5
Una storia che si dispiega nella notte in quanto, spesso, non riusciamo a vedere il
perché di questo correre, di questo vagare. Siamo attratti solo da questi insoliti
rumori che ci svegliano dal torpore della vita frenetica e dirigono i nostri sensi e la
nostra mente verso la falla che li ha generati. Suoni che diventano immagini e
fantasmi che non trovano pace fino a quando non gli regaliamo una casa, una
locanda, dove abitare o semplicemente sostare per un po’. Occorre allora fermarci e
ascoltare questo tempo per costruirvi la nostra abitazione, per studiarne la struttura,
il colore, la posizione…e finalmente entrarvi o sostarvi. E, una mattina, aprendo la
finestra del nostro cuore, rimaniamo meravigliati da uno spettacolo inaspettato: il
via vai che sembrava sfuggire alla nostra comprensione, si presenta allo sguardo
attonito con una sua coerenza, con un suo disegno. Questa casa io la chiamerei col
nome di narrazione. La narrazione è la dimora che abbiamo bisogno di costruire
perché i nostri eventi e le nostre emozioni abbiano finalmente una storia che dia
loro senso e significato. E perché non ci facciano più paura, ma diventino nostri
coinquilini, li ospitiamo nella nostra abitazione perché trovino alloggio e ristoro.
La narrazione, quindi, fa parte della nostra identità di persone umane.
Ognuno di noi ha sperimentato la necessità di raccontarsi e di raccontare qualcosa
che ha caratterizzato la propria vicenda umana. Siamo identità narrative
3
dice
Ricoeur. Non ci sono definizioni astratte per dire l’identità personale: ciascuno è la
propria storia. Di conseguenza dire che siamo delle identità narrative è dire che
siamo delle identità “aperte”. Attraverso la propria storia, una persona non si limita
a far emergere in superficie ciò che essa è fin da principio, ma si costituisce e si
inventa progressivamente.
L’identità personale sta all’incrocio di due elementi: gli avvenimenti e le
esperienze che ciascuno vive, e l’interpretazione che ne facciamo. Ciò che fa l’unità
di una vita non sono gli avvenimenti bruti, ma l’interpretazione, il senso che diamo
loro. Il modo migliore per imparare a interpretare la propria storia è quello di
3
cfr. RICOEUR P., Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2002. pp. 201-257
6
raccontarla. Il racconto di sé a qualcun altro permette di riappropriarsi del passato,
di strapparlo al caos o alla frammentarietà e di conferirgli un “senso”, cioè di
leggervi una direzione e quindi un significato.
«La narrazione è una forma di “organizzazione dell’esperienza”. Serve a costruire il
mondo, per caratterizzarne il flusso, per suddividere gli eventi al suo interno… Se non
fossimo in grado di operare tale strutturazione, ci perderemmo nel buio di esperienze
caotiche, e probabilmente non saremmo affatto sopravvissuti come specie. Questa
strutturazione è sociale, finalizzata alla condivisione del ricordo nell’ambito di una
cultura, piuttosto che semplicemente ad assicurare un immagazzinamento
individuale»
4
.
Secondo Bruner l’uomo è diventato civile, cioè capace di vivere dentro una
comunità organizzata e strutturata culturalmente, quando ha imparato l’arte del
racconto. Non solo, ma sempre attraverso il racconto, è stato creatore di civiltà e di
cultura. Ma allora che cos’è quest’arte “creativa”? Che tipo di pensiero presuppone
e quale genera?
La riposta a queste importanti domande cercherò di trovarla nel primo
capitolo di questo elaborato quando analizzerò più da vicino gli elementi che
compongono la narrazione e, con l’aiuto di autorevoli studiosi, tenterò di trovare il
pensiero che vi sottostà e quale riesce a produrre. E’ rilevante scoprire il pensiero
che spinge al comportamento perché l’uomo si muove e crea proprio in base a ciò
che si rappresenta dentro e fuori di sé. Il pensiero e la conseguente arte narrativa
hanno accompagnato importanti civiltà e culture: ne hanno costituito talora
l’origine, l’identità, talora la morte e la rinascita.
Nel secondo capitolo, allora, cercherò di analizzare come questo pensiero ha
accompagnato la storia di due civiltà a me molto care: quella ebraica e quella
cristiana. Due pietre miliari della storia delle religioni che hanno fatto della
narrazione un mezzo per esprimere la propria identità in rapporto a Dio e al mondo.
Due culture che usano tuttora l’arte narrativa come strumento pedagogico e come
4
J. BRUNER, La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 64-65
7
metodo terapeutico. Il loro libro sacro, la Bibbia, è uno scrigno prezioso che
contiene miriadi di storie con finalità pedagogiche e terapeutiche.
Nei capitoli tre e quattro cercherò, allora, di approfondire questa prospettiva
anche con l’apporto di validi contributi provenienti dal mondo della riflessione
pedagogica e psicanalitica.
8
CAPITOLO PRIMO
L’IDENTITA’ DEL RACCONTO
1.1. Le forme della narrazione
Come ho rilevato nell’introduzione, narrare è un’attività molto antica adoperata
dall’uomo per comunicare ai suoi simili la propria conoscenza e consapevolezza di
eventi, cose e persone. Un narratore infatti, disponendo d’informazioni a lui solo
note, può rendere partecipi della propria personale esperienza anche altri individui.
La narrazione è dunque uno degli strumenti più utili alla compartecipazione
dell’esperienza dei singoli con una più ampia comunità. Mediante la narrazione si
viene così a costruire una parte rilevante di quel patrimonio di memorie e di
esperienze che definiscono un’intera tradizione culturale. Ma dovendo dare una
definizione ben precisa del termine ci imbattiamo subito sul problema della
molteplicità dei suoi aspetti. La comune esperienza ci insegna che una delle
principali forme della narrazione è quella che viene definita come verbale o orale.
In ogni nostro dialogo viviamo infatti la diretta esperienza della narrazione come
comunicazione compiuta utilizzando i suoni del linguaggio articolato. Il mito, la
leggenda e il racconto popolare, ma anche l’epica e la fiaba, sono tutte forme di
narrazione la cui esistenza e la cui struttura è determinata dal fatto di essere state
trasmesse secondo una modalità di comunicazione orale. Nelle culture arcaiche,
infatti, il modo corrente di trasmettere racconti, informazioni e conoscenze era
quello della narrazione mediante la parola. Essendo allora ignota o scarsamente
utilizzata la scrittura, la conservazione delle informazioni essenziali per l'istruzione
delle nuove generazioni - la memoria storica di una cultura o di una società - era
legata alla continua ripetizione di una serie di racconti che divenivano in tal modo
tradizionali.
9
Il narratore orale doveva essere in grado di ripetere, nei limiti della propria
memoria, il testo del racconto, cercando di preservarne l'integrità e mantenendone la
coerenza con la tradizione.
Il mito in particolare sembra incarnare l'essenza di questa modalità di
conservazione e trasmissione del sapere. I racconti delle gesta e delle imprese di dèi
e di eroi narrati dagli anziani del villaggio o da narratori itineranti specializzati
sono, ancora oggi in alcune culture dette «primitive», il veicolo di una serie di
istruzioni fondamentali per la vita del singolo, sia in rapporto al mondo naturale che
lo circonda, sia in relazione ai suoi simili con cui deve convivere.
Il ruolo dei cantori, cantastorie o aedi - così come venivano denominati i narratori
orali nell'antichità - risulta essere in tal modo essenziale alla sopravvivenza di una
cultura. Non essendo possibile conservare le proprie conoscenze su di un supporto
fisso e duraturo come quello garantito dall’uso esteso della scrittura, solo la
continua ripetizione dei racconti poteva permettere la sopravvivenza
dell’«enciclopedia» di una cultura. Da questo fatto deriva anche l'importanza e il
valore attribuito alle funzioni e alla figura stessa del cantore nelle società in cui
l'oralità rimane la forma prevalente di comunicazione. Con l’estendersi dell’uso
della scrittura come strumento di comunicazione e di conservazione del sapere
tradizionale, si è stabilito anche un sempre più stretto legame tra le forme della
narrazione e il concetto di letteratura. La letteratura è per definizione una forma di
comunicazione scritta, in quanto composta di caratteri o lettere, ma alla sua origine
si trova un lento e spesso oscuro processo di assorbimento di precedenti tradizioni
orali. Esistono delle forme di narrazione scritta che mantengono ancora alcune
caratteristiche tipiche delle forme espressive orali da cui sono derivate.
La fiaba, l’epica, ma in buona parte anche la tradizione teatrale, possono ancora
oggi essere ritenute forme miste di narrazione, che portano con sé caratteristiche
della loro originaria oralità.
10
La forma narrativa letteraria oggi dominante è certamente quella del romanzo.
Ma al genere romanzo così come noi lo conosciamo si è comunque giunti attraverso
un lungo percorso che, dalle forme ancora prossime all’oralità della novella tardo
medievale e del poema cavalleresco rinascimentale, fino al genere più strettamente
“letterario” del romanzo epistolare settecentesco, ha portato alla narrazione
romanzesca
5
.
5
cfr. R. SCHOLES, R. KELLOGG, La natura della narrativa, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 21-69
11
1.2. Storia, racconto e narrazione
In queste prime pagine ho impiegato con una certa disinvoltura e indifferenza i
termini racconto, storia e narrazione, come se si trattasse di sinonimi, o comunque
di espressioni la cui reciproca definizione non ponesse alcun problema. Ma occorre
precisare che intorno al temine racconto esiste una certa ambiguità implicita nel suo
uso corrente. Gerard Genette, distingue almeno tre principali accezioni di senso:
1) mediante il termine racconto si indica in primo luogo l’enunciato narrativo, il
discorso orale o scritto che riporta la relazione di un avvenimento, o di una
serie di avvenimenti. Si tratta del singolo e concreto prodotto di un atto di
enunciazione;
2) in secondo luogo per racconto si intende la sequenza di avvenimenti, reali o
fittizi, che costituiscono l'oggetto del discorso, così come le diverse relazioni
di concatenamento, opposizione e ripetizione tra gli eventi riportati;
3) la terza accezione del termine racconto indica la concreta situazione in cui
qualcuno racconta qualcosa, l’atto di narrare in se stesso. Si tratta del
racconto inteso come atto di enunciazione
6
.
Questi tre elementi convivono sempre insieme e, anche se adesso distinti per
ragioni di definizione, si devono scovare sempre in un atto narrativo.
Come emerge dal primo punto ogni racconto deve fare i conti con la storia da
esso veicolata, così come dei tratti o elementi della narrazione - del suo contesto e
della sua dinamica - che vengono rispecchiati o riportati nei discorso. In un primo
momento ciò che si impone all'attenzione del fruitore di un «racconto» è il solo
discorso narrativo, la catena degli enunciati che ne costituiscono la superficie si-
gnificante. Solo in un secondo tempo sarà possibile identificare e mettere in
evidenza gli altri due piani costitutivi del racconto: da un lato l'ossatura degli eventi
narrati, dall’altro le tracce - reali o fittizie che siano - del suo atto di produzione.
6
cfr. G. GENETTE, Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino, 1976, pp. 67-316
12
Due parole andrebbero spese riguardo al concetto di storia. Gli avvenimenti
riportati in un racconto possono infatti appartenere a due ben distinte categorie: si
può trattare di eventi reali, storicamente documentati, oppure di avvenimenti e
azioni che siano il frutto della fantasia o della creatività del singolo autore. In questo
modo si sono delineate diverse forme di classificazione del racconto fondate sul
differente statuto – reale o di finzione - degli eventi narrati. Sul versante della realtà
si collocano abitualmente tutti i racconti attribuibili alla cronaca («i fatti del
giorno») e alla storia (intesa come scrittura professionale degli eventi storici o
storiografia). Sull’altro versante, quello della finzione, si collocano tutti i generi di
discorso definiti letterari, dalla poesia al romanzo. In realtà la situazione è molto
meno chiaramente delineata e, più che una contrapposizione tra due territori, il
rapporto tra reale e finzione sembra disegnare un arco continuo di generi e tipologie
di racconto. Un tipico esempio di commistione tra realtà e finzione è dato dal
romanzo storico, un genere letterario in cui personaggi di finzione «vivono» sullo
sfondo di una realtà storicamente documentata. D'altronde anche quel particolare
genere di racconto identificabile nelle biografie di personalità storiche non si può
negare che sia fortemente intriso di finzione e di «letterarietà». Ma ogni perso-
naggio, storico o di finzione che sia, una volta rinchiuso in un racconto deve vivere
la realtà «limitata» di quel mondo di carta e di parole.
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1.3. Fabula e intreccio
Alla coppia storia-narrazione corrisponde un altro binomio importante presente
nell’atto narrativo: quello di fabula-intreccio. La fabula è la disposizione in ordine
cronologico dei nuclei narrativi funzionali, mentre l’intreccio è la forma che essi
assumono nella libera dinamica del racconto
7
. La fabula è l’aspetto più razionale,
un’astrazione operata dal lettore per riordinare le unità narrative in una successione
logica e cronologica; essa, come dice Bruner, è presente nella mente del lettore ed è
proprio in virtù di tale presenza che egli è in grado di riconoscere le sue varie forme
in tutte le loro espressioni
8
. L’intreccio invece è contenuto nel testo e si manifesta
concretamente a livello di narrazione di capoverso in capoverso. In parole povere
possiamo definire la fabula come la materia prima, la struttura profonda, del
racconto: essa rappresenta l’unione di tre elementi costitutivi: la situazione, i
personaggi, e la consapevolezza della situazione che li caratterizza. L’interazione
tra questi tre elementi conferisce unità al racconto e dà vita a una struttura dotata di
un inizio, uno sviluppo e un compimento. L’intreccio è la storia vera e propria,
costruita collegando in ordine sequenziale i vari episodi che la compongono.
L’intreccio fornisce quindi il modo e l’ordine attraverso i quali il lettore diviene
consapevole di ciò che è accaduto e tramite i processi di interpretazione del testo
contribuisce egli stesso alla costruzione di un significato testuale. Un esempio
esplicativo della differenza tra intreccio e fabula ci viene fornito da Umberto Eco
nel suo libro sei passeggiate nei boschi narrativi
9
presentando l’Odissea do Omero.
L’autore vede nella fabula la storia pura e semplice raccontata da Omero: la vicenda
dell’eroe Ulisse che abbandonando Troia in fiamme, attraverso varie vicissitudini
che tutti conosciamo, salpa verso Itaca dove sconfigge i Proci e si ricongiunge con
Penelope. La fabula procede in modo lineare da un momento iniziale (fuga da
7
A. MARCHESE, L’officina del racconto, Mondatori, Milano 1983, p. 84
8
J. BRUNER, La mente a più dimensioni, Laterza, Roma 2003, p. 26
9
U. ECO, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano 1994, pp. 41-42
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Troia) verso un momento finale (ricongiungimento con Penelope). Ma l’intreccio
dell’Odissea è ben diverso. L’opera inizia in un momento particolare quando quella
voce, che chiamiamo Omero, inizia a parlare. Possiamo identificare quel momento
con il giorno in cui, secondo la tradizione, Omero ha iniziato il suo canto. In ogni
caso, l’intreccio inizia quando Ulisse è già prigioniero di Calipso, sfugge alle sue
insidie amorose, naufraga tra i Feaci e solo a quel punto (al canto ottavo) racconta la
sua storia.