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Dopo aver definito la marca come un fenomeno essenzialmente
discorsivo e semiotico, vengono mostrate alcune dimensioni concettuali,
presentando la nozione di identità di marca ed il suo ruolo.
L’ultimo paragrafo di questo capitolo è dedicato all’importanza del
nome e specialmente del nome della marca, poiché il nome è
fondamentale nella comunicazione di un’azienda e rappresenta la
memoria del prodotto stesso. Dare un nome ad un particolare bene serve
a farlo uscire dall’anonimato, e può causare il successo o l’insuccesso di
tale bene. Infatti, una volta “battezzato” un nuovo prodotto, si mette in
moto un processo di significazione che finisce con il dargli una
particolare immagine: il nome della marca non è solo una
denominazione, ma fa parte dell’oggetto “marcato”.
La preoccupazione diventa, allora, saper scegliere il nome che meglio
posizionerà il prodotto. È questo l’argomento di cui si occupa il secondo
capitolo, che analizza il naming industriale vero e proprio e le tecniche
migliori per creare, ricercare e scegliere i nomi più adatti.
Il naming è in stretto rapporto con la semiotica perché il nome è un
segno e durante il processo di creazione si hanno varie possibilità di
combinare il significante ed il significato del segno “nome”.
Esistono, infatti, nomi in cui il significante ha particolari rapporti con il
significato o con il referente, ed altri in cui tra essi non esiste nessuna
relazione.
Il naming prevede una parte vincolata dalle leggi, che regolano la sua
pratica, ed una parte di libertà che lo avvicina alla creazione poetica.
Di fatto, per creare un nome si può far riferimento alle caratteristiche del
prodotto, a nomi di personaggi storici e mitici, ma è possibile anche
creare delle nuove parole, dei neologismi, delle parole-poesia che sono in
grado di esprimere la complessità e l’essenza del prodotto.
5
Il terzo capitolo è dedicato all’analisi del settore automobilistico. Il
nome è indispensabile per un’automobile ed è capace di garantire il suo
successo o il suo insuccesso. Il nome della fabbrica funge da garanzia, ma
il nome di un modello serve a distinguerlo dai suoi concorrenti, tutti così
simili tra loro.
Le varie aziende presenti sul mercato adottano tecniche di
denominazione differenti: c’è chi preferisce usare solo sigle alfa-
numeriche, metodo semplice ed economico ma che difficilmente
produce nomi memorabili e affascinanti; ma c’è anche chi preferisce
investire su nomi “seducenti” e profondi, in grado di imprimersi nella
mente del consumatore.
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CAPITOLO I
La Marca
La marca oggi ha un valore e questo è evidente, ma essa ha addirittura
un metavalore in chiave comunicativa: trasmette come se fosse un filtro
ed è specchio di una serie di valori associati alla storia del prodotto e
dell’azienda. Il tutto crea un elemento aggiuntivo per il prodotto e per il
consumatore.
La marca identifica, orienta, garantisce, personalizza e facilita il contatto;
rende piacevole andare a fare la spesa, ed è pratica perché semplifica i
tempi degli acquisti e le code agli scaffali.
Le marche sono potenti: ci fanno scegliere, o rifiutare, un prodotto
piuttosto che un altro, trasmettono “valori” più che beni materiali, si
sostituiscono all'oggetto in sé, diventando un’“anima” che evoca
emozioni, esperienze e stili di vita.
Esse definiscono, insomma, l'identità. A tal punto che, dopo aver
colonizzato la quotidianità, arrivano ora ad impersonare le nostre stesse
esistenze, fin dalla nascita. Sono, infatti, sempre più numerosi i genitori
che decidono di chiamare i propri figli con nomi di grandi aziende,
soprattutto firme della moda e della tecnologia.
Se negli anni Ottanta andavano forte i nomi dei personaggi delle soap
opera e delle serie televisive più popolari, oggi a “sbancare” sulle carte
d'identità sono i nomi di automobili, di vestiti e di gadget tecnologici.
Solo a scorrere i nomi dei nati nel 2000 negli Stati Uniti, viene fuori una
lista che somiglia molto a quella della spesa: ventidue "Infiniti" (per le
bambine), non con la “Y”, per alludere all’infinito, ma con la “I” come
l'auto di lusso della Nissan; ben trecentocinquantatre Lexus (Toyota),
cinquantacinque maschi Chevy (dall'omonima casa statunitense) e cinque
femmine di nome Celica, ancora della casa Toyota.
7
Tutto sommato niente è cambiato rispetto al passato: il nome
contiene da sempre un'aspirazione sociale e traduce un'appartenenza o
un'ambizione. Se prima per un nome si prendeva spunto dalla religione,
oggi, crollate le ideologie, deboli i santi e gli eroi, le marche, grazie anche
alla televisione, sono diventate le nuove muse ispiratrici.
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1. Quadro socio-culturale
La marca moderna non appartiene più all’universo del commercio,
quanto piuttosto a quello della comunicazione.
Gli strumenti concettuali alla base della teoria economica classica e
del pensiero di marketing, sono intrinsecamente inadeguati per
permettere una soddisfacente comprensione teorica del fenomeno
marca. In effetti, l’economia classica d’origine anglosassone – come il
marketing del resto – non aveva neppure preso in considerazione la
variabile marca nella sua concettualizzazione della dinamica dei mercati.
È indubbiamente vero che il contesto socio-economico dell’epoca
era diverso, e che in piena rivoluzione industriale l’universo delle merci
era relativamente poco differenziato.
Oggi, invece, la marca gioca un ruolo strategico nei mercati di consumo
ad alta complessità, situandosi tra due movimenti di fondo. Da un lato si
ha il passaggio dalla commercializzazione alla costruzione di discorsi
intorno al prodotto stesso: in un mercato sempre più difficile, questo
non può più sopravvivere affidandosi alla sola evidenza della sua
presenza e delle sue caratteristiche oggettive (distribuzione, prezzo,
qualità); esso deve arricchirsi di un supplemento di personalità e tale
aggiunta gli viene data proprio dalla sua messa in discorso, ovvero dalla
sua “immersione in un bagno di comunicazione”
1
.
Dall’altro lato si osserva un passaggio dagli aspetti materiali del prodotto
a quelli più immateriali, ossia tutti gli aspetti legati all’immaginario
evocato dal prodotto e al suo simbolismo, ma che per essere messi in
evidenza hanno bisogno di essere “discorsivizzati”.
Un numero crescente di aziende, di conseguenza, consacra un budget
sempre più consistente ad operazioni di comunicazione. La coscienza
della necessità di manifestare la propria esistenza sul mercato attraverso
dei mezzi comunicativi e di attrarre il maggior numero di consumatori,
1
A. Semprini, Marche e mondi possibili, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 29.
9
ha raggiunto da tempo tutti i produttori di beni di largo consumo, ma
anche i grandi gruppi industriali.
Tale apertura non è solo un fenomeno economico e finanziario – più
denaro per la comunicazione – ma rappresenta una vera rivoluzione
culturale per le imprese, generando una pluralità di conseguenze.
Mentre solo quindici anni fa la quasi totalità del budget di comunicazione
delle aziende era destinato alla sola pubblicità, oggi si stanno espandendo
intorno ad essa una miriade di strumenti di comunicazione, come per
l’appunto il naming. Si cerca di vendere il bene commerciale anche
trovando il nome più adatto ad esso.
La pratica della comunicazione insegna all’azienda che l’atto del
comunicare implica sempre un destinatario: non c’è messaggio se non c’è
ricezione. Per il fatto stesso di comunicare, questa si trova presa in un
reticolo di relazioni e di feed-back multipli. Si instaura un dialogo non
solo con produttori e fornitori, ma anche, e soprattutto, con i
consumatori – ed in generale con tutta l’opinione pubblica – e si è
conseguentemente tenuti ad ascoltarli.
Aprendosi alla comunicazione, l’azienda diventa un vero e proprio
attore sociale, ma non bisogna dimenticare che ciò avviene in un
contesto mediatizzato, se non addirittura ipermediatizzato. Arrivando in
massa sul mercato, così numerosi e così diversi, i nuovi prodotti hanno
bisogno di essere annunciati e distinti mediante la loro marca, e
soprattutto mediante il loro nome.
“L’accrescimento della complessità sociale, inerente alla natura stessa
della società post-industriale, la moltiplicazione degli emittenti e dei
messaggi emessi, la competizione per continuare ad essere inteso in un
rumore di fondo crescente, l’obbligo di parlare per non scomparire dalla
scena comunicativa, hanno come effetto la produzione di un
affollamento di messaggi. Questi non riescono più a farsi intendere,
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cadono nel vuoto, oppure si trovano svuotati di contenuto, entrando in
conflitto con altri messaggi”
2
.
Si produce, in un certo senso, un fenomeno di inquinamento
mediatico e comunicativo che presenta due conseguenze principali
3
. Da
un lato esso rende fragili i messaggi, creando una sorta di selezione
naturale per cui solo quelli più legittimi, più credibili, più originali o
semplicemente più gradevoli, riusciranno a produrre un certo effetto sui
consumatori.
Dall’altro lato, l’inquinamento semiotico consuma i messaggi,
esaurendo la loro capacità di produrre significazione e banalizzandoli.
Sono molti gli esempi di questo fenomeno, basta pensare alla nozione di
“passione”
4
: attenendosi al dizionario questo termine dovrebbe designare
una relazione emotiva intensa, autentica e con una forte implicazione
personale. Utilizzata, inflazionata, associata ad una quantità di prodotti
(dal succo di frutta al trapano), una nozione così potente è stata assorbita
dalla comunicazione, fino a diventare un puro significante, che non
rinvia più ad alcun significato.
Ciò implica che, erosi dall’inquinamento mediatico, i prodotti
delegano sempre più alla marca la missione di preservare la loro esistenza
e, poiché il nome della marca è la prima cosa che arriva al pubblico,
trovarne uno adatto ed efficace diventa il passo iniziale di una strategia
comunicativa. Ma il ventaglio degli strumenti a disposizione delle
imprese è, oggi, piuttosto vasto e variegato: non solo la pubblicità in
senso tradizionale, ma anche eventi, distribuzione, promozione, design,
merchandising e pubbliche relazioni.
2
Ivi, p. 35.
3
Cfr. Ugo Volli, Contro la moda, Bompiani, Milano, 1988.
4
Esempio tratto da A. Semprini, op. cit., pp. 35-36.