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Prefazione
Il tema della dimensione aziendale è più che mai al centro della questione della
competitività dell’industria italiana. Nei media e nei dibattiti a volte le piccole
imprese, cioè quelle con meno di 50 addetti, sono considerate come uno dei più
importanti patrimoni del nostro paese, il vero volano della nostra economia. Altre
volte, invece, si sente dire che sarebbero addirittura la principale fragilità del
sistema Italia: abbiamo, cioè, poche medie e grandi imprese, mentre le piccole
sarebbero troppe e deboli, poco internazionalizzate e inadatte a competere nel
nuovo scenario della globalizzazione. Chi ha ragione?
Certo, l’aver sviluppato un sistema di aziende tra i 50 e i 500 milioni di fatturato,
fortemente competitive, altamente specializzate e molto spesso innovative, è una
delle buone notizie degli ultimi 10 anni. Ma, il problema italiano, sempre più acuto,
è che da noi, diversamente da quanto accade nei paesi concorrenti, sono quasi
sparite le aziende più grandi, intendendo quelle a partire da 1 miliardo di fatturato
fino a 5 miliardi. Le cifre sono significative: il peso delle aziende con più di 500
dipendenti sul totale è passato in Italia dal 34% del 1971 al 17% del 2001, per poi
scendere ancora negli ultimi anni. In Germania e in Francia, la tendenza è stata
analoga, ma assai meno pronunciata (dal 59% al 51% e dal 54% al 44%).
La capacità dimostrata negli ultimi anni dal nostro sistema di reggere alla
competizione internazionale e alla crisi economica potrebbe far pensare che tutto
sommato vivere senza grandi imprese è possibile. I brillanti risultati, anche nella
recente crisi, di tante nostre “corazzate tascabili” leader di nicchia spesso vincenti
su competitor di gran lunga più grandi (e forse proprio per questo meno reattivi),
rappresentano di sicuro una storia di successo.
Ma ci sono ragioni e dati eloquenti per ritenere che questo modello di struttura
industriale mostri elementi di debolezza. È intuibile, per esempio, come le grandi
imprese siano le sole che possano costituire scuole di management, mentre quelle
“non grandi” soffrono alla lunga se non possono godere degli effetti di spill-over di
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managerialità da parte delle prime. Un altro elemento di debolezza è la minore
capacità di accedere al mercati finanziari, sia per ragioni di scala, sia per conoscenza
degli strumenti. Pensiamo poi alla minore capacità di pianificare il medio termine,
d’investire in R&S, di gestire i processi d’internazionalizzazione e alla tendenza ad
una minore produttività del lavoro.
L’obiettivo di questo lavoro è di affrontare il problema del nanismo imprenditoriale
italiano, focalizzandone le ragioni storiche ed economiche, le specificità strutturali,
le dinamiche comportamentali, ma anche le principali criticità, cercando,
successivamente, di delineare i possibili percorsi per uscire da quell’incertezza
diffusa che regna ogni qualvolta si discute dello scenario economico futuro del
nostro paese. L’approfondimento di tale fenomeno è stato effettuato con un
percorso logico che, partendo dalle principali teorie in merito, supportate da recenti
dati statistici e ricerche esplorative, sfocia nell’individuazione delle possibili
soluzioni atte a sciogliere i nodi che frenano una crescita più robusta.
In particolare, le argomentazioni indagano sulla validità del modello delle Pmi in
vista di un’auspicabile convergenza dell’economia italiana, finora concentrata su
settori “tradizionali” o “maturi” (più esposti alla concorrenza dei paesi emergenti e
caratterizzati da una dinamica della domanda mondiale più lenta), verso il modello
di specializzazione degli altri paesi industrializzati, più incentrato su quei comparti
(l’elettronica e l’ICT) che hanno trainato la crescita del commercio mondiale negli
ultimi anni.
L’analisi effettuata, nonostante valorizzi l’orgoglio, l’inventiva e l’intraprendenza,
l’adattabilità ai contesti planetari e locali insieme, l’oculatezza nelle gestioni
finanziarie (anche con un credito in via di prosciugamento), evidenzia l’impellente
necessità di aiutare le piccole e micro imprese ad irrobustirsi, attraverso un
graduale processo di selezione, emancipazione e internazionalizzazione, per potersi
trasformare nelle medie e grandi imprese del domani.
Tutta la trattazione, argomentando sia sugli elementi da valorizzare sia sulle criticità
e i vincoli da rimuovere, ha come costante e parallelo riscontro la realtà del settore
videoludico italiano: le imprese produttrici di videogiochi, piccole, giovani e poco
3
capitalizzate, rispecchiano il sistema produttivo italiano delle Pmi, palesando, così,
tutti i limiti strutturali e i problemi finanziari legati alla piccola dimensione.
Può il Paese continuare a mantenere i suoi caratteri portanti, rischiando di vedere
allentarsi i suoi legami con le parti più dinamiche del mondo e assistendo ad una
consunzione sempre più visibile di un modello nazionale messo a dura prova da una
tendenza al ristagno ormai duratura?
Le attività delle software house e dei publisher italiani, cresciute in interstizi della
società e del mercato, possono procedere da sé, senza alcuna forma di
incentivazione delle best practices, senza una selezione al proprio potenziamento,
senza un’accelerazione verso un maggiore dimensionamento, e senza un’azione
rigorosa della mano pubblica volta a creare e ad incrementare opportunità
finanziarie e fiscali a favore dell’innovazione e della crescita competitiva dell’ICT?
La scelta del settore di riferimento è dettata dal fatto che, oggi, quello del gaming
rappresenta, a livello mondiale, uno dei mercati in più rapida espansione, in grado
di competere, per fatturato e utili, con le tradizionali industrie dell’entertainment e
del software; neanche la recente crisi globale ha frenato la crescita del mercato del
software di intrattenimento interattivo! Così come avvenuto nel passato per molti
prodotti che hanno contribuito a rendere il “made in Italy” sinonimo di elevata
qualità, l’industria videoludica, con le sue potenzialità ancora poco conosciute,
mostra notevoli opportunità per un’adeguata evoluzione e affermazione
internazionale nei prossimi anni.
Il rapporto 2009 di Assoknowledge curato da AIOMI (Associazione Italiana Opere
Multimediali Interattive) ha evidenziato i seguenti cinque aspetti caratterizzanti il
settore: l’altissima componente tecnologica impiegata, l’esportazione della quasi
totalità delle sue produzioni, l’occupazione quasi esclusivamente di giovani, uno dei
più alti trend di crescita, un’alta percentuale di imprese localizzate nel Meridione;
essi ricalcano le tematiche di crisi del nostro sistema-Paese, confermando, così,
l’impellenza di individuare precise soluzioni strategiche per potenziare operatività,
competitività e crescita dell’industria videoludica, che in Italia si trova ancora in una
fase embrionale.
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CAPITOLO 1
LE PICCOLE IMPRESE: SPECIFICITÀ E RUOLO
La rilevanza delle piccole imprese per l’economia del nostro paese costituisce ormai
da diversi anni un fatto acquisito, comprovato da studi e analisi di matrice
economica e politica, da indicatori e dati statistici, che mettono in luce sia le
dimensioni del fenomeno che i fattori di ricaduta.
È peraltro mutata, nel corso degli anni, la concezione della piccola impresa: a partire
dal dopoguerra e fino all’inizio degli anni Settanta, l’espansione industriale dei
principali paesi industrializzati ha visto il ruolo preponderante delle imprese di
grandi dimensioni e il progressivo aumento della concentrazione dei settori anche
per effetto di ondate di fusioni e acquisizioni.
Le analisi e la letteratura di quel tempo hanno di conseguenza evidenziato il ruolo di
subordinazione della piccola impresa alla grande impresa, la quale beneficia
maggiormente dei vantaggi collegati allo sfruttamento delle economie di volume e
alla superiore forza contrattuale.
A partire dalla metà degli anni Settanta, a seguito delle crisi petrolifere e
dell’elevata instabilità che ha progressivamente caratterizzato i diversi settori, sono
caduti alcuni capisaldi delle precedenti teorie economiche e sono stati riconsiderati
elementi quali la pronta capacità di risposta alle sollecitazioni esterne, la flessibilità,
l’elasticità, la creatività tipici delle imprese di dimensioni minori. Si è quindi assistito
ad una diminuzione della dimensione media delle unità produttive del settore
manifatturiero: le piccole imprese sono sembrate maggiormente idonee ad
adattarsi ai cambiamenti della domanda interna e internazionale e soprattutto
hanno dato prova di saper meglio reagire ai più stringenti vincoli di costo.
La congiuntura economica nazionale e internazionale degli ultimi trent’anni ha non
solo influito sulle caratteristiche dimensionali delle imprese, ma ha anche
determinato dei cambiamenti in termini di localizzazione territoriale e di
specializzazione settoriale.
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Oggi, se da un lato, non vi sono dubbi che la parte più consistente e attiva del
nostro tessuto industriale è rappresentata dalle piccole imprese, dall’altro
sussistono talune perplessità in merito al reale grado di competitività delle stesse e
alla capacità di far fronte alla competizione futura, che sembra richiedere sempre
maggiore prospettiva internazionale, capacità di mobilitare ingenti risorse, adozione
di logiche di rete.
Da ormai qualche tempo, vanno rafforzandosi opinioni sulla necessità di
riconsiderare il ruolo delle piccole imprese e, in particolare, di interrogarsi sulle loro
prospettive di continuità nei contesti competitivi del prossimo futuro.
La fotografia scattata dall’indagine annuale ISTAT su struttura e competitività delle
imprese industriali e dei servizi
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, pubblicata il 27 ottobre 2010, conferma una
struttura produttiva caratterizzata da una larga presenza di microimprese: le
aziende con meno di 10 addetti rappresentavano nel 2008 il 94,7% sul totale degli
oltre 4,4 milioni di imprese attive. E la dimensione media risulta estremamente
bassa: 3,9 addetti per impresa.
Il nanismo imprenditoriale italiano, chiamato da una galoppante globalizzazione a
confrontarsi con il gigantismo delle aziende estere, resta dunque confermato in
questa indagine con dati statistici per l’anno 2008: le microimprese contavano per il
47,2% degli addetti e per il 33,3% del valore aggiunto; mentre le grandi imprese,
con almeno 250 addetti, ammontavano a 3508 unità, pesando per il 18,6% degli
addetti.
Le imprese manifatturiere che effettuavano attività diretta di esportazione di beni
sono risultate circa 94mila, con una dimensione media pari a 30,3 addetti,
nettamente superiore a quella delle imprese non esportatrici ( 4,3 addetti).
Più in generale, l’indagine ha rilevato che nel 2008 erano attive 4.434.823 imprese,
che occupavano 17,3 milioni di addetti, di cui 11,6 milioni di dipendenti, realizzando
un valore aggiunto complessivo di circa 714 miliardi. Il settore “nettamente
prevalente” è quello dei servizi di mercato con il 75% delle imprese attive, il 61,2%
di addetti e il 54% di contributo alla creazione di valore aggiunto. Le imprese dei
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Dati ISTAT 2010
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servizi destinabili alla vendita erano 3,3 milioni, con 10,6 milioni di addetti: ma le
microimprese, pur costituendo il 96,6% nel settore, hanno contribuito per il 41,3%
della creazione di valore aggiunto mentre le grandi imprese (appena lo 0,1% del
comparto) hanno realizzato il 28,1% del valore aggiunto: la dimensione è dunque
una marcia in più.
Identikit delle imprese italiane nel 2008
Industria
Industria in
senso stretto
Costruzioni Terziario TOTALE
Imprese 1.108.148 473.160 634.988 3.326.675 4.434.823
Addetti 6.712.793 4.701.650 2.011.143 10.593.160 17.305.953
Dipendenti 5.195.302 4.018.060 1.177.242 6.439.102 11.634.404
Fatturato
(milioni di euro)
1.493.495 1.219.881 273.615 1.630.008 3.123.503
Valore aggiunto
(milioni di euro)
328.454 247.237 81.217 385.444 713.899
Valore aggiunto per
addetto
(migliaia di euro)
48,9 52,6 40,4 36,4 41,3
Costo del lavoro per
dipendente
(migliaia di euro)
36,2 37,5 31,6 30,2 32,9
Retribuzione lorda per
dipendente
(migliaia di euro)
25,6 26,7 21,9 22,0 23,6
Ore lavorate per
dipendente
1.688 1.679 1.719 1.643 1.663
Costo orario del lavoro
(euro)
21,4 22,4 18,4 18,4 19,8
Fonte: ISTAT 2010
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1.1 Aspetti definitori
Il tema della definizione dimensionale delle imprese e il concetto stesso di piccola
impresa hanno costituito oggetto di attenzione da molto tempo, sia da parte di
economisti che di policy makers. Tuttora si registrano, però, in proposito, opinioni
diversificate e talora discordi e si è ben lungi dall’aver trovato una soluzione
definitiva al problema della qualificazione della piccola impresa
2
.
La difficoltà di giungere ad una definizione condivisa è riconducibile alla estrema
eterogeneità delle realtà che si potrebbero far rientrare nella categoria suddetta.
Inoltre, occorre considerare che la dimensione di un’impresa è un concetto
multiforme, che può essere indagato in termini assoluti e relativi. In termini
assoluti, un’impresa avente 100 dipendenti può essere definita piccola, o medio
piccola, almeno stando alle suddivisioni che vengono fatte a fini statistici e/o di
politica economica; mentre, se si esamina in termini relativi, la stessa può
addirittura risultare microscopica in determinati settori, come ad esempio il settore
automobilistico o del trasporto aereo, ma di grandi dimensioni in altri contesti,
come ad esempio quello degli studi dentistici o degli studi professionali di dottori
commercialisti.
Quel che però rileva è il fatto che le imprese appartenenti ad una certa classe
dimensionale presentano generalmente talune similitudini dal punto di vista
gestionale-organizzativo. Ciò significa che la differenza sostanziale tra imprese di
dimensioni diverse (piccole, medie e grandi) può essere identificata non tanto
nell’aspetto riguardante l’entità dei volumi di produzione o nel numero dei
dipendenti, ma soprattutto in termini di organizzazione e funzionamento.
Nella dottrina economica, gli elementi utilizzati per definire la piccola impresa si
possono suddividere in due macro categorie: parametri quantitativi e parametri
qualitativi.
2
Cortesi A., Alberti F., Salvato C. (2004), Le piccole imprese. Struttura, gestione, percorsi evolutivi,
Carocci editore, Roma
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Per quanto concerne i parametri quantitativi, gli stessi sono suddivisibili in:
- strutturali: si riferiscono ad una dimensione patrimoniale (patrimonio umano,
tecnico-produttivo) e considerano l’entità e la disponibilità di fattori produttivi,
quali la forza lavoro e gli impianti attraverso la misurazione di determinate
grandezze monetarie o fisiche;
- dinamici: rappresentano variabili operative dell’azienda ed esprimono il grado di
utilizzazione del patrimonio disponibile attraverso la misurazione di grandezze
economiche o fisiche.
I parametri quantitativi di natura strutturale sono espressivi della “potenzialità”
dell’impresa, e tra essi si citano:
- numero di addetti
- capitale investito
- capacità produttiva installata.
Ciascuno di essi presenta pregi e limitazioni.
Il numero di addetti ha il pregio essenziale di essere facilmente determinabile e
comprensibile, ma trascura di considerare il tipo di lavorazione effettuata ( se
capital o labour intensive) e il livello più o meno spinto di
meccanizzazione/automazione del processo produttivo. Non è certamente
significativo confrontare il numero degli addetti di un’azienda completamente
automatizzata, che esegue lavorazioni ad alto contenuto di capitale con quelli di
un’azienda con lavorazioni prevalentemente manuali.
Anche il capitale investito (valore delle immobilizzazioni tecniche al netto dei fondi
rettificativi), espressivo della dimensione fisico-tecnica delle imprese, ha due
principali limitazioni: in primo luogo non tiene conto del tipo di lavorazione
effettuata (capital o labour intensive); e, con riferimento all’età dei cespiti, l’azienda
con un parco cespiti vecchio o comunque quasi completamente ammortizzato
potrebbe risultare (erroneamente) più piccola di altre con un parco cespiti nuovo,
proprio per effetto dell’ammortamento e della svalutazione monetaria.
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La capacità produttiva installata si riferisce alla potenziale capacità di produrre
output: il pregio di questo parametro è quello di fornire una rappresentazione
coerente della struttura e delle dimensioni aziendali; mentre il principale limite sta
nel prescindere dall’effettivo funzionamento dell’impresa e dai suoi rapporti col
mercato.
I principali parametri quantitativi di natura dinamica (o operativi) sono espressivi
della reale attività svolta dall’impresa e tra essi si indicano:
- fatturato/valore della produzione
- volume della produzione
- valore aggiunto
- quota di mercato.
Anch’essi presentano pregi e limitazioni.
Il fatturato è un indicatore facilmente acquisibile e di immediata comprensione ed
enfatizza il rapporto tra l’impresa e la clientela. Però : è soggetto alle oscillazioni
dovute alla dinamicità della domanda; è dipendente dallo specifico settore
industriale di appartenenza; non riflette il grado di integrazione verticale del
processo produttivo; non prende in considerazione l’eventuale ricorso alla
subfornitura.
Il valore della produzione (ricavi di vendita +/- variazione delle scorte di prodotti
semilavorati e finiti) presenta similitudini con il precedente; si focalizza però sul
valore prodotto e prescinde dal considerare la destinazione dello stesso, il quale
potrebbe essere stato già venduto ( quindi appartenere all’area dei ricavi) o ancora
in cerca di destinazione finale (e quindi appartenere all’area del magazzino).
Il volume della produzione (prodotta/venduta) si focalizza sul numero di unità di
output; quindi, elimina le influenze delle politiche di prezzo/valorizzazione del
prodotto/ inflazione presenti invece nel caso precedente.
La quota di mercato valuta il peso e la posizione dell’impresa in ambito competitivo,
ed è così condizionata dalla dimensione del mercato di riferimento. Un tale
indicatore è fortemente legato alla relatività spaziale della dimensione aziendale
(settore o segmento): all’interno dello stesso settore, imprese con identica quota di
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mercato in termini assoluti potranno essere classificate in modo diverso in relazione
alla variabilità delle dimensioni dei settori stessi.
Il valore aggiunto (calcolato come somma di utile netto, imposte sul reddito, oneri
finanziari, retribuzioni e ammortamenti, ovvero sottraendo dal totale delle vendite
il totale degli acquisti di beni e servizi effettuati da terze economie) misura la nuova
ricchezza risultante dal processo produttivo, e quindi la capacità dell’impresa di
remunerare tutti i fattori che partecipano alla produzione. Lo stesso presenta un
pregio essenziale, ossia misura l’attività di trasformazione fisico-tecnica
effettivamente svolta dall’impresa e, pertanto, è in grado di distinguere
dimensionalmente aziende con stessi volumi di vendita/produzione ma con diverso
grado di integrazione verticale. Probabilmente, il valore aggiunto è il criterio più
significativo e coerente di classificazione dimensionale delle aziende, in quanto, a
differenza di ogni altro, permette di rappresentare l’intera dinamica aziendale e
ingloba alcuni dei principali altri indici dimensionali (quali fatturato, valore delle
immobilizzazioni, numero di addetti) esprimendo correttamente il livello
dimensionale operativo di un’azienda.
Pur tuttavia non sarà semplice e forse neppure possibile, sulla esclusiva base di
parametri quantitativi, isolare una classe di imprese (le piccole imprese) omogenee
in termini di comportamenti organizzativi e fabbisogni gestionali.
Occorre considerare che le piccole imprese sono una realtà articolata ed anche a
livelli dimensionali sostanzialmente omogenei sarà possibile trovare sia aziende
dalla struttura gestionale poco più che embrionale che imprese dotate di formule
organizzative e direzionali d’avanguardia.
Per ovviare a questo stato di cose, ossia al carattere di multidimensionalità
quantitativa delle piccole imprese, si è pensato di porre enfasi su talune peculiarità
che le contraddistinguono, in termini di comportamento nell’ambiente di
riferimento e di modalità di gestione.
Sono così emersi determinati caratteri distintivi ricorrenti delle piccole imprese, di
tipo qualitativo che rappresentano aspetti interessanti e significativi delle stesse e
che ben ne connotano l’agire. E sono:
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- forma giuridica
- struttura organizzativa
- forme di finanziamento
- grado di autonomia/rapporto con altre imprese
- potere di mercato e rapporto con l’ambiente esterno
- ristretto team di vertice
- coincidenza tra proprietà e management
- sovrapposizione istituzionale tra famiglia impresa.
Per quanto riguarda la forma giuridica, a livelli dimensionali piccoli si riscontra la
costituzione di imprese individuali e di società di persone, anche se la riforma delle
società (2003) sta spingendo verso utilizzazione delle forme tipiche delle società di
capitali, in conseguenza di particolari vantaggi giuridici.
La complessità della struttura organizzativa, intesa come configurazione degli organi
aziendali e degli insiemi di compiti e responsabilità loro assegnati, è correlata
positivamente alla dimensione aziendale, in quanto all’aumentare di questa,
aumenta il bisogno di strutture organizzative che supportino i maggiori livelli di
attività. Le aziende piccole tendono a strutture per nulla o poco formalizzate, in
conseguenza dello scarso orientamento della direzione verso gli aspetti
organizzativi e della modesta complessità gestionale.
Quanto alle forme di finanziamento, si riscontrano forme di autofinanziamento per
sostenere lo sviluppo aziendale, con capitale di rischio fornito dall’imprenditore. Il
ricorso al capitale di credito appare più condizionato ad elementi soggettivi
dell’imprenditore (capacità di fornire garanzie) che alle obiettive caratteristiche
della realtà imprenditoriale.
Il grado di autonomia aziendale, intesa come indipendenza/subordinazione verso
altre imprese dovuta sia a rapporti giuridici o finanziari che a vincoli contrattuali, è
un parametro talora citato ma poco significativo nell’esprimere la dimensione
aziendale. Peraltro, nel caso di imprese fortemente vincolate ad altre, dovrà sempre
porsi il problema preliminare di stabilire se l’unità di analisi debba essere costituita
dalla singola realtà ovvero dal più ampio aggregato di cui essa fa parte.