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boom del secondo dopoguerra fu certamente il risultato di una serie di
fattori concomitanti, di cui uno dei principali viene considerato l’esplosione
demografica che seguì la fine della guerra: la crescita della popolazione (fra
il 1950 ed il 1970 gli abitanti della terra aumentarono del 50% ) significò
infatti un allargamento della domanda dei beni di consumo, di abitazioni, di
strutture sociali e, sui tempi lunghi, l’immissione nei processi produttivi di
un gran numero di forza lavoro spesso più qualificata e più colta, grazie ai
progressi dell’istruzione. Anche il legame fra ricerca scientifica e
produzione divenne strettissimo: l’innovazione tecnologica ebbe una
velocità ed una diffusione d’applicazione enormi. E fra i prodotti di questo
sviluppo tecnologico, ciò che forse più di tutto condizionò e trasformò la
vita quotidiana delle persone fu l’avvento dei mezzi di comunicazione di
massa. Radio e televisioni portarono lo spettacolo dentro le case, creando
nuove abitudini familiari, nuove forme di intrattenimento collettivo ed un
diverso uso del tempo libero. Ma soprattutto crearono una nuova cultura di
massa: una cultura in cui l’immagine tendeva a prevalere sulla parola
scritta ( la prima essendo da sempre caratteristica distintiva delle forme
comunicativo-artistiche popolari ) e una cultura i cui prodotti e i cui
modelli tendevano a diffondersi in tutto il mondo, imponendo ovunque
nuovi linguaggi e nuovi valori, a scapito delle culture tradizionali o
comunque “spontanee”. Questa generale espansione economica provocò
7
inoltre, grazie all’aumento del reddito pro-capite, una fortissima espansione
dei consumi privati: il diffuso e rapido miglioramento del livello di vita
della popolazione costituì la formazione di quella che, con sfumature
concettuali diverse, è stata chiamata “società del benessere” oppure “civiltà
dei consumi”. Fra il ’50 ed il ’70 diminuisce il consumo dei prodotti
alimentari, ed aumenta invece quello di vestiti, elettrodomestici per la casa,
automobili, viaggi, spettacoli e di tutti quei beni e quei servizi fin allora
considerati comunemente non essenziali e riservati alle classi agiate: si
assiste al diffondersi anche fra i ceti medi e fra le stesse classi popolari di
una certa tendenza allo spreco, un tempo caratteristica dei soli ceti
aristocratici. La spinta alla frequente sostituzione dei beni di uso corrente,
spesso molto al di là delle necessità imposte dall’usura materiale, è favorita
dalla razionalizzazione della rete commerciale: assistiamo così anche ad un
processo di omologazione e di standardizzazione dei modelli di consumo in
tutte le aree industriali.
Questi nuovi sviluppi della civiltà industriale posero una nuova serie di
problemi alla cultura occidentale: le trasformazioni della società e del
costume favorirono l’affermarsi delle scienze umane, quali la sociologia, la
scienza politica, la psicologia, ma portarono anche a fenomeni di diffuso
pessimismo e ribellismo, ad una sorta di rifiuto ideologico nei confronti di
una società accusata di sostituire allo sfruttamento economico di tipo
8
tradizionale una forma più raffinata e più subdola di dominio, in cui gli
individui erano sottoposti ad una nuova tirannia tecnologica e i conflitti
sociali sopiti dalla diffusione di un benessere solo di superficie.
Fondamentali in quest’analisi, specialmente perché diventarono la lente di
lettura con cui gran parte del mondo intellettuale – e mano a mano, fasce
socioculturali sempre più larghe (dagli ambienti universitari alle scuole
medie superiori ) – interpretarono la società, apparvero le teorie di
H.Marcuse, espresse in testi che raggiunsero nel giro di pochi anni un
numero elevatissimo di copie vendute. Emblematico è il successo di massa
di un libro come L’uomo a una dimensione
3
, il quale poggiava
sull’affermazione di base secondo cui la “neutralità” della contemporanea
tecnologia non potesse più essere sostenuta. Infatti – vi si legge –
apparentemente fondandosi sul principio che la vita umana sia degna di
essere vissuta, o debba essere resa tale, l’apparato produttivo della società
industriale tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non
soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti,
ma anche le aspirazioni ed i bisogni individuali. Si vengono così a creare
per l’individuo bisogni falsi rispetto ai quali bisognerebbe che gli uomini
fossero in grado di creare una coscienza autentica, capace di negare
l’apparente positività di quello che ci si trova davanti quotidianamente. Ma
3
H. Marcuse “L’uomo a una dimensione” Torino, Einaudi, 1967.
9
quest’autonomia e questo diritto all’opposizione, giudica Marcuse, sono
private della loro funzione critica in una società che pare sempre meglio
soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo in cui è organizzata: il
non conformarsi al sistema appare socialmente inutile, comportando
tangibili svantaggi economici e politici. Ecco che una società simile riduce
l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative
all’interno dello statu quo: entro il medium costituito dalla tecnologia,
economia, politica e cultura si fondono in un sistema onnipresente che
assorbe o respinge tutte le alternative. Infatti, anche il cosiddetto
livellamento delle distinzioni fra classi sociali diverse rivela la sua funzione
ideologica: se, e l’esempio marcusiano è esplicito, la segretaria si veste e si
trucca come la figlia dell’industriale, si sentirà perfettamente soddisfatta di
una parità che è solo apparente e strumentale al creare consenso. Ecco
come le soddisfazioni e i bisogni che servono a conservare gli interessi
costituiti sono fatti propri dalla maggioranza della popolazione. Mano a
mano che i prodotti sono alla portata di un numero crescente di persone,
l’indottrinamento diviene da pubblicità modo di vivere.
Nelle sue riflessioni, prontamente fatte proprie da un’intera generazione,
Marcuse si domanda così come sia possibile che una società la quale
preordina anche i minimi bisogni dell’individuo nella sua sfera privata, si
possa definire una società libera e che legittimamente rispetta tale
10
individuo. Perché questo avvenga è necessario un autentico mutamento
qualitativo della vita della persona; il requisito primario diventa allora la
ridefinizione dei bisogni, ridefinizione che richiede la capacità di pensare
appunto bisogni nuovi e diversi rispetto a quelli proposti ed imposti. Ecco
la riscoperta dunque dell’ “immaginazione” come potenzialità liberatoria
dallo statu quo: ed infatti “l’immaginazione al potere” sarà il motto del
Movimento del ’68 francese. Essa può diventare l’a priori della
ricostruzione e del riorientamento dell’apparato produttivo, tale
rovesciamento venendo ad essere non una questione di psicologia o di
etica, ma proprio di politica. La tendenze totalitarie della società
unidimensionale rendono inefficaci infatti le vie ed i mezzi tradizionali di
protesta, forse persino pericolosi, poiché mantengono l’illusione della
sovranità popolare: il “popolo”, invece, un tempo lievito del mutamento
sociale, è come “salito” sino a diventare lievito della coesione sociale.
Tutta la società industriale è infatti caratterizzata da una “tolleranza
repressiva” e una civiltà vittima di tale ingegneria sociale viene anche
definita, da un intellettuale come il Roszak
4
, “tecnocrazia”. La tecnocrazia,
sostiene l’autore, appellandosi alla scienza come istanza suprema, sfugge
facilmente a tutte le tradizionali categorie politiche, è ideologicamente
invisibile, ma funziona come un imperativo culturale che si trova al di là di
4
T. Roszak “La nascita di una controcultura” Milano, Feltrinelli, 1971.
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ogni dubbio e di ogni discussione. Così quando in tecnocrazia fa la sua
comparsa un qualche attrito sociale, ciò non può essere dovuto che a quella
che viene definita una “interruzione nel comunicare”, giacché dove la
felicità umana è stata così esattamente calibrata, una controversia non può
presumibilmente sorgere a causa di qualcosa di sostanziale, ma solamente a
causa di un equivoco. Anche perché alla fine – perché dovremmo
dubitarne? – tutte le svantaggiate minoranze, ai margini del benessere
generale saranno sistemate, e così la base della tecnocrazia si allarga con
l’incorporare i suoi sempre più stanchi contestatori.
La comunità tecnologica, continua Roszak, ha infatti provveduto anche ad
“integrare” e ad interessare i lavoratori ai problemi produttivi, in modo
differente dal passato, quando il proletariato era una forza antagonista. Il
dominio prende dunque veste di amministrazione. Non appare più la
dipendenza dialettica e reciproca fra Padrone e Operaio, continuamente
spezzata nella lotta per essere riconosciuti dall’altro, ma c’è piuttosto un
circolo vizioso che racchiude entrambi. Infatti le forze politiche presentano
una forma di pluralismo che in realtà elimina se stesso, poiché queste forze
si elidono a vicenda, finendo per riunirsi ad un livello superiore, che è
quello volto ad immunizzare l’insieme del sistema contro la negazione di
esso dall’interno o dall’esterno. La crescita economica ha liberato le società
dalla pressione della natura, che esigeva la loro lotta immediata per la
12
sopravvivenza, ma a questo punto è dal loro liberatore che le società non
sono riuscite a liberarsi. L’economia trasforma il mondo, ma pare
trasformarlo solo in un mondo dell’economia. E se tutto deve essere ridotto
a momento economico, allora lo strumento migliore di pubblicità sono
sicuramente i mass-media e il relativo mondo dello spettacolo, i quali
diventano la guerra dell’oppio permanente per far accettare
l’identificazione di tutti i beni possibili con le merci.
E riguardo a quest’ultimo punto, grande successo di pubblico intellettuale
avevano ottenuto, già nel 1967 ( data della sua prima edizione ), le analisi
condotte da G. Debord, in La Società dello spettacolo
5
, un testo che pur
non avendo raggiunto un livello di diffusione e popolarità di massa pari a
tanti altri “libretti rossi” del movimento sessantottino, va sicuramente
considerato uno dei suoi indiretti stimoli culturali. In esso si considerava
come la civiltà dei Paesi industrializzati stesse attraversando non più una
trasformazione economica, già operata dal capitalismo, ma proprio una
trasformazione nella percezione degli elementi del reale. Vi si affermava
come lo spettacolo – specificatamente lo spettacolo delle merci della civiltà
industriale – fosse diventato lo pseudo-uso della vita: e tale virtualità
dell’esistenza, questa sua artificialità, si presentava come la vendita-
consumo maggiore di cui la società industriale si alimentava, esercitando
5
G. Debord, “La società dello spettacolo” Firenze, Vallecchi, 1979.
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attraverso di essa una dittatura tanto più potente per il fatto di non avere
alcuna delle apparenze del potere. Infatti, la classe ideologico-totalitaria
dominante riesce tanto più forte, quanto più afferma di non esistere, e la sua
forza le serve prima di tutto per affermare la propria inesistenza: come è
raccontato, sotto forma di romanzo utopistico, nel libro di G. Orwell
“1984”, con toni veramente apocalittici. Un’opera che, sebbene scritta negli
anni ’50, conserva un’attualità ed un significato purtroppo sconvolgenti
anche per l’analisi sociologica dei decenni successivi.
Dunque, proseguiva Debord, lo spettacolo non poteva essere considerato
semplicemente come il prodotto delle tecniche di diffusione di massa delle
immagini, ma piuttosto come una Weltanschauung, una visione del mondo.
In tutte le sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o
consumo diretto di divertimenti, esso costituiva il modello presente della
vita socialmente dominante. La realtà vissuta era materialmente invasa
dalla contemplazione dello spettacolo, e riprendeva in sé l’ordine
spettacolare. La nostra “società dello spettacolo”, come veniva
puntualmente nominata dal Debord, era dunque l’affermazione
onnipresente e quotidiana della scelta già fatta nel momento della
produzione: in quanto indispensabile ornamento degli oggetti prodotti, in
quanto esposizione generale della razionalità del sistema, in quanto settore
economico avanzato che crea direttamente una moltitudine crescente di
14
immagini-oggetto, lo spettacolo era la produzione principale della società
attuale. La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva
comportato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente
degradazione dall’ “essere” all’ “avere”, come recitava lo stesso titolo di un
testo di E. Fromm
6
, anch’esso strumento di osservazione della società
molto diffuso all’epoca. La fase presente dell’occupazione totale della vita
sociale da parte dei risultati accumulati dall’economia, conduceva invece
ad un’ulteriore slittamento generalizzato dall’ “avere” al “sembrare”, da cui
ogni “avere” effettivo doveva trarre il suo prestigio immediato. Lo
spettacolo diventava così il discorso ininterrotto che l’ordine presente
teneva su se stesso, il suo monologo elogiativo.
Il capitalismo nella sua forma ultima si presentava dunque, agli occhi di
alcuni intellettuali, come un’immensa accumulazione di spettacoli, in cui
tutto ciò che era direttamente vissuto si era allontanato in una
rappresentazione. La separazione sembrava esser l’alfa e l’omega dello
società: a partire dall’istituzionalizzazione della divisione sociale del
lavoro, la formazione delle classi, si era fondata una prima contemplazione
sacra, l’ordine mitico di cui ogni potere si ammantava fin dalle origini. E
l’alienazione del cittadino-spettatore, continuava Debord, a vantaggio di
qualunque tipo di oggetto egli contemplasse, si esprimeva così: più
6
E. Fromm “Avere o essere?” Milano, Mondadori, 1977.
15
l’individuo contemplava, meno viveva; più accettava di riconoscersi nelle
immagini dominanti, meno comprendeva la propria esistenza e il proprio
desiderio.
Ora, a partire dai primi anni ’60 ( sottolineiamo come, nella memoria
storica comune, “il ’68” sia spesso solo una identificazione cronologica
valida ma sintetica ) l’atmosfera creata da tali riflessioni pareva scuotere
questa paga quiescenza, questa apatica contemplazione dell’individuo
rispetto all’ordinamento civile in cui viveva, e ottenere un seguito che
usciva – anche fisicamente, come movimento di massa – dalle torri
d’avorio delle speculazioni prettamente “intellettualistiche”, diffondendosi
a macchia d’olio in diversi ambiti sociali, a partire ovviamente da quelli
che si trovavano ad essere più vicini al suo nucleo propulsore.
Il fenomeno di presa di coscienza di tali fattori e modi di analisi della
società, e la successiva mobilitazione volta a ribellarsi ad un simile
Sistema, prese l’avvio dagli Stati Uniti, cioè da quella parte del mondo
dove per primi si erano instaurati determinati meccanismi economici e i
loro susseguenti riflessi sociologici
7
. Proprio perché – come dicevamo – le
analisi e le osservazioni che venivano fatte erano di origine culturale, la
loro “esplosione” ebbe per teatro ( e vedremo in seguito l’effettivo
7
Già nel 1962, un gruppo di studenti in vacanza si riunisce a Port Huron, nel Michigan, dove elabora un
primo manifesto di dichiarazioni culturali, la “Dichiarazione di Port Huron”, di cui firmatario principale è
Tom Hayden. In essa si esprimeva la preoccupazione e il dissenso di una generazione che guardava in
16
significato non solo metaforico di questa espressione ) la cittadina
universitaria di Berkeley, in California, nel 1964, dove la protesta
intellettuale si intrecciò con le contestazioni alla guerra nel Vietnam,
giudicata un atto di “imperialismo”, capitalista e “coloniale”, da parte di un
paese ricco contro un paese povero, atto antidemocratico per eccellenza
perpetrato proprio da chi si era posto da sempre – rispetto all’Europa e
rispetto ai Paesi Comunisti – fiero campione delle libertà del singolo e
degli Stati. A ciò si aggiungeva il problema nazionale interno delle
discriminazioni razziali, altrettanto “antidemocratiche”, delle difficili
convivenze di un paese multietnico, con i movimenti antiapartheid, che
andavano dalle mobilitazioni pacifiste del leader M. L. King all’attività
dura ed aggressiva del gruppo Black Power
8
, e a Malcolm X.
Tutte queste azioni di opposizione miravano a dimostrare la contraddizione
essenziale del dominio capitalistico e spettacolare, e cioè il fatto che esso
avesse fallito nel suo iniziale punto di forza, assicurando al suo “popolo”
certe piatte soddisfazioni materiali che escludevano ben altre soddisfazioni,
ma che si presumevano sufficienti per ottenere l’adesione sicura delle
masse. Ora che le masse si volevano mettere in movimento, diventava
modo critico al mondo e alla società presenti, dei quali si sentiva chiamata ad essere erede. In P. Ortoleva,
“Saggio sui movimenti del ’68 in Europa e in America”, Tivoli, Editori Riuniti, 1988, pag. 232-234.
8
La strategia e lo slogan del Black Power erano stati lanciati nel 1966 da S. Carmichael e dalla sua
organizzazione, lo Student Non-Violent Coordinating Committee (Sncc), adottando una linea
rivoluzionaria che aveva abbandonato i principi “kinghiani” dai quali era nata nel 1960.
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evidente il fatto che lo stesso tempo storico, che avrebbe dovuto essere il
tempo del cambiamento, era stato trasformato socialmente dal Sistema: era
stato come riportato a vestire i panni di un tempo ciclico, che non
prevedesse cambiamenti e mutazioni se non nell’ambito del prevedibile e
del già dato.
Inoltre l’entusiastica adesione ai trionfi della scienza e della tecnologia, cui
si stava assistendo in modo sempre crescente dal dopoguerra in poi,
spingeva l’uomo a prefiggersi di ottenere solo ciò che fosse
scientificamente razionale nei termini delle leggi generali – fisiche,
chimiche, biologiche – mentre ciò che viveva al di fuori di questa
razionalità restava relegato a un mondo di valori, che in quanto separati
dalla realtà oggettiva diventavano soggettivi. E per quanto gli ideali
generati dal riconoscimento di questi valori potessero essere momenti di
coesione sociale, come proprio i movimenti della fine degli anni ’60 in
tutto il mondo dimostrarono, essi avrebbero continuato a soffrire di questa
mancanza di oggettività, rimanendo una questione di “preferenza”: il loro
carattere ascientifico indeboliva fatalmente l’opposizione alla realtà
stabilita. Le qualità non quantificabili ( come potevano essere quelle
individuali ) ostacolavano il cammino di un’organizzazione di uomini e di
cose impostata secondo la forza misurabile che si poteva estrarre da essi. Il
18
sillogismo su cui alcuni intellettuali
9
invitavano a riflettere, era questo: il
successo storico della Scienza aveva reso possibile la traduzione dei valori
in compiti tecnici, e se la coscienza scientifica era divenuta coscienza
politica, la Scienza tout-court era diventata Politica.
Nel momento in cui queste riflessioni culturali avevano attraversato
l’Oceano, lungo il corso degli anni ’60, in Europa ci era dunque accorti che
la reificazione, nella sua globalità, non aveva risparmiato neppure le
ideologie, su cui la politica si era fondata fino ad allora – nel bene e nel
male. Colpita veniva anche quella coscienza marxista, che qui aveva le sue
radici e che perciò qui maggiormente si prestava ad essere criticata, la
quale in precedenza era stata proposta e considerata come l’alternativa a
tale sistema ideologico dominante. Essa infatti, rispetto alle origini, e sono
ancora considerazioni di Marcuse
10
, dimostrava di aver perso un
presupposto fondamentale della “sua” rivoluzione, poiché, dissolvendo la
coscienza dei singoli individui nella coscienza di classe, aveva dimenticato
che il cambiamento radicale poteva trarre origine solo dalla soggettività
degli individui, dalla loro intelligenza, dalla loro emotività: da ciò che
poteva motivare i loro obiettivi.
9
AAVV “L’ape e l’architetto” Milano, Feltrinelli, 1976; testo fondamentale per l’analisi del rapporto fra
Prodotti della Scienza e Forme di Potere.
10
H. Marcuse “La dimensione estetica” Milano, Feltrinelli, 1978.