2
attraverso il quale introdurre nelle imprese logiche interpretative nuove della
realtà aziendale ed accrescere così le capacità comunicative e di fine – tuning
verso la comunità finanziaria, elemento sempre più cruciale nella dinamica di
reperimento delle risorse necessarie alla crescita. In secondo luogo, l’EVA può
diventare la grandezza di riferimento intorno alla quale costruire un sistema di
management integrato e coerente orientato al valore, che ricomprenda la
fissazione degli obiettivi aziendali, la pianificazione, la valutazione delle
performance, l’incentivazione al management, la gestione del portafoglio di
attività, le scelte di capital budgeting, il cambiamento della cultura d’impresa, la
comunicazione finanziaria.
Nel corso del primo capitolo si inserisce il modello nel contesto teorico che ne
rappresenta il substrato ed in quello ambientale che ne ha determinato la
diffusione; si analizzano cioè brevemente i principali contributi accademici da
cui deriva la logica operativa dell’EVA , l’importanza crescente
dell’orientamento alla creazione del valore ed i cambiamenti della realtà
finanziaria e competitiva che hanno radicalmente mutato il quadro di riferimento
nel quale le imprese sono chiamate ad operare.
Nel secondo capitolo si introducono i principi fondamentali del modello: si
definiscono i concetti di Economic Value Added e di Market Value Added, si
individuano le principali rettifiche che si suggerisce di apportare ai dati della
contabilità per accrescerne la significatività e la coerenza con le logiche di
valutazione finanziaria, si illustra la logica di valutazione delle imprese e dei
3
progetti d’investimento basata sull’attualizzazione degli EVA e la coincidenza
dei risultati con la metodologia del Discounted Cash Flow.
Nel terzo capitolo si concentra l’attenzione sulle caratteristiche dell’EVA come
misura di performace e possibile obiettivo gestionale. Innanzitutto se ne valuta la
coerenza con la teoria di creazione del valore, anche in termini comparativi
rispetto ad altri tradizionali indicatori di risultato. Si analizzano poi alcune
problematiche di calcolo, riguardanti la definizione del capitale investito, il ruolo
dei processi d’ammortamento ed il possibile effetto conservativo rispetto agli
investimenti a redditività differita, la determinazione del costo medio ponderato
del capitale, la scomposizione del risultato complessivo d’impresa in una
molteplicità di risultati parziali delle varie parti e livelli. Infine, si valuta la
correlazione fra EVA e valore azionario, ovvero la presunta maggiore capacità
di “spiegare” le variazioni dei corsi borsistici.
Nel capitolo quarto si analizza uno degli elementi fondamentali della “filosofia
gestionale” implicita nel modello, ovvero la strutturazione di efficaci piani
incentivanti collegati all’EVA . La logica sottostante è che un reale e pieno
orientamento al valore da parte dell’impresa sia ottenibile solamente mediante
un’imprenditorialità capillarmente diffusa all’interno dell’organizzazione e che
quest’ultima sia crucialmente legata all’esistenza di incentivi monetari
significativamente legati al contributo di valore di ognuno. Dopo aver analizzato
le motivazioni che possono condurre all’implementazione di un piano di
incentivi e le caratteristiche che quest’ultimo dovrebbe avere, si descrivono
4
modalità e limiti dell’incentivazione tradizionale e le nuove logiche incentivanti
proprie del modello dell’EVA .
Il capitolo quinto tratta alcuni rilevanti aspetti strategici ed organizzativi connessi
ad un integrato utilizzo del modello dell’EVA ed all’adozione della logica del
valore. In particolare, si valuta l’impatto sui processi di pianificazione ed
allocazione interna delle risorse, si analizza il concetto di EVA� drivers, sia
nella dimensione finanziaria che non finanziaria, si sottolinea il potenziale ruolo
comunicativo del modello, internamente come strumento di cambiamento della
cultura aziendale ed esternamente come linguaggio comune rispetto alla
comunità finanziaria e mezzo di diffusione del valore creato.
L’ultimo capitolo di questo lavoro contiene la descrizione dell’implementazione
del modello dell’EVA da parte del gruppo Siemens. Il caso aziendale trattato è
di grandissimo interesse per molte ragioni, che vanno al di là di quelle più ovvie
riguardanti l’importanza ed il prestigio dell’impresa coinvolta. L’adozione
recente di queste nuove logiche colloca attualmente il gruppo nel pieno del
processo di transizione strategica ed organizzativa, parallelamente all’emergere
delle prime chiare ed univoche risposte dei mercati finanziari al nuovo corso.
L’implementazione avvenuta in collaborazione con la Stern Stewart & Co.,
ovvero la società di consulenza statunitense depositaria del marchio EVA ed
“inventrice” del modello, assicura la piena coerenza logica con i fondamenti
teorici descritti nella parte generale e permette parallelamente di evidenziare
l’eventuale difficoltà a tradurre certi aspetti in realtà operativa. Soprattutto, il
caso Siemens rappresenta un rilevante esempio di come la globalizzazione e
5
l’accresciuta integrazione finanziaria ed istituzionale determini l’estendersi delle
logiche e della filosofia gestionale sottostanti il modello dell’EVA anche a
realtà radicate in sistemi di capitalismo, quali quello tedesco (nonché quello
italiano), in passato da esse molto distanti ed oggi invece pienamente coinvolti
nel processo di reciproca “contaminazione” culturale ed operativa.
La preparazione di quest’ultima parte della tesi è stata resa possibile da oltre due
mesi di permanenza nell’ambito del reparto Controllo di Gestione della Siemens
S.p.A., nei quali ho avuto modo di consultare vario materiale interno e di
raccogliere direttamente alcune testimonianze ed informazioni che hanno
impreziosito e reso più consapevole l’intero lavoro.
Desidero pertanto ringraziare per l’opportunità offertami nonché per l’aiuto e le
informazioni raccolte: il Sig. Brasca, responsabile di Finanza e Controllo di
Gestione; il Dott. Frisoni, responsabile del Personale; l’Ing. Garlaschelli,
responsabile delle Attività Centrali; il Dott. Winteler, Controller di Siemens
Facility Management & Services S.p.A.; il Sig. Artuso, dell’Ufficio Personale. Il
ringraziamento più grande va a tutto lo staff del Controllo di Gestione, per
l’ospitalità, la disponibilità e l’aiuto offertomi: il Sig. Oberholzer, Giuseppe
Bagnariol, Maria Businaro, Marco Ambrogi, Fabio Ciabatti, Gianluigi Fiorini,
Marco Michel. Un grazie particolare ad Enrico Romeri, che con la sua pazienza e
disponibilità ha rappresentato il principale punto di riferimento nel non semplice
sforzo di orientamento in una realtà aziendale così vasta, complessa ed
eterogenea.
6
CAPITOLO 1
LA DIFFUSIONE DEL MODELLO ED IL
CONTESTO TEORICO ED AMBIENTALE DI
RIFERIMENTO
1.1 La crescente diffusione e notorietà
Il modello dell’Economic Value Added è uno strumento manageriale e valutativo
utilizzabile per misurare la performance periodica, valutare progetti
d’investimento, singole attività ed imprese e delineare sistemi di incentivazione
al management, il tutto in termini di valore creato o distrutto; più
ambiziosamente, esso può essere definito come un innovativo sistema di
corporate governance, capace di introdurre nelle organizzazioni una logica
gestionale nuova, orientata, come detto, al valore. E’ stato sviluppato dalla
società di consulenza statunitense Stern Stewart & Co., che ne ha anche
depositato l’acronimo EVA , a partire dal lontano 1982 ed ha guadagnato una
rilevante notorietà in particolare grazie al libro “The Quest for Value: The EVA�
Management Guide” di G. Bennett Stewart III, pubblicato da HarperCollins nel
19911, nonché a numerosi articoli comparsi sul “Journal of Applied Corporate
Finance”, edito dalla medesima società di consulenza. Già nel 1993 Fortune
definiva l’EVA “The Real Key to Creating Wealth” e nel 1996 parlava di “A
1
L’edizione italiana è G. B. STEWART III (a cura di MASSIMO SPISNI), La ricerca del valore,
Milano, Egea, 1998.
7
New Way to Find Bargains”; Drucker ha plaudito all’EVA come “l’unica vera
misura di produttività totale dei fattori produttivi utilizzati, che riflette tutte le
dimensioni con cui il management può aumentare il valore”2; un significativo
riconoscimento accademico è rappresentato dall’inserimento nell’ultima edizione
del manuale di Finanza Aziendale di Brealey e Myers3, fondamentale libro di
riferimento della materia. Grandi imprese come AT&T, Coca Cola, Monsanto,
Polaroid, Quaker Oats, Tenneco, Toys R Us hanno deciso di implementare
questo modello di performance, valutazione ed incentivi affidandosi ai consigli
dei suoi creatori e “l’onda lunga” dell’EVA sta raggiungendo con sempre
maggiore decisione anche l’Europa (Diageo, Siemens; in Italia è celebre
soprattutto l’esperienza della Pirelli4); a simboleggiare anche fisicamente il
diffondersi delle logiche sottostanti l’EVA in Europa, la Stern Stewart & Co.
ha recentemente aperto propri uffici a Londra, Parigi, Monaco e Milano5.
Tra le numerose metodologie emerse negli ultimi anni nell’ambito del cosiddetto
value based management, spesso legate a diverse realtà consulenziali ed a volte
divergenti quasi solo per aspetti nominalistici, il modello dell’EVA è stato
certamente quello capace di suscitare il maggiore interesse, sia nel mondo delle
imprese e delle istituzioni finanziarie che in quello accademico.
2
P. DRUCKER, “The Information Executives Truly Need”, Harward Business Review, January-
February, pagg. 54-61, ripreso da A. C. VERTUCCI, L’analisi del valore tra intuito e ragione. Alcune
considerazioni sull’uso crescente del modello dell’EVA�, in Analisi Finanziaria, n° 33, 1° Trim. 1999,
pag. 5.
3
R. A. BREALEY, S. C. MYERS, Principles of Corporate Finance, Sixth Edition, New York,
Irwin/McGraw-Hill, 1999; in particolare, si vedano le pag. 325-330.
4
La quale peraltro non si è avvalsa della consulenza della Stern Stewart & Co.
5
In Italia è stata creata la società Ambrosetti Stern Stewart, in collaborazione con lo Studio Ambrosetti.
8
A parte le specifiche critiche che è possibile rivolgere a questo management tool
e che analizzeremo nel prosieguo del lavoro, i detrattori del modello e gli
osservatori più scettici concentrano le loro attenzioni su due aspetti: la presunta
assenza di originalità e novità nell’approccio ed il periodico emergere di “mode
manageriali” inizialmente elette a nuove panacee da innumerevoli entusiastici
articoli e libri e poi spesso dimenticate o ridimensionate nella loro importanza.
Per quanto riguarda l’originalità del contributo, non c’è dubbio che la quasi
totalità delle idee su cui il modello si fonda non siano nuove ed anzi in alcuni
casi vecchie di secoli (come il concetto di reddito residuale)6; l’elemento creativo
che si può riconoscere sta nella capacità di sintetizzare e coniugare
coerentemente questa molteplicità di contributi, con in aggiunta il grande merito
di un approccio pragmatico capace di trascinare nella concreta realtà operativa
delle imprese alcune idee non nuove, ma in precedenza confinate alle pagine dei
trattati di economia. Assumendo un'altra prospettiva, si può sostenere che proprio
il rifarsi a varie affermate e largamente riconosciute teorie rappresenti al
contrario un punto di forza, in quanto dà rigore e solidità all’analisi; questo è
quanto sosterremo in seguito, dal momento che nostro interesse è verificare la
razionalità e l’efficacia dell’impostazione e non misurare i meriti o la fantasia
della Stern Stewart & Co.
Quanto al secondo aspetto, ci si può chiedere se la grande attenzione oggi
riservata all’EVA replichi gli entusiasmi tributati in precedenza a concetti quali
9
Total Quality Management, Quality Circles, Reengineering, Just in Time,
Benchmarking e più recentemente a Outsourcing e Activity Based Costing.7 Una
prima differenza è che il modello dell’EVA fornisce una logica operativa e
decisionale di portata generale, non soluzioni specifiche e circoscritte e quindi,
per quanto utili, parziali. Ovviamente neanche l’EVA è in grado di spiegare e
ricomprendere ogni aspetto di una realtà così complessa e composita quale quella
d’impresa; tuttavia, partendo da logiche finanziarie, esso individua categorie
interpretative e decisionali comuni, condivisibili e comprensibili a tutte le
funzioni, tutte le attività e tutti i livelli gerarchici, nonché ai mercati finanziari,
rappresentando potenzialmente un significativo contributo strategico,
organizzativo e comunicativo. Una seconda differenza è che il successo
dell’EVA è legato crucialmente a cambiamenti istituzionali, competitivi e
finanziari aventi carattere strutturale e prevedibilmente duraturo; al di là quindi
delle sigle, dei protagonismi consulenziali e dei possibili aggiustamenti operativi,
i fondamenti teorici e l’approccio del modello (in particolare, l’attenzione ai
processi di creazione del valore e ad adeguate e coerenti misure di performance,
al costo del capitale proprio, ai sistemi di incentivazione, all’integrazione fra
strategia e finanza) sono presumibilmente destinati a perdurare e a contare
sempre più nelle modalità gestionali prevalenti ed in maniera maggiormente
omogenea nei diversi sistemi – paese.
6
Questo è vero anche per esplicita e ripetuta ammissione dei suoi “inventori”; J. Stern dichiara ad
esempio: “The financial concepts underlying EVA� were not, of course, invented at Stern Stewart &
Co.”, Stern Stewart EVA� roundtable, in Journal of Applied Corporate Finance, Volume 7, Number 2,
Summer 1994, pag. 46.
10
E’ quindi possibile individuare tre categorie di fattori, teorici ed ambientali, che
hanno determinato l’emergere, l’affermarsi ed il diffondersi dell’EVA� financial
management system:
1) Le radici teoriche, finanziarie e microeconomiche, di riferimento: in
particolare, i lavori di Modigliani e Miller, il CAPM, la teoria dell’efficienza
dei mercati finanziari e dei costi d’agenzia, la nozione economica di reddito
residuale.
2) L’affermarsi della teoria di creazione del valore, secondo la quale l’obiettivo
strategico prioritario del management è l’incremento della ricchezza dei
propri azionisti mediante la massimizzazione del valore azionario generato.
3) Il mutato scenario competitivo e finanziario, terreno fertile per la diffusione
del modello: la globalizzazione; la liberalizzazione nella circolazione dei
capitali; l’apertura dei diversi sistemi - paese e la reciproca “contaminazione”
culturale e operativa; il progresso tecnologico e le nuove possibilità da esso
offerte; la rinnovata influenza ed il ruolo più attivo dei grandi investitori
istituzionali; la crescente integrazione fra strategia e finanza, fra imprese e
mercati finanziari; in generale, la maggiore disponibilità, mobilità e pressione
competitiva del fattore capitale alla ricerca di adeguati rendimenti in relazione
ai rischi assunti.
7
Per un’analisi del rapido diffondersi di “mode manageriali” sulla stampa economica si veda J. A.
BRICKLEY, C. W. SMITH, J. L. ZIMMERMAN, Management fads and organizational architecture,
in Journal of Applied Corporate Finance, Volume 10, Number 2, Summer 1997, pag. 24-39.
11
1.2 Le principali radici teoriche
1.2.1 I contributi di Modigliani e Miller
I lavori di Modigliani e Miller8 sulla struttura finanziaria d’impresa (ovvero le
modalità di finanziamento degli investimenti) e la relativa influenza sul valore
complessivo della medesima rappresentano uno dei fondamenti della moderna
teoria della finanza. Definiamo valore di mercato complessivo dell’impresa (V)
la somma dei valori di mercato del capitale azionario (E) e del debito (D; in
quest’ultimo caso, il valore di mercato si fa generalmente coincidere, almeno in
prima approssimazione, con quello di libro).
V=E+D
Per valore di mercato di un titolo o di un insieme di titoli (ad esempio, il capitale
azionario complessivo) si intende il valore attuale dei flussi di cassa futuri cui il
possesso dei titoli dà diritto, scontati ad un tasso coerente con il profilo di rischio
in essi insito. L’impresa stessa è concepita come strumento in grado di generare
cash flow ed il suo valore complessivo V è dato proprio dalla proiezione dei
flussi operativi che si libereranno in futuro (siano essi di pertinenza degli
azionisti o dei creditori) scontati ad un tasso definibile come costo medio
8
La letteratura in materia, oltre agli articoli originali, è copiosa; tra i molti, si veda ad esempio S. A.
ROSS, R. W. WESTERFIELD, J. F. JAFFE, Finanza Aziendale, Bologna, Il Mulino, 1997.
12
ponderato del capitale (weighted average cost of capital, o WACC9). Il WACC è
ottenuto come media del costo delle diverse fonti di finanziamento, ponderate
sulla base dei rispettivi valori di mercato, generalmente valori - obiettivo, rispetto
a V.
WACC = Re E/V + Rd (1-Tc) D/V
Il costo del capitale proprio Re, cioè il rendimento atteso e “preteso” in equilibrio
dagli investitori, è legato al livello di rischio di business e finanziario delle
attività svolte; quello del capitale di debito Rd, inferiore data la minore variabilità
dei rendimenti e quindi il minor rischio, dalle condizioni prevalenti e previste sui
mercati, dalla solidità finanziaria attuale e prospettica dell’impresa e, qualora si
considerino le imposte, dallo scudo fiscale del debito (Tc rappresenta l’aliquota
marginale sugli utili societari). Se il debito non ha un’elevata probabilità
d’insolvenza, l’obiettivo di massimizzare V coincide con quello di massimizzare
il valore dei mezzi propri E, ovvero la quota di ricchezza di pertinenza degli
azionisti. Data una certa struttura degli investimenti (cioè dell’attivo) e le relative
previsioni di cash flow operativo, le possibilità di creare valore per gli azionisti
agendo sul lato del passivo consistono nel tentativo di minimizzare il WACC,
individuando, se possibile, una struttura finanziaria E/D ottimale.
9
Un’approfondita analisi del concetto di costo medio ponderato del capitale è rinvenibile in A. POLI, Il
costo del capitale – Teoria della Finanza e mercati finanziari, Milano, Etas Libri, 1997; D. VENANZI,
Il costo medio ponderato del capitale: questo sconosciuto, in La Valutazione delle Aziende, numero 9,
giugno 1998, pag. 34-48.
13
Nel loro primo articolo del 195810 Modigliani e Miller assumono l’ipotesi di
mercati perfetti (assenza di imposte, nessun costo di transazione, nessuna
asimmetria informativa, possibilità per gli individui di indebitarsi allo stesso
tasso al quale si indebitano le imprese) e, attraverso una dimostrazione basata sul
principio di non arbitraggio, concludono che la struttura finanziaria è irrilevante e
non in grado di creare valore, essendo V legato unicamente alla redditività dei
progetti d’investimento posti in essere e prospettici ed insensibile al rapporto
E/D. Questo deriva dalla costanza del WACC (principio di conservazione del
rischio), che è in questo caso legato unicamente alla variabilità dei flussi
operativi ed alle caratteristiche delle attività svolte, ovvero al solo rischio di
business; ciò che determina il costo del capitale è il suo utilizzo e non le modalità
con le quali è finanziato. Pur essendo il debito la fonte meno costosa, un suo
incremento non porta ad una riduzione del costo medio ponderato del capitale, in
quanto determina un aumento del rischio finanziario che, agendo sul costo del
capitale proprio, bilancia perfettamente l’effetto del cambiamento di struttura
finanziaria lasciando invariato il WACC.
Nell’articolo del 196311 si introduce nel modello una variabile di importanza
cruciale per le scelte finanziarie, ovvero le imposte; i risultati cui si giunge sono
esattamente capovolti e la deducibilità fiscale degli interessi passivi fa emergere
tutta la rilevanza delle scelte di struttura finanziaria. Le normative fiscali
10
F. MODIGLIANI, M. H. MILLER, The Cost of Capital, Corporation Finance, and the Theory of
Investment, in American Economic Review, giugno 1958.
11
F. MODIGLIANI, M. H. MILLER, Corporate Income Taxes and the Cost of Capital: A Correction, in
American Economic Review, giugno 1963.
14
prevalenti assicurano l’esistenza di uno scudo fiscale del debito12, elemento in
grado di creare valore dal lato del passivo minimizzando il carico di imposte. A
parità di flusso di cassa operativo prima delle imposte, il valore dell’impresa
indebitata differisce da quello di un’impresa finanziata solo con capitale proprio
del valore attuale dei risparmi d’imposta futuri. Non considerando altri fattori, la
massimizzazione di V passerebbe quindi attraverso la massimizzazione del
risparmio d’imposta, ottenibile indebitandosi fino a che gli interessi passivi non
azzerano l’imponibile. In termini di conservazione del rischio, in questo caso il
WACC diminuisce all’aumentare del debito perché il Fisco, attraverso il
risparmio d’imposta, si accolla l’onere di una parte di esso; il costo del capitale
proprio aumenta, ma meno che in ipotesi di assenza di imposte, rendendo
comunque positivo l’effetto complessivo netto di un maggiore indebitamento.
L’esistenza e l’individuabilità di una struttura finanziaria ottimale, nonché i limiti
alle possibilità d’indebitamento, sono fra gli argomenti più dibattuti e per certi
versi insoluti della Finanza Aziendale; altri decisivi elementi da tenere in
considerazione sono i costi del dissesto finanziario, le imposte personali, i costi
d’agenzia del debito e quelli dei mezzi propri, le caratteristiche di rischio dei
diversi business, l’esistenza di asimmetrie informative fra impresa e investitori,
nonché ovviamente le evidenze empiriche, che in questo segmento problematico
sono spesso in contrasto con le analisi e le prescrizioni teoriche. Nell’ambito di
questo lavoro sono significativi soprattutto alcuni degli elementi presenti negli
storici articoli di Modigliani e Miller: la centralità dei flussi di cassa nel
12
In Italia l’introduzione della DIT e dell’IRAP tendono a ridurre parzialmente i vantaggi fiscali
dell’indebitamento, in maniera peraltro difficilmente quantificabile in generale.
15
determinare, attraverso un procedimento di attualizzazione, il valore di
un’impresa; il concetto di costo medio ponderato del capitale; l’importanza
cruciale nelle scelte finanziarie della variabile fiscale e dei risparmi d’imposta
legati al debito.
1.2.2 Il Capital Asset Pricing Model (CAPM)
Il CAPM
13
è il più diffuso modello di pricing del rischio, utilizzabile per
determinare il costo del capitale proprio Re. L’ottica assunta è quella di
investitori che diversificano ampiamente i propri investimenti, costruendo
portafogli sufficientemente ampi di titoli rischiosi e non rischiosi
14
. Il rischio
complessivo associato ad un singolo titolo è misurabile dallo scarto quadratico
medio dei suoi rendimenti (nell’ipotesi che essi si distribuiscano normalmente
attorno al rendimento atteso). In presenza di diversificazione nell’investimento,
tuttavia, l’investitore è interessato allo scarto quadratico medio del rendimento
del portafoglio nel suo complesso, mentre con riferimento al singolo titolo ciò
che conta è il contributo di rischiosità apportato al portafoglio stesso. In presenza
di correlazioni imperfette fra i rendimenti dei vari titoli, questo contributo al
rischio del portafoglio non coincide con il rischio complessivo.
13
I due lavori originari con i quali il modello fu presentato sono: W. F. SHARPE, Capital Asset Prices: A
Theory of Market Equilibrium under Conditions of Risk , in Journal of Finance, settembre 1964; J.
LINTNER, Security Prices, Risk and Maximal Gains from Diversification, in Journal of Finance,
dicembre 1965. Anche in questo caso la letteratura in materia è amplissima; per la breve esposizione
qui contenuta si è fatto principalmente riferimento ai già citati S. ROSS, R. W. WESTERFIELD, J. F.
JAFFE, Finanza aziendale , Bologna, Il Mulino, 1997 e A. POLI, Il costo del capitale - Teoria della
Finanza e mercati finanziari, Milano, Etas Libri, 1997.
14
Il riferimento istituzionale implicito è quindi ad un modello di capitalismo diffuso; quando un singolo
investimento risulta invece preponderante, il CAPM tende a sottostimare il rendimento proporzionale al
rischio effettivamente sopportato.