2
L’agire economico diviene quindi un ulteriore banco di prova dove la fedeltà al
messaggio divino e all’etica morale trasmessa dai precetti religiosi viene
richiesta senza condizioni, poiché parte della vita individuale al pari di ogni
altro momento attivo e partecipe della persona, cui è richiesto un grado di
coerenza e di rispetto alla legge sacra maggiore che in ogni altra religione
comparabile. Non essendo riconosciuta alcuna distinzione tra mondo spirituale
e terreno, le attività economiche divengono semplicemente un ulteriore mezzo e
strumento attraverso cui l’uomo può realizzarsi come individuo prescelto,
sfruttando i doni divini e mettendoli al servizio del benessere proprio ma
contemporaneamente dell’intera comunità.
Il modello economico si propone come alternativa ai tradizionali sistemi
capitalistici e socialisti, preferibile perché costituito da elementi, obiettivi e
strumenti rispettosi della totalità delle norme della Sharia, tra cui si cita il
divieto d’interesse, l’obbligo di agire con Responsabilità nei confronti della
propria natura di uomo libero e dell’appartenenza ad una società costituita da
molteplici individui diversi ma con uguali diritti e doveri, la cosciente
sottomissione al volere divino.
Le basi del modello sono da ricercarsi nelle fonti giuridiche dell’Islam, in
primis il Corano e la Sunna, l’insieme dei detti e dei fatti del Profeta che
possiedono una valenza normativa, cui è da aggiungersi il contributo generato
da progetti di studio ed analisi che mirano alla definizione del sistema stesso,
non come semplice e mera alternativa d’opposizione alle teorie economiche
tradizionali, ma come corpo indipendente con una propria storia e una propria
identità percepibile e definita.
L’interesse per la proposta, dapprima limitato geograficamente ai paesi islamici,
si è via via diffuso ed ampliato, giungendo alla teorizzazione di un sistema
sempre più complesso ed approfondito, che attraverso la definizione di
strumenti finanziari, politici ed economici in genere, ha acquisito una credibilità
maggiore, perdendo la connotazione di ideale non realizzabile né
implementabile nei diversi contesti ambientali, ma divenendo al contrario realtà
3
concreta attuata, con diversi gradi, in molteplici nazioni, prime fra tutte il
Pakistan e la Malesia.
Dal secondo dopoguerra e specialmente in epoca recente, si è assistito ad uno
sviluppo senza pari del progetto, grazie soprattutto alla grande attività di
formazione e ricerca realizzata, che ha contribuito senza dubbio ad una
maggiore apertura anche al mondo occidentale, non più considerato un
antagonista quanto a processi e modelli di sviluppo e crescita economica, ma
come risorsa e stimolo per nuove idee e nuovi piani da concretizzare in modo
flessibile e adeguato ai diversi contesti sociali, economici e culturali di
implementazione.
La chiusura che in precedenza aveva contraddistinto i primi contributi di ricerca
e teorizzazione, forse timorosi di una critica generalizzata più rivolta alle idee
religiose sottostanti il modello che alla sua validità in termini di efficacia e di
efficienza economica, ha lasciato spazio ad una collaborazione profonda e
sincera, dando vita a molteplici progetti di cooperazione internazionale tra
organismi finanziari ed enti di ricerca, il cui numero è aumento
considerevolmente a partire dagli anni settanta, vero punto d’inizio
dell’applicazione del modello islamico a livello logistico e strutturale e non più
esclusivamente speculativo e dottrinale.
Nell’ultimo ventennio sono stati istituiti alcuni dei maggiori corpi organizzativi
attivi nel campo dell’economia islamica, basti citare l’Organization of the
Islamic Conference, l’Islamic Development Bank, l’Islamic Research and
Training Institute che, dando vita ad un solido progetto di diffusione del
modello, hanno sostenuto attraverso complessi quanto ricchi programmi di
formazione, assistenza tecnica e conoscitiva delle modalità esecutive attuabili e
legittime, l’attività e lo sforzo di innumerevoli Banche e società finanziarie che
correntemente operano secondo le leggi della Sharia, rendendo il panorama
economico ed imprenditoriale delle nazioni di appartenenza decisamente più
dinamico ed attivo.
4
Nonostante i grandi progressi compiuti, le evoluzioni e gli sviluppi che hanno
contraddistinto l’attività di ricerca e di definizione dei settori di attività, delle
modalità attuative del modello, dei percorsi e dei progetti elaborati, molta strada
deve ancora essere fatta. Il processo di implementazione è ancora ad uno stadio
iniziale, molti sono infatti i limiti operativi che debbono essere affrontati, e la
mancanza di un’omogeneità di pensiero, pur denotando una vivacità culturale
molto forte e caratterizzante, è indice dell’immaturità del sistema stesso.
Pur avendo raggiunto in numerosi casi un livello di efficacia e di efficienza
comparabile e concorrenziale con le banche tradizionali, gli istituti finanziari
islamici operano infatti in un contesto ancora povero e imperfetto dal punto di
vista delle infrastrutture logistiche necessarie ad un mercato globale in continua
trasformazione.
La vera sfida è dunque rappresentata dalla capacità intrinseca del modello di
affermarsi non solo perché idea e proposta rispettosa dell’etica e dei valori
fondamentali dell’Islam, ma anche per le sue qualità più prettamente
economiche, misurate attraverso indicatori universalmente riconosciuti ed
approvati.
L’analisi compiuta si struttura su uno studio a più livelli del modello economico
islamico, considerato dapprima nella sua natura di fenomeno sociale e culturale
ancor prima che economico.
Nel primo capitolo viene infatti ripercorsa la storia dell’origine delle prime
teorie sottostanti, che intravedevano nel modello economico una via, uno
strumento per riaffermare l’identità culturale della comunità musulmana,
desiderosa di emanciparsi dalle strutture e dai modelli occidentali, per ritrovare
al fine una propria identità che sembrava oscurata.
Si descrive quindi l’importante ruolo che esse svolsero nell’India del periodo
tardo coloniale, dove riuscirono a rappresentare le aspirazioni di crescita e
5
riaffermazione che caratterizzavano gran parte dell’Umma, la comunione dei
credenti.
Comprendere il modello islamico significa però, senza dubbio alcuno, partire
dai suoi fondamenti e pilastri religiosi, poiché solo attraverso un approfondito
esame delle fonti e del messaggio sociale e spirituale implicito al sistema stesso,
è pensabile una sua successiva definizione in termini più prettamente
economici. Questo è il tema sviluppato nel secondo capitolo che, analizzando le
diverse fonti giuridiche islamiche, sottolinea l’eccezionalità della fede islamica,
espressione di un pensiero religioso che, come è noto, è guida non per la sola
sfera privata, intima e individuale, ma è sorgente di norme e principi di condotta
validi in ogni settore della vita pubblica della comunità.
Grazie allo studio dei Testi sacri per eccellenza, il Corano e la Sunna, l’insieme
cioè dei detti e dei fatti del Profeta, si definisce quindi il concetto di proprietà
privata, un’istituzione che a ragione può definirsi rappresentativa dell’insieme
dei valori primari dell’Islam.
La terza parte dell’opera affronta il delicato tema dell’identità stessa del
modello islamico, mettendo in luce il delicato processo di identificazione e
successiva selezione degli obiettivi caratterizzanti la struttura del sistema, in
sintesi un maggior grado di equità distributiva e di uguaglianza in tutti i settori
della vita sociale ed economica, nel rispetto della libertà individuale e del
principio di responsabilità verso l’Umma. Al fine di meglio comprendere le
molteplici sfaccettature di questo difficile passo viene presentato lo studio
condotto da Naqvi, il quale attraverso la costruzione di un modello assiomatico
costituito dai quattro valori cardine di una società musulmana rappresentativa,
indica gli obiettivi caratterizzanti, gli strumenti utilizzabili e i possibili corsi
d’azione percorribili.
Viene successivamente introdotto l’istituto della zak…h, nota anche come
elemosina obbligatoria e uno dei cinque pilastri della religione islamica.
L’importanza della zak…h è forse oggi più limitata alla sfera teorica e simbolista
che pratica, ma è certo un esempio valido ed efficace per rendere conosciute e
6
comprensibili alcune delle note peculiari del modello islamico, che si distingue
per il ruolo e il peso riconosciuto a valori e principi legati ad una concezione
etica e solidale in genere sconosciuta o marginale nel mondo occidentale.
La terza parte si conclude con un confronto tra il modello islamico e i sistemi
economici tradizionali, Capitalismo, Socialismo e Welfare State, mettendo in
evidenza non solo gli elementi di contrasto e di difformità quanto ad obiettivi,
priorità, strumenti e strutture, ma sottolineando al contempo i punti di contatto,
lasciando intravedere spiragli e possibilità di future cooperazioni e reciproche
influenze.
Il quarto capitolo si configura come il capitolo più tecnico dell’intero studio,
poiché si focalizza sul funzionamento pratico del modello islamico, studiandone
gli aspetti più prettamente operativi e strumentali legati all’implementazione
delle teorie e degli ideali precedentemente analizzati.
Motivando storicamente il divieto coranico all’utilizzo dell’interesse, perno
dell’economia moderna, viene quindi affrontato l’interessante quanto
problematico aspetto della creazione e della successiva applicazione di
strumenti finanziari alternativi, coerenti alla legge spirituale, la Sharia, ma
contemporaneamente in grado di soddisfare i requisiti di efficacia ed efficienza
richiesti in un contesto ambientale globale e dinamico, caratterizzato da
un’agguerrita concorrenza.
L’ultima parte presenta la storia delle principali istituzioni ed organizzazioni
attive nel campo dell’economia e della finanza islamica, riconoscendo ad esse il
grande ruolo di aver permesso e sostenuto la nascita e lo sviluppo di un pensiero
economico islamico dotato oggi di una forte identità e caratterizzazione.
Tratteggiando l’attività dell’Organization of the Islamic Conference (OIC),
principale fautrice delle prime conferenze e dei primi incontri di studio sulla
materia, passando per l’Islamic Development Bank (IsDB) e l’Islamic Research
and Training Istitute (IRTI), due enti protagonisti dell’ideazione e della
successiva realizzazione di un’innumerevole serie di programmi, piani e
progetti finalizzati al sostegno economico, finanziario ma soprattutto culturale
7
del modello islamico, viene così messa in luce la forza e la vitalità della
comunità intellettuale islamica, che sempre più desta interesse e attenzione
anche nel mondo occidentale, così apparentemente distante, ma al contempo
indissolubilmente collegato.
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1. LE ORIGINI DELL’ECONOMIA ISLAMICA
Il ventesimo secolo ha visto l’emergere e l’affermarsi di una dottrina economica
che si autodefinisce “economia islamica”, il cui obiettivo primario è quello di
strutturare e realizzare un ordine economico che sia conforme alla religione e
alle tradizioni islamiche.
Le origini di questo movimento non solo economico ma anche culturale e
sociale, risalgono agli anni ’40, mentre già trent’anni più tardi i tentativi
d’implementazione erano visibili e concreti in numerosi paesi.
1
Attualmente Stati come la Malesia e il Pakistan stanno realizzando sistemi
centralizzati di ridistribuzione del reddito, e più di sessanta paesi in tutto il
mondo hanno banche islamiche che offrono un’alternativa al credito e
finanziamento con interesse. Diverse nazioni tra cui il Pakistan e l’Iran stanno
attuando politiche economiche che escludono totalmente l’uso dell’interesse,
obbligando tutti gli istituti bancari, compresi quelli stranieri, ad adottare almeno
a livello formale le pratiche islamiche di gestione dei prestiti e dei depositi.
Numerosi sono inoltre i tentativi di applicazione di norme religiose ai processi
di determinazione dei prezzi e dei salari e di negoziazione e definizione dei
contratti.
Non esistono molte ricerche o studi sulle origini di questa dottrina economica e
questo è forse in parte dovuto al carattere stesso dell’economia islamica che,
ancorata alle verità teologiche ed eterne dei dogmi religiosi, difficilmente può
1
Per una discussione critica sull’Economia Islamica vedi Rahnema Ali and Nomani, Farhad,
Islamic economic systems, Zed Books, London, 1994; Kuran, Timur, “The economic impact
of Islamic fundamentalism”, in Martin Marty and R. Scott Appleby, Fundamentalism and the
State: remaking polities, economies and militance, University of Chicago Press, Chicago,
1993, pagg. 302-341; Richards Alan and Waterbury, John, A political economy of the Middle
East : State, Class, and Economic Development, Boulder, Westview Press, 1990, cap. 14 e
Malik, Muwa¥¥a’, Al-Muwa¥¥a’ li-l-im…m, M…lik ibn Anas bi-šar| aš-šay² Mu|ammad az-
Zurq…n†, quattro voll., Cairo 1892.
9
essere sottoposta ad una verifica o analisi delle sue premesse come una qualsiasi
altra teoria scientifica o economica.
L’economia islamica pretende di riflettere le verità fondamentali di fede e i
principi che sono fondamento della religione islamica: insegnamenti
eternamente validi, fissati e immobili nel loro ruolo di punti di riferimento per
tutta la teologia e la morale islamica che, come più volte si evidenzierà, è
un’etica che coinvolge l’individuo in ogni sfera della sua vita e in ogni sua
azione.
Analizzando il mondo islamico dal punto di vista dello sviluppo economico, si
evidenzia per la maggior parte dei paesi che ne fanno parte una situazione di
arretratezza rispetto all’Europa e al Nord America. Se la religione portò con sé
una crescita notevole della comunità islamica già ai tempi di Maometto,
contribuendo con le sue politiche, i suoi principi e le sue pratiche alla
risoluzione di molti dei problemi della società islamica primitiva, questo
cammino di sviluppo si è poi arrestato, determinando un stato di perenne
inseguimento dei paesi musulmani rispetto al mondo occidentale.
La necessità di riforme economiche e sociali non è un’esigenza di recente
formazione, ma è al contrario un elemento che ha contraddistinto gli ultimi
secoli della storia del mondo islamico, senza che d’altra parte si sviluppasse un
reale e concreto programma economico alternativo.
Negli anni ’50 i paesi islamici erano caratterizzati da una serie di elementi che
definivano un quadro di crisi che investiva i più diversi settori della società:
quello politico, quello economico e, non per ultimo, quello culturale.
I forti legami con il mondo occidentale e la conseguente importazione di
modelli comportamentali ed economici divengono oggetto di discussione e
critica, e il dibattito sull’opportunità di una tacita accettazione e applicazione di
tali modelli in un contesto essenzialmente differente quale quello islamico e
mediorientale, acquisisce sempre più vigore.
10
Nel decennio seguente la richiesta di una risposta più in linea con la storia
locale nelle sue diverse accezioni inizia a concretizzarsi, dando vita ai primi
tentativi di analisi e studio di modelli economici alternativi.
2
Protagonista e attiva sostenitrice in questo processo di definizione e sviluppo di
una “terza via” fu l’Arabia Saudita, che insieme ad altri paesi del Golfo
esportatori di petrolio dedicò ingenti risorse allo sviluppo e studio di modelli e
progetti in linea con i bisogni economici, sociali e culturali del mondo islamico.
L’obiettivo è quello di giungere alla definizione di un piano di sviluppo
economico che rispetti i principi e la tradizione islamica e si differenzi così
dalle concezioni economiche occidentali, siano esse di stampo capitalista o
socialista.
Le ragioni di un così tardo e apparentemente non spiegabile ritardo nel definire
un percorso di sviluppo differente, è analizzabile e comprensibile solo
sottolineando come nel mondo islamico gli elementi più prettamente tecnico-
economici siano strettamente legati alla dimensione sociale e culturale della
società.
In quest’ottica l’economia islamica assume un ruolo più ampio e profondo: non
più solo risposta a problemi di arretratezza e sottosviluppo ma anche strumento
di distinzione e identificazione per l’intera comunità.
2
Tra gli settanta e gli anni ottanta l’obiettivo non fu più quello di analizzare l’idea stessa del
modello economico islamico e la sua natura, ma si trasformò in un’analisi dei primi risultati
concreti raggiunti e delle performance finanziarie realizzate. L’interesse per il tema divenne
più diffuso e internazionale, prova ne sono le numerose conferenze e incontri che
cominiciarono a svilupparsi.
Si citano ad esempio la Conference on Islamic Banking, tenuta a Londra nel settembre del
1984, il Workshop on Industrial Financing Activities of Islamic Banks organizzata a Vienna
nel giugno del 1986, l’International Conference on Islamic Banking tenutasi nello stesso
periodo a Tehran, e ancora l’International Conference on Islamic Banking and Finance:
Current issues and future prospects tenutasi a Washington, D.C. nel settembre del 1986.
Sempre nello stesso anno si tenne a Genova l’Islamic Banking Conference, mentre nel 1988
Londra ospitò un incontro sul futuro del settore bancario islamico negli anni novanta. Nel
1992 si tenne poi ad Islamabad un workshop internazionale sul ruolo dell’interesse in un
contesto islamico e le sue modalità di eliminazione e sostituzione con strumenti coerenti con la
legge e l’etica islamica.
1
a) RINASCITA E RIAFFERMAZIONE ISLAMICA
Il carattere di assoluta novità del pensiero economico islamico è dimostrabile
attraverso le opere di numerosi islamisti, che pur contribuendo in maniera
fondamentale all’evoluzione del pensiero e della dottrina islamica,
manifestarono sempre disinteresse per lo sviluppo di un sistema economico in
linea con la religione musulmana e la sua etica.
Accanto a studiosi di primo piano come Muhammad Abduh, Jamal ad-Din al-
Afghani e Sayyd Ahmad Khan, solo per citarne alcuni, esemplare appare la
figura di Mohammad Iqbal (1876-1938), il poeta e filosofo indiano che resta
una delle voci più autorevoli nel processo di riaffermazione e rinascita islamica
degli ultimi due secoli.
Nel 1902, prima di diventare un islamista, Iqbal pubblicò un libro intitolato
Ilmul Iqtesad (Science of Economics), la cui laicità resta una delle
caratteristiche più rilevanti.
Alcuni anni più tardi Iqbal si convertì all’Islamismo, e questo passaggio
fondamentale nella sua vita di uomo e di studioso, coincise con un
cambiamento altrettanto forte di prospettiva: l’economia cessò di essere vista
come uno strumento di cambiamento e una leva su cui poter agire per rafforzare
e riaffermare l’identità dell’Islam e delle sue tradizioni, e in nessuna delle sue
opere successive è possibile ritrovare il concetto o l’idea di una forma
economica specificatamente islamica.
Allo stesso modo lo sviluppo di un sistema economico islamico non rientrò mai
tra gli obiettivi dichiarati e perseguiti del Panislamismo, il movimento diffuso a
livello internazionale a partire dalla fine del diciannovesimo secolo e mirante ad
unire tutto il popolo musulmano sotto un’unica nazione. Preoccupati
dell’avanzata militare delle potenze europee in territorio islamico, gli aderenti a
12
questo gruppo si richiamavano al concetto di “solidarietà religiosa
sovranazionale”
3
come mezzo di resistenza e di opposizione allo sfruttamento.
Pur riconoscendo la possibilità di utilizzare strumenti economici per la difesa
dagli “invasori”, per esempio attraverso il rifiuto di pagare le tasse,
4
non si
giunse mai alla identificazione o riscoperta di pratiche o norme economiche
islamiche, né tantomeno si sviluppò mai una reale dottrina economica.
Per quanto non abbiano mai trattato esplicitamente dell’islamizzazione
dell’economia, gli studiosi musulmani della fine dell’ottocento e prima parte del
novecento ebbero però il merito di preparare le masse, introducendo un concetto
che diventerà in seguito il leitmotiv dell’impegno di numerosi altri profondi
conoscitori dell’Islam e delle sue tradizioni: l’idea stessa di “rinascita e
riaffermazione islamica”.
Esemplare in questo senso è il caso dell’India tardo coloniale, dove l’economia
islamica nacque e si sviluppò, non solo con la funzione di essere una valida
alternativa ai sistemi occidentali, ma anche con l’obiettivo di preservare
l’identità religiosa, la cultura e le tradizioni della minoranza islamica, che
all’epoca costituiva circa un quinto dell’intera popolazione.
3
Landau, Jacob, The Politics of Pan-Islam: Ideology and Organization, Clarendon Press,
Oxford, 1990, pagg.119-20.
4
Landau, op. cit.
13
b) L’ECONOMIA ISLAMICA COME STRUMENTO
DI DIFFERENZIAZIONE SOCIALE NELL’INDIA
TARDO COLONIALE
Negli anni trenta, in un contesto di crescente agitazione e di lotta per
l’indipendenza indiana, un numero sempre maggiore di musulmani cominciò a
credere e sostenere l’idea che una classe dirigente Indù li avrebbe dapprima
osteggiati, per poi in seguito discriminarli e confinarli ad un ruolo di secondo
piano nella vita economica e sociale del paese.
5
Questi timori erano favoriti dal livello crescente di indebitamento dei proprietari
terrieri musulmani per lo più nei confronti di creditori Indù, pronti ad
espropriare i possedimenti degli insolventi. Nonostante le autorità britanniche
avessero emesso delle disposizioni finalizzate ad impedire gli espropri, vi era
motivo di credere che un governo guidato dagli Indù non avrebbe continuato la
stessa politica di tutela, e questo contribuì ad alimentare il clima di tensione e
diffidenza che pervadeva gli ambienti islamici.
Cominciarono a diffondersi proposte a favore della creazione di una nazione
islamica, distinta e separata dall’India, molto tempo prima che nascesse l’idea
di Pakistan e più di un decennio prima che il nuovo Stato si realizzasse.
Accanto a queste correnti separatiste vi era però anche chi riteneva che il vero e
unico obiettivo cui la minoranza musulmana doveva mirare non fosse
l’indipendenza politica bensì quella culturale, ritenendo peraltro i due aspetti
inconciliabili.
5
Per una più dettagliata analisi dei rapporti sociali del tempo cfr. Aziz K. K., The Making of
Pakistan: A Study in Nationalism, Chatto & Windus, London, 1967, capp. 2 e 3; Sayeed
Khalid B., Pakistan: The Formative Phase, 1857-1948, seconda ed., Oxford University Press,
London, 1968, capp. 3 e 5 e Nagarkar, V. V., Genesis of Pakistan, Bombay, Allied Publishers,
1975, capp. 4-6 e 14.
14
Esponente di rilievo di questo filone fu Sayyd Abu’l-A’la-Mawdudi (1903-
1979), fondatore del Jama’at-i Islami (Partito dell’Islam), primo gruppo politico
in India e successivamente in Pakistan.
Egli certo non introdusse per primo il discorso sull’economia islamica nei
delicati rapporti indo-musulmani, ma ebbe il merito indiscusso di diffonderne
l’esistenza e la conoscenza attraverso i suoi discorsi, convegni e pubblicazioni,
coniando termini come “ideologia islamica”, “politica islamica” e “stile di vita
islamico” che divennero poi elementi chiave del processo di rinascita e
riaffermazione del popolo musulmano.
Mawdudi rifiutava l’idea di creare una nazione indipendente per i musulmani
dell’India, sulla base della convinzione che tutti i credenti fossero uniti da una
“fratellanza” caratterizzata da uno “stile di vita onnicomprensivo da presentare
e offrire al mondo” che se rispettato e osservato in tutti i suoi diversi aspetti,
avrebbe reso il concetto di patria “totalmente immateriale”.
6
Pur riconoscendo i pericoli e le minacce che i musulmani d’India dovevano
fronteggiare nella vita quotidiana, egli identificava non nella indipendenza
politica ma nella riaffermazione culturale la soluzione per raggiungere
nuovamente il benessere della comunità.
Attraverso la riscoperta e la riappropriazione del proprio patrimonio storico,
della propria morale e delle proprie tradizioni, l’antica gloria, il potere e la
prosperità sarebbero tornate al popolo islamico, ricostituendo così la primitiva e
compatta comunità dei credenti.
Mawdudi individuava come elemento essenziale per la sopravvivenza della
fratellanza islamica una visione dell’Islam che non si limitasse a considerarne i
soli aspetti religiosi e di culto, ma evidenziasse altresì il suo ruolo di “guida” e
di “stile di vita”. “True Muslims,” scrisse, “ merge their personalities and
6
Mawdudi, Sayyd Abu‘l-A‘la, “Pakistan versus Jewish State”, in Selected Speeches, s. l.,
1981, ed. originale in urdu 1944, pagg. 35, 36.
15
existence into Islam.” Essi subordinavano tutti i loro comuni ruoli e funzioni
sociali “to the one role of being Muslims”.
7
Una parte minima dei musulmani d’India erano “completely immersed in
Islam”, ma la maggior parte vivevano solo parzialmente la loro natura di
musulmani: “They believe in Allah, offer their prayers to Him, solemnly tell
their beads in praise of Him, [and] partially abstain from what is forbidden” ma
“their likes and dislikes, daylies transactions, business activities, [and] social
relations” non avevano alcun legame con la religione, essendo unicamente
basate su “personal considerations and self-interest”.
8
Proprio questo gruppo di “partial muslims”, così come lo stesso Mawdudi li
definisce
9
era ritenuto colpevole d’aver indebolito la comunità islamica: avendo
relegato l’Islam alla sola dimensione privata e familiare, essi avevano
contribuito alla progressiva perdita della propria identità culturale, sociale e
storica.
La creazione dello stato pakistano, secondo i suoi timori, avrebbe generato nella
comunità musulmana la falsa sicurezza di aver finalmente creato una società
sicura e priva di pericoli, mentre in realtà la componente religiosa vedeva
sminuito sempre più il suo ruolo nella vita quotidiana degli individui.
Mawdudi e i suoi compagni ritenevano che la soluzione per ottenere
l’indipendenza politica non fosse legata alla conquista di nuovi territori su cui
estendere la propria sovranità, come credevano e sostenevano i nazionalisti, ma
fosse invece connessa alla riaffermazione culturale tramite cui assicurare la
sopravvivenza religiosa e spirituale degli ideali islamici.
L’obiettivo primario era quello di sottolineare in ogni singolo momento di vita
la propria diversità, l’essere “uomo islamico”: mantenendo la propria religiosità
7
Mawdudi, Sayyd Abu‘l-A‘la, Let Us Be Muslims, Khurram Marad, Kuala Lampur:
Noordeen, 1990, pag. 115.
8
Mawdudi, Sayyd Abu‘l-A‘,“Formal and Real Islam Differentiated”, in Selected Speeches,
op. cit., pag 40 e Let Us Be Muslims, Khurram Marad, Kuala Lampur: Noordeen, 1990, pag.
115. e capp. 2-4, 7-9.
9
Mawdudi, Sayyd Abu‘l-A‘,“Formal and Real Islam Differentiated”, op. cit..