza della dignità non solo
sociale ma anche economica della loro attività e chiedono gli
strumenti per meglio rispondere alle necessità degli assistiti e per
entrare in nuove aree di intervento; e lo chiedono infine alcuni
studiosi che non ritengono completamente corrette le
interpretazioni date alle cause della nascita del settore e che in
questi ultimi anni stanno contribuendo a cambiare il volto del
non profit.
Questo è il contributo che tentativamente cercherò di dare
con questo mio lavoro. Un contributo che tenderà a mutare
anzitutto l'approccio culturale al settore.
Nel primo capitolo indicherò dunque le linee principali
degli approcci "classici" al non profit.
Nel secondo capitolo presenterò due possibili alternative
alle teorie classiche alla nascita del non profit.
La prima è una motivazione storica. Tenterò quindi di
evidenziare come le realtà non profit possano essere fatte risalire
a periodi precedenti la creazione dello Stato Moderno. Solo molto
più tardi lo Stato se ne è appropriato facendo proprie le
organizzazioni già esistenti.
La seconda consisterà nel dimostrare che l'era post
industriale nella quale ci troviamo porta necessariamente alla
nascita di aziende non profit indipendentemente dai due
fallimenti sopra enunciati.
L’altro cardine della tesi è evidenziare la necessità di un
assetto giuridico ben definito, snello, privo, per quanto possibile,
di formalità che scivolino nel formalismo.
Il risveglio culturale di cui si è detto e lo sviluppo di una
nuova legislazione sono due elementi indissolubilmente legati. Il
primo è condizione per dare senso ed efficacia ai provvedimenti;
ma il risveglio culturale, a sua volta, potrà essere propiziato dalle
novità legislative, attraverso il dibattito che esse saranno capaci
di suscitare.
Le forme giuridiche tipiche delle non profit sono quelle
previste dal primo libro del codice civile, e in particolare
l’Associazione e la Fondazione. La pratica, poi, di fronte ai limiti
di queste strutture, è andata via via utilizzando anche i modelli
societari, variamente adottandoli e con l’esplicita previsione, nei
relativi statuti, della non distribuibilità degli eventuali utili.
Il legislatore ha mostrato in qualche modo di condividere
questo orientamento (di utilizzare, cioè, per attività non profit,
modelli tipici dell’impresa). Ne è prova la legge sul volontariato
(n° 266/91), là dove, all’art.3, dice che: “le organizzazioni di
volontariato possono assumere la forma giuridica che ritengono
più adeguata al perseguimento dei loro fini, salvo il limite di
compatibilità con lo scopo solidaristico”. Con la conseguenza
che, secondo alcuni, un organismo di volontariato può darsi la
forma di società per azioni, salvo poi vedersi negata
l’omologazione.
L’equivoco risiede nell’errata collocazione del non profit.
Non può essere un settore ulteriore rispetto a Stato e mercato,
ma deve essere collocato sul mercato e usare gli strumenti e le
forme giuridiche e gestionali proprie del settore profit.
Della problematica legislativa tratterò nel terzo capitolo
avendo cura di analizzare la proposta di legge sulle ONLUS
presentata dalla Commissione Zamagni al Parlamento nel
dicembre 1995 e ripresentata al nuovo Parlamento nel novembre
1996.
L’ultimo passo da compiere sarà quello di andare a
verificare, sulla base di una esperienza concreta, quella della
Fondazione Banco Alimentare, se l’ipotesi di partenza di questo
lavoro sia fondata o meno. Cioè occorre dimostrare che l’ipotesi
di un non profit che non sia un settore terzo, ma parte del
mercato, sia una ipotesi veritiera.
Quanto sostenuto nella prima parte, infatti, può soddisfare
l’ipotesi introdotta solo da un punto di visto teorico. Ritengo,
invece, che ogni atto umano, così come ogni scienza, debba fare i
conti con la realtà che la circonda: solo ciò che è vero è reale e
solo ciò che è reale è vero.
Questa mia convinzione spiega perché ho ritenuto
indispensabile legare al mio lavoro lo studio di un caso aziendale.
L’attività del Banco Alimentare consiste nel raccogliere le
eccedenze di prodotti alimentari delle aziende della grande
distribuzione, delle industrie agro alimentari e dell’Aima e nel
redistribuire tali prodotti ad enti che svolgono un’attività di
assistenza e di aiuto ai poveri e agli emarginati.
Nei primi due capitoli della seconda parte ho illustrato
brevemente la nascita dei Banchi negli USA, la loro diffusione in
Europa e in Italia, le strutture della Fondazione Banco
Alimentare, con i dati relativi all’attività svolta.
Quindi, nel sesto capitolo, ho inizialmente indicato le
posizioni aziendalistiche e dottrinali rispetto al concetto di
azienda; ho poi evidenziato due tra i molteplici elementi che in
economia aziendale si ritengono fondamentali per la gestione di
un’azienda profit; sono quindi passato a valutare se e in che
modo il Banco Alimentare si sia attenuto a questi criteri di
gestione.
Credo che la trattazione di questo caso aziendale porrà in
evidenza la presenza di un “volontariato d’impresa” cioè di un
volontariato che non guarda più con diffidenza a ciò che è
economia, finanza, impresa.
Solo un’alta professionalità garantisce al volontariato di
diventare non profit, un settore che non può rimanere residuale e
per questo richiede strumenti adeguati.
Il risultato del lavoro nel caso aziendale è frutto di una
stretta collaborazione con il dott. Marco Lucchini direttore della
Fondazione Banco Alimentare. Egli ha messo a mia disposizione
il materiale per lo svolgimento del lavoro; mi ha concesso la
possibilità di un rapporto stretto e continuato con lui e con i
volontari del Banco, affinché potessi rendermi conto delle
strutture della Fondazione e delle sue dinamiche gestionali; mi ha
concesso più di una intervista per spiegarmi l’attività e la
struttura del Banco Alimentare e per chiarirmi i dubbi che man
mano si presentavano; ma ancor di più ha messo in discussione le
sue capacità manageriali, confrontandosi a viso aperto con le
ferree regole della gestione d’impresa, che io ho riassunto nella
funzione strategica e di marketing.
Proprio dalla collaborazione con il dott. Lucchini è nata, di
comune accordo, l’idea di andare a verificare se, da quando è
direttore della Fondazione, ha utilizzato gli strumenti di gestione
di un’azienda profit.
Per la sua costante collaborazione, per l’audacia dimostrata
nell’intraprendere questo lavoro con me e per la generosità di
tempi e modi dimostratami, lo ringrazio sentitamente.
PARTE PRIMA
IL SETTORE NON PROFIT:
SCOPO SOCIALE E RUOLO ECONOMICO
CAPITOLO 1
TEORIE CLASSICHE SULLA NASCITA DEL
SETTORE NON PROFIT
1.1 DEFINIZIONE DI ORGANIZZAZIONE NON PROFIT
La nostra società è caratterizzata da una molteplicità di
bisogni e motivazioni che fanno emergere nuove forme
organizzate di attività. Nell’ambito economico queste
modificazioni si evidenziano nell’emergere di una quarta categoria
di istituzioni che accanto a famiglie, imprese e Pubblica
Amministrazione costituiscono il tessuto di qualsiasi società che
ami definirsi moderna: le organizzazioni senza diretto scopo di
lucro
1
o organizzazioni non profit (d’ora in avanti ONP).
“I termini profit e non profit sono mutuati dall’analisi
1
“Si tratta di aziende senza diretta finalità economica in quanto, se tutte le aziende hanno l’equilibrio
economico come condizione di sopravvivenza, nell’impresa l’equilibrio economico è condizione ma è
anche il motivo per cui si dà origine all’azienda, nel campo istituzionale è condizione-vincolo ma non è
motivazione mentre in questo caso l’equilibrio economico è condizione di sopravvivenza, ma non ne è
la finalità prima”, M.ELEFANTI, “Il controllo di gestione nelle aziende senza scopo di lucro”, in
Economia & Management, n° 6/1992.
12
microeconomica, nella quale identificano la remunerazione
dell’imprenditore, ossia di chi, individuo (come nelle realtà
semplici) o gruppo di persone che occupano differenti ruoli
(come nelle realtà più complesse) ha il
potere/responsabilità/competenza per cercare di combinare al
meglio risorse limitate rispetto ai bisogni. La definizione profit
sta ad indicare che tale potere/responsabilità/competenza viene
esercitato per massimizzare il vantaggio economico di chi lo
esercita, mentre il termine non profit indica che esso è necessario
con motivazioni diverse, ad esempio servizio alla comunità o per
massimizzare i vantaggi degli utenti o per altre motivazioni”.
2
Mancando in Italia una disciplina specifica ed organica dal
punto di vista giuridico che disciplini l’operatività delle ONP,
risulta difficile dare una definizione unitaria del fenomeno non
profit. Si possono avere definizioni diverse a seconda del
contesto nazionale in cui tali organizzazioni operano. Questa è la
conseguenza di orientamenti giuridici diversi, ma anche di diversi
atteggiamenti culturali e politici nei confronti delle ONP.
Volendo comunque segnare il passo, per il lavoro che vado
a svolgere sono particolarmente utili due definizioni.
La prima afferma che “le organizzazioni non a diretto
scopo di lucro sono istituti che operano per conseguire il bene
2
G. FIORENTINI, Organizzazioni non profit e di volontariato. Direzione, marketing e raccolta fondi, Etas Libri,
13
collettivo o bene comune
3
tramite la produzione e l’erogazione di
beni e servizi in una logica prevalentemente di scambio
(economico, metaeconomico, di utilità) con l’ambiente esterno”.
4
La seconda definizione che è utile riprendere definisce
invece una ONP come “un’organizzazione soggetta al divieto di
distribuire i suoi eventuali utili netti ad individui che esercitano
su di essa un controllo (membri
5
, funzionari, dirigenti o
amministratori). Possiamo definire ONP nel loro basilare
carattere legale strutturale come organizzazioni private a cui è
fatto divieto di distribuire un residuo monetario”.
6
Milano, 1992.
3
“Il bene comune è un insieme di beni per loro natura comuni. È il prodotto della cooperazione
societaria che condiziona i singoli nella società: è un bene funzionalmente per tutti inteso come
agevolatore dell’attività dei singoli membri. Va inteso, dunque, come fattore di agevolazione verso
l’alto fine della persona umana.”, C.MASINI, Lavoro e risparmio, Utet, Torino, II^ edizione, 1970,
ristampa 1984.
4
G.FIORENTINI, op.cit., pag. 9.
5
Con il termine membro di una organizzazione ci si riferisce “all’esercizio di un potere di voto negli
affari interni dell’organizzazione”, B.GUI, “Le organizzazioni produttive private senza fine di lucro.
Un inquadramento concettuale”, in Economia Pubblica, 1987, pagg.183-192.
6
B.GUI, op.cit.
14
1.2 IL TERZO SETTORE
In letteratura sono molte le dizioni utilizzate per indicare il
settore delle ONP. Si parla di settore non profit, di volontariato,
di privato sociale, etc. “Il concetto di non profit ha, rispetto a
quelli utilizzati da discipline diverse dall’economia (volontariato,
terzo settore, etc.), il pregio della generalità: esso permette di
ricomprendere e trattare in modo omogeneo il variegato e
complesso universo di iniziative private e non lucrative che
contribuiscono, anche in Italia, a soddisfare la domanda di servizi
culturali, ricreativi, sociali e sanitari”.
7
In dottrina ha assunto una vasta rilevanza la dizione Terzo
Settore, che ha avuto successo in Italia. In tal senso appare subito
chiaro quale sia l’atteggiamento del nostro Paese nei confronti del
fenomeno e della rilevanza che ad esso si attribuisce: lo si
considera un settore terzo. Terzo rispetto a Stato e imprese
private, nei confronti dei quali resta in posizione intermedia.
8
La struttura del sistema economico del nostro Paese può
essere dunque rappresentata con efficacia dalla figura 1.
7
C.BORZAGA, “Per una cultura che non c’è”, in Mondo Economico, n° 36, sett.1992.
8
Cfr. M.C.BASSANINI, P.RANCI, Non per profitto. Il settore dei soggetti che erogano servizi di interesse
collettivo senza fine di lucro, Fondazione Adriano Olivetti, Roma, 1990.
15
Figura 1: il Terzo Settore è in una posizione intermedia tra il settore degli
Enti Pubblici e quello privato-mercantile. Fonte: nostre elaborazioni.
I motivi di questa situazione derivano dal fatto che in Italia
il Welfare State aveva spinto verso un’azione pubblica che
soddisfasse direttamente i bisogni dei cittadini. Negli ultimi anni,
però, si sono superati i limiti sia delle risorse disponibili, sia
dell’efficacia che dell’efficienza dell’azione pubblica e le
aspettative dei cittadini si sono orientate verso il settore privato.
Questo, però, non è in grado di fornire tutti i beni ed i servizi
pubblici rispettando l’economicità della gestione e la
massimizzazione del benessere sociale.
Ecco, allora, che il “settore non profit fornisce una
possibile risposta al divario tra la crescente domanda sociale di
prestazioni che non possono essere finanziate sul mercato e
SISTEMA ECONOMICO
TERZO SETTORE
ENTI PUBBLICI IMPRESE PRIVATE
16
l’insufficiente capacità organizzativa e finanziaria del settore
pubblico”.
9
La definizione di Terzo Settore mostra come venga definita
una realtà per ciò che non è; l’area è definita in via residuale
raggruppando quelle attività che non sono riconducibili né al
settore pubblico, né a quello privato.
Questa situazione è dovuta al fatto che al Terzo Settore
appartengono formazioni sociali
10
diverse che, pur condividendo
alcuni ideali di fondo, svolgono funzioni differenti. La
distinzione tra le organizzazioni di Terzo Settore in generale ed
“imprese sociali”, cioè “organizzazioni che pur appartenendo al
Terzo Settore assumono precise caratteristiche imprenditoriali”
11
,
è un esempio di come ne sia variegata la composizione e difficile
l’identificazione delle unità che vi appartengono.
Il Terzo Settore va assumendo un ruolo sempre più
importante nei sistemi economici moderni. Tale sviluppo ha
contribuito e può ancora contribuire a:
1. riorganizzare il sistema di Welfare State favorendo il
passaggio da un modello prevalentemente basato su trasferimenti
di reddito ad un modello che offra soprattutto servizi;
9
E.ORTIGIOSA, P.RANCI, “L’obiettivo qualità sociale”, in Mondo Economico, n°36, sett. 1992.
10
Per formazione sociale si intende “qualsiasi aggregazione di persone, naturale, spontanea,
riconosciuta o non dalla legge, che trae la sua ragion d’essere dall’esistenza di un interesse capace di
coagulare intorno a sé più persone”. Si veda M.C.BASSANINI, P.RANCI, op.cit.,pag.12.
11
C.BORZAGA, “Verso l’impresa sociale”, in Rivista del Volontariato, n°12, 1994.
17
2. ridurre i costi del sistema di Welfare State, grazie a
recuperi di efficienza e ad un maggior coinvolgimento dei privati;
3. favorire interventi di natura promozionale in alternativa
agli interventi assistenziali oggi prevalenti.
12
I soggetti del Terzo Settore, inoltre, sono una risorsa per lo
sviluppo non soltanto economico e questo si attua attraverso la
valorizzazione di ogni risorsa umana e con la lotta all’esclusione
sociale.
12
Le considerazioni sono tratte da C.BORZAGA, op.ult.cit.